Materiali Polimerici in Biomedicina (PDF) - 2021
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2021
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I materiali polimerici sono descritti e classificati in base alla loro struttura, configurazione e cristallinità. L'articolo spiega come la disposizione delle unità monomeriche influenzi le proprietà del materiale, offrendo un'analisi di omopolimeri e copolimeri. Vengono inoltre descritte le transizioni termiche, il modulo elastico e l'influenza della temperatura sul comportamento del materiale.
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MATERIALI POLIMERICI DI SINTESI: Nella seguente tabella sono riportati i principali materiali polimerici usati in ambito biomedicale: Si tratta di materiali considerati impiantabili o che vengono utilizzati a contatto con il corpo umano e con i fluidi biologici. Per esempio, il Poliacrilonitrile v...
MATERIALI POLIMERICI DI SINTESI: Nella seguente tabella sono riportati i principali materiali polimerici usati in ambito biomedicale: Si tratta di materiali considerati impiantabili o che vengono utilizzati a contatto con il corpo umano e con i fluidi biologici. Per esempio, il Poliacrilonitrile viene utilizzato solamente per fare delle fibre cave e membrane per ossigenatori e dializzatori. Il Polistirene viene utilizzato solamente per fare dei contenitori impiegati per esempio per la circolazione extra corporea. Gli altri materiali sono materiali che possono essere utilizzati per fare protesi impiantabili o altrimenti cateteri che possono essere utilizzati per impieghi sia temporanei che a lungo termine. Il Politetrafluoroetilene e il PET vengono utilizzati principalmente in ambito vascolare, il polimetilmetacrilato viene utilizzato in ambito oftalmologico, come anche i siliconi, che vengono anche utilizzati per tutto ciò che riguarda la chirurgia estetica. Il Kevlar è un materiale che rientra tra i tecnopolimeri, i polimeri biodegradabili vengono utilizzati come materiali in fase di ricerca per usi vascolari e i poliuretani che possono essere anch’essi utilizzati in ambito vascolare. Alcuni poliuretani appartengono ad una famiglia più grande che è quella dei polimeri intelligenti. Ci focalizzeremo maggiormente su: siliconi, poliuretani, poliammidi (Kevlar), poliesteri biodegradabili. Configurazione di un materiale polimerico: Quando parliamo di configurazioni intendiamo come le varie unità monomeriche (unità ripetitiva → monomero) sono disposte sulle macromolecole e come le macromolecole sono organizzate tra loro. Abbiamo quindi la possibilità di avere delle catene macromolecolari con diverse conformazioni: lineare, ramificata, reticolata, dendrimeri. Nel caso di configurazione lineare, le unità monomeriche sulla macromolecola sono legate da legami covalenti, mentre tra una catena macromolecolare e l’altra ci sono solamente legami deboli. Si tratta della configurazione più semplice. Nel caso di configurazione ramificata sono presenti delle ramificazioni laterali che sono costituite sempre dalle stesse unità monomeriche, ma che si formano per ragioni dovute al processo di polimerizzazione. Una terza configurazione è la configurazione reticolata. Questa configurazione rende difficile vedere delle singole macromolecole. Esse sono infatti legate tra di loro da legami covalenti (legami forti). I punti evidenziati in verde sono detti punti di reticolazione e fanno sì che le varie macromolecole siano legate tra di loro da legami forti. La configurazione influenza le caratteristiche del materiale polimerico. Una configurazione lineare o una ramificata porta ad avere materiali termoplastici, dunque rimodellabili per azione di temperatura, calore e pressione (si tratta di materiali che oggigiorno vengono impiegati come materiali da riciclo). Diversamente, i polimeri reticolati non possono essere rimodellati per azione di temperatura o pressione, sono dunque materiali termoindurenti. Una seconda differenza risiede nelle caratteristiche di questi materiali in termini di degradazione e in termini di caratteristiche meccaniche. In una configurazione lineare i legami tra catene macromolecolari sono deboli ed è dunque permesso uno scorrimento tra le varie catene e quindi una maggiore deformabilità. In una configurazione reticolata, invece, in cui le catene macromolecolari sono unite da legami forti, lo scorrimento tra le varie catene è impedito dai legami covalenti. La deformabilità di questi materiali è dunque limitata. La configurazione ramificata mostra un comportamento intermedio tra la configurazione lineare e la configurazione reticolata. Nelle configurazioni dei materiali polimerici rientrano anche i dendrimeri, che sono delle particolari strutture polimeriche che crescono ad albero partendo da un punto centrale. Sono strutture molto complesse. Una volta specificato il tipo di configurazione, possiamo parlare di omopolimeri e copolimeri (non li vediamo in questa parte di corso). Gli omopolimeri mostrano sulla catena macromolecolare unità ripetitive solamente di un unico tipo. Sono quindi costituiti da un solo tipo di monomero. I copolimeri sono invece formati da due o più monomeri. Ciò significa che nella catena macromolecolare possono essere uniti due o più monomeri. I copolimeri danno dunque origine a diversi materiali polimerici. In questo modo è possibile sfruttare le caratteristiche principali di diversi materiali polimerici e metterle insieme. Nel copolimero i monomeri sono legati covalentemente nella stessa catena macromolecolare. Il copolimero risultante avrà delle caratteristiche intermedie tra quelle dei vari materiali polimerici che lo compongono. Questo permette per esempio di mettere insieme un materiale che ha un alto modulo con un materiale che ha un’alta deformabilità in modo tale da ottenere un materiale con modulo elevato, ma anche con una certa deformabilità. Le caratteristiche dei copolimeri dipendono anche da come le varie unità ripetitive sono organizzate sulla catena macromolecolare. I copolimeri possono essere: alternati, a blocchi, casuali, ad innesto e ad innesto reticolato. La disposizione del copolimero influenza le caratteristiche del materiale e la loro riproducibilità (una disposizione casuale, per esempio, è meno riproducibile rispetto a un copolimero alternato o a blocchi). Nel caso di copolimero ad innesto la catena principale è costituita solamente da un tipo di polimero e le ramificazioni che contengono solamente un'altra tipologia di polimero. Nel caso di copolimero ad innesto reticolato, le ramificazioni portano ad avere un legame covalente tra due macromolecole e si dispongono dunque in modo tale da avere un copolimero reticolato. Tutte queste configurazioni permettono di avere materiali con caratteristiche molto diverse. I copolimeri su cui ci focalizzeremo maggiormente sono i copolimeri a blocchi perché sono quelli che ci permettono di variare in maniera più drastica le caratteristiche dei materiali polimerici. Cristallinità nei materiali polimerici: In un polimero posso avere due fasi: una amorfa ed una cristallina. Ricordiamo che è possibile ottenere polimeri totalmente amorfi, dunque con un grado di fase amorfa pari al 100%, mentre non è possibile avere una conformazione con un grado di cristallinità al 100%. Quando si parla di cristallinità, le macromolecole seguono una disposizione molto ordinata nello spazio (disposizione a lamelle). Le macromolecole così organizzate, presentano dei difetti che fanno sì che non si possa mai avere una cristallinità pari al 100%. Queste lamelle formano a livello tridimensionale quelli che vengono chiamati sferuliti. Per la presenza di questi sferuliti, i materiali cristallini sono sempre opachi perché hanno un indice di rifrazione della luce differente rispetto ai materiali amorfi, dal momento che tra uno sferulito e l’altro ci son delle zone di confine in cui la luce viene riflessa in modo diverso. A livello ottico dunque, abiamo la percezione di un materiale opaco. In un materiale amorfo, invece, le catene macromolecolari sono disposte in modo casuale e la luce viene riflessa in maniera omogenea e il materiale risulta essere trasparente. La cristallinità dipende dalla storia termica e dalla storia meccanica del campione. La storia termica consiste nel sottoporre il materiale polimerico ad una certa temperatura in modo tale da promuovere un riarrangiamento delle catene macromolecolari (scaldando o raffreddando) e dunque permettendogli di riorganizzare la propria configurazione e modificare la propria cristallinità. Per esempio, un determinato materiale viene lavorato per ottenere un certo dispositivo o un certo semi lavorato. È possibile riscaldare nuovamente il materiale polimerico in modo tale da rammollirlo. Innalzando la temperatura in un materiale polimerico, le catene macromolecolari possono scorrere più facilmente e quindi si possono riorganizzare. Scaldando il materiale posso permettergli di riorganizzarsi e aumentare la cristallinità. Questo avviene anche raffreddando un materiale. Raffreddando in modo veloce un materiale polimerico non vine promosso lo scorrimento tra macromolecole. Raffreddando invece in modo lento, le macromolecole riescono a riorganizzarsi dando luogo ad una nuova struttura. (storia termica → sia riscladamento che raffreddamento del materiale) Dal punto di vista meccanico, è possibile dare una direzione preferenziale alle macromolecole attraverso estrusione o laminazione o stiramento. Estrusione e laminazione sono processi che ci permettono di lavorare il materiale facendolo fuoriuscire da una matrice e lasciando che questo prenda la propria forma sul nastro trasportatore. In questo caso diamo dunque una direzione preferenziale alle macromolecole, dal momento che dall’uscita da questa matrice il materiale è libero di disporsi soprattutto in una direzione definita. Per quanto riguarda lo stiramento, si parla di stiramento quando per esempio vogliamo fare delle fibre di materiale polimerico. All’uscita dall’estrusore, quando il materiale è ancora ad uno stato di rammollimento, le fibre vengono stirate e dunque il materiale è in grado di disporsi in maniera preferenziale lungo l’asse delle fibre. Se si dispongono in una stessa direzione, la cristallinità aumenta, dal momento che aumenta l’ordine di disposizione delle macromolecole. Dunque, la cristallinità non è una caratteristica intrinseca del materiale, ma può essere variata applicando una certa storia termica oppure uno sforzo meccanico. Nei polimeri coesistono zone amorfe con zone cristalline. Materiali con diverse concentrazioni di fase cristallina e amorfa presentano diverse caratteristiche meccaniche e di degradazione. Un materiale amorfo presenta legami leggeri tra le catene macromolecolari, dunque un materiale con preponderante fase amorfa risulta altamente modificabile tramite deboli forze applicate sui legami leggeri. Si modifica finchè le catene molto compattate della fase amorfa non sono ben disposte lungo la direzione di applicazione del carico. A questo punto si va ad agire anche sulle fasi cristalline. Se abbiamo un materiale con una bassa percentuale di fase amorfa, la deformabilità del materiale sarà ridotta e quindi si tratterà di un materiale con maggiori caratteristiche meccaniche, inteso come sforzo a rottura e modulo elastico. Transizioni termiche: Associate alla fase amorfa e alla fase cristallina, ci sono delle transizioni termiche particolari. In particolare, per quanto riguarda la fase amorfa, ci sono due temperature caratteristiche. La prima è la temperatura di transizione vetrosa, cioè la temperatura alla quale avviene il passaggio da stato vetroso a gommoso. La transizione vetrosa è una transizione isofasica, il materiale risulta quindi essere sempre soldio, sia nello stato vetroso che nello stato gommoso. La seconda è la temperatura di rammollimento, cioè la temperatura alla quale avviene il passaggio dallo stato di solido amorfo gommoso a quello liquido viscoso. Per quanto riguarda la fase cristallina, essa ha solamente la temperatura di fusione, cioè la temperatura alla quale avviene il passaggio da uno stato solido cristallino ad uno stato liquido viscoso. Modulo elastico: Quando parliamo di materiali con una fase amorfa e una fase cristallina, possiamo studiare qual è il comportamento del modulo elastico in funzione della temperatura. Studiamo questo comportamento per diversi materiali. - Materiale amorfo al 100% (linea verde in figura): Nel caso di un materiale amorfo al 100% abbiamo la temperatura di transizione vetrosa (𝑇𝑔) e la temperatura di rammollimento (𝑇𝑟). Quando ci troviamo a temperature 𝑇 ≪ 𝑇𝑔 il materiale è allo stato vetroso. Significa che il materiale presenta macromolecole che non si possono muovere l’una rispetto all’altra, abbiamo dunque un modulo elastico elevato. Man mano che la temperatura aumenta e si avvicina alla 𝑇𝑔. Nel range di transizione vetro-gomma (𝑇𝑔) le macromolecole iniziano ad avere la possibilità di muoversi e quindi di scorrere l’una rispetto all’altra. Durante questo intervallo le catene macromolecolari si riorganizzano fino ad ottenere, alla fine di questo range, un solido gommoso (gommoso significa più deformabile). Questa transizione (vetrosa) non avviene ad un istante o ad una temperatura ben precisa. Questa transizione avviene in un intervallo di circa 15° (𝑇𝑔 ± 15°). A questo punto abbiamo un materiale che si comporta come un polimero viscoelastico e dunque deformabile. Aumentando ulteriormente la temperatura, si entra nella fase di rammollimento, nella quale il materiale perde totalmente le sue proprietà meccaniche. - Materiale amorfo - cristallino (20%-80%) (linea rossa in figura): in questo caso, al di sotto della temperatura di transizione vetrosa, che coinvolge solamente il 20% (solo la fase amorfa), il materiale avrà un alto modulo elastico. All’aumentare della temperatura verrà raggiunta la temperatura di transizione vetrosa. Avendo solamente un 20% di fase amorfa, la fase di transizione vetrosa abbasserà il modulo elastico in maniera meno marcata. Infatti, il fatto che le macromolecole del 20% rappresentato dalla fase amorfa (rispetto all’80% di fase cristallina) siano ora in grado di muoversi non avrà una grossa influenza sull’abbassamento del modulo elastico, dal momento che la maggior parte del valore del modulo elastico è dato dalla componente cristallina. All’aumentare ulteriore della temperatura verrà raggiunta la temperatura di rammollimento della fase amorfa che causerà un’ulteriore diminuzione del modulo elastico e successivamente, verrà raggiunta la temperatura di fusione della fase cristallina. Se avessimo una maggiore percentuale di fase amorfa rispetto alla fase cristallina, avremmo un maggiore abbassamento del modulo elastico in corrispondenza della transizione vetrosa (linea viola in figura). Le variazioni di temperatura del corpo umano influenzano le caratteristiche dei materiali polimerici. Questa considerazione è importante nell’ottica di utilizzare questi materiali all’interno del corpo. Anche il passaggio dalla temperatura ambiente alla temperatura corporea influenzerà le caratteristiche dei materiali, a seconda di dove si trovano le temperature di transizione, di rammollimento e di fusione. Elasticità: I seguenti grafici riassumono il comporamento in fase elastica del materiale, dunque pensando di dover sollecitare il materiale fino a una certa deformazione e rilasciare successivamente la forza che stiamo applicando. Questo avviene in moltissime applicazioni in ambito biomedicale, per esempio nel campo delle protesi vascolari. Quello che mostrano questi grafici è il fatto che nel materiale possiamo avere due comportamenti diversi. Il primo grafico sta a significare che in questo materiale si ha una preponderanza di legami forti, si tratta quindi di un materiale reticolato, o nel caso di un materiale che si trova ad una temperatura inferiore alla temperatura di transizione vetrosa, oppure un materiale con un’alta percentuale di fase cristallina. Applicando una certa forza, stando nel campo elastico. Vogliamo quindi stare sotto l’energia di legame, dal momento che non vogliamo rompere i legami covalenti. Applichiamo quindi una forza per cercare di deformare il materiale e la deformazione sarà molto bassa per via della presenza di legami forti. Stiamo quindi perturbando l’equilibrio termodinamico del materiale. Rimuovendo la forza, il materiale tenderà a tornare allo stato di equilibrio iniziale. Questo tipo di elasticità, in cui vado a perturbare uno stato di ordine come quello che si ha in una struttura cristallina, si chiama elasticità entalpica. In questo grafico, possiamo osservare come l’energia interna U aumenta quando stiamo deformando il materiale, dal momento che stiamo perturbando una situazione di ordine. L’etropia invece rimane costante, dal momento che non riesco a variare la disposizione delle catene macromolecolari perché per modificarla bisognerebbe rompere i legami, ma non sarebbe più un comportamento elastico. Consideriamo ora il caso del secondo schema, cioè di un materiale polimerico a temperatura superiore a quella di transizione vetrosa, e quindi in cui le macromolecole si possono muovere, e che presenta pochi nodi di reticolazione. Questo materiale, una volta sollecitato in campo elastico, diminuisce l’entropia, come possiamo osservare nel seguente grafico: L’entropia diminuisce perché applicando la forza in una determinata direzione, stiamo dando maggior ordine alle catene macromolecolari. Possiamo giocare sui legami deboli presenti tra una catena macromolecolare e l’altra. L’energia interna, invece, rimane pressochè costante, dal momento che stiamo agendo sui legami deboli. Una volta che rilasciamo la forza, il materiale torna alla configurazione iniziale grazie alla presenza dei nodi di reticolazione che fungono da “molla”. Questo tipo di elasticità si chiama elasticità entropica. I nodi di reticolazione sono presenti in una categoria di materiali detti polimerici elastomerici. Materiali al di sopra della temperatura di transizione vetrosa, dunque materiali gommosi, si avvicinano ad un comportamento ad elasticità entropica, ma non hanno i nodi di reticolazione che permettono di avere un quasi istantaneo recupero della forma. Questi materiali, essendo materiali viscoelastici, avranno un lento recupero della forma, dunque si troveranno in una situazione intermedia a seconda della percentuale di fase cristallina e amorfa. Un materiale con fase amorfa preponderante si avvicinerà ad un materiale con elasticità entropica. Ad ogni modo la componente viscosa rallenta il recupero elastico, dunque i materiali viscoelastici non torneranno istantaneamente alla loro forma iniziale. Vi torneranno più lentamente. Viscoelasticità: I materiali viscoelastici sono materiali che sotto l’azione di una forza mostrano un comportamento intermedio tra quello dei solidi elastici e quello dei fluidi; la loro risposta allo sforzo e in parte di tipo elastico ed in parte di tipo viscoso. Le loro proprietà meccaniche sono intermedie tra quelle di un liquido viscoso e quelle di un solido elastico. Le loro proprietà in generale dipendono dal tempo, dalla temperatura e dalla velocità di deformazione. I materiali polimerici sono materiali con comportamento viscoelastico. Presentano quindi una componente viscosa che influenza il comportamento e lo scorrimento delle catene macromolecolari. Comportamento meccanico dei materiali viscoelastici: Vediamo il caso di una prova a trazione. Nel caso di un materiale al di sotto della temperatura di transizione vetrosa, considerando un materiale amorfo-cristallino con un’alta percentuale di fase cristallina, avrà un comportamento molto fragile oppure un comportamento in cui si ha un accenno di deformabilità (linee blu in figura). Nel caso di un materiale amorfo-cristallino al di sopra della temperatura di transizione vetrosa, si avrà un comportamento come quello indicato in figura (linea verde). Al punto di “massimo” corrisponde una riduzione in un punto preferenziale della sezione resistente, ma diversamente da quello che avviene per un materiale metallico, dopo la diminuzione dello sforzo è presente un tratto lineare. Essendo un materiale viscoelastico, tutto il tratto utile del provino riduce la sezione resistente. Questa viene chiamata fase di drawing. Questo è possibile grazie alla presenza delle catene macromolecolari, che essendo sollecitate dalla forza applicata, tendono a riorganizzarsi. Dunque, il materiale si allunga e in questa fase di deformazione le macromolecole tendono ad allinearsi nella direzione di applicazione del carico. Nell’ultimo tratto del grafico avremo tutte le macromolecole allineate nella direzione di applicazione del carico e dunque da questo punto in poi non posso più agire sui legami deboli tra le macromolecole, ma agirò sui legami covalenti che andranno a rompersi. Lo sforzo aumenta, dal momento che per rompere un legame covalente necessito di energia, fino ad arrivare all’ultimo punto del grafico che rappresenta la rottura del provino. Nella fase di drawing lo sforzo rimane costante, perché tutta l’energia che sto fornendo al materiale viene impiegata per promuovere lo scorrimento tra una catena macromolecolare e l’altra nella direzione di applicazione del carico/della forza. La deformazione aumenta, perché l’energia che sto fornendo permette lo scorrimento delle catene. Aumentando la temperatura della prova di trazione, il materiale perde le caratteristiche meccaniche. All’aumentare della temperatura lo stesso materiale può avere un comportamento molto diverso, come mostrato nel seguente grafico: Aumentando la temperatura aumenta la deformabilità, perché le macromolecole hanno più libertà di muoversi l’una rispetto all’altra. Nel caso della prima linea, per esempio, siamo ad una temperatura inferiore alla temperatura di transizione vetrosa e dunque lo sforzo applicato va ad agire sui legami covalenti, necessitando quindi di una grande energia per rompere i legami covalenti presenti sulle macromolecole e deformare il materiale. Nei materiali viscoelastici, la deformabilità dipende anche dalla velocità di deformazione. Osserviamo il seguente grafico: La linea in rosso corrisponde ad un’alta velocità di deformazione, dal momento che applicando una forza molto velocemente le catene macromolecolari non hanno il tempo di scorrere una rispetto all’altra, e dunque non agirò sui legami deboli, ma agirò direttamente sui legami covalenti. Avrò dunque un materiale con bassa deformabilità e alte caratteristiche meccaniche. La linea in viola corrisponde invece ad una bassa velocità di deformazione. Applicando una forza molto lentamente, posso far scorrere una macromolecola rispetto all’altra, agendo sulle interazioni deboli presenti tra le macromolecole. Permetto quindi un movimento e aumenta la deformabilità del materiale. A parità di struttura del materiale, si possono avere comportamenti molto differenti del medesimo materiale. Resilienza e tenacità: La resilienza è l’energia presente nel materiale in campo elastico, quindi dove si presenta un andamento lineare nella curva sforzo deformazione. La tenacità è l’energia acquisita dal materiale fino a rottura. Per esempio, per un materiale il cui utilizzo rientra nel campo elastico, può essere utile avere una maggiore resilienza, piuttosto che una maggiore tenacità. Isteresi: Questo concetto è molto importante per i materiali polimerici e si lega al concetto di elasticità. Nel caso di un materiale totalmente elastico, la curva di carico e la curva di scarico sono totalmente sovrapposte dal momento che il materiale recupera totalmente la propria forma a seguito della rimozione del carico (linea blu in figura) Nel caso invece di un materiale plastico, il materiale viene deformato ma nel momento in cui viene rimosso il carico, la forma non viene recuperata durante la fase di scarico (linea verde in figura). Nel caso di un materiale viscoelastico abbiamo un comportamento descritto dalla linea rossa in figura. L’area compresa tra la curva di carico e di scarico è l’area di isteresi ed è dovuta all’energia che viene dissipata durante la fase di scarico del materiale, cioè durante la fase di recupero della forma. Questa area è dovuta allo scorrimento tra le catene macromolecolari che tendono a recuperare la loro forma. In questo movimento delle catene macromolecolari si creano dei fenomeni di attrito interno che sviluppano calore ed energia che dà luogo a questo fenomeno di isteresi. A livello teorico si ha un totale recupero della forma. In realtà, durante la fase di scarico si può avere una deformazione residua che può essere permanente oppure recuperata molto lentamente nel tempo. Immaginiamo di avere due materiali con anelli di isteresi differenti. Osservando i loro anelli di isteresi, possiamo fare delle affermazioni sul loro comportamento viscoelastico. L’anello di isteresi disegnato in blu corrisponde ad un materiale con una maggiore componente elastica rispetto al materiale con anello di isteresi rosso. Infatti, la componente viscosa ha meno influenza nel recupero della forma, rispetto al materiale con anello di isteresi rosso, in cui ho più fenomeni di scorrimento interno tra catene macromolecolari, infatti l’energia dissipata è maggiore. Dunque, la maggiore o minore energia di isteresi ci permette di capire quanto un materiale abbia preponderanza di componente elastica oppure viscosa. In generale, a minor energia di isteresi (anello di isteresi stretto) corrisponde un materiale con comportamento più simile a quello elastico. Più l’area di isteresi si assottiglia, più il comportamento elastico è prevalente nel comportamento complessivo del materiale, rispetto al comportamento viscoso. Viceversa, più l’area è ampia, più il comportamento viscoso prevale rispetto a quello elastico. Vediamo ora come il comportamento meccanico di un materiale polimerico è influenzato dal tempo. Creep: In fase di creep, la deformazione è in funzione del tempo, mentre lo sforzo è costante. Applichiamo uno sforzo costante al tempo 𝑡0 e lo teniamo fino al tempo 𝑡1. Appena applico lo sforzo ho una risposta elastica che nel tempo viene influenzata dalla componente viscosa, mostrando un andamento complessivo come mostrato in figura: Vediamo due esempi (in blu e in rosso). Quello che cambia tra i due è sempre l’influenza della componente viscosa. Nel caso in blu la componente viscosa è preponderante, mentre nel caso rosso è preponderante la componente elastica. Al tempo 𝑡1 rimuovo la forza. Nel caso blu, la deformazione mostrerà un recupero istantaneo iniziale e successivamente un recupero più lento della forma. Nel caso rosso invece, avremo un recupero quasi istantaneo della forma. Nel caso rosso invece, alla rimozione del carico la gran parte della deformazione sarà recuperata istantaneamente. Stress/relaxation: In questo lo sforzo (stress) è in funzione del tempo, la deformazione è costante. Applichiamo una deformazione al tempo 𝑡0 che viene mantenuta costante fino al tempo 𝑡1. Appena applichiamo la deformazione osserviamo una risposta elastica che nel tempo viene influenzata dalla componente viscosa, mostrando un andamento complessivo come mostrato in figura: Vediamo due esempi (in blu e in rosso). Quello che cambia tra i due è sempre l’influenza della componente viscosa. Nel caso in blu la componente viscosa è preponderante, mentre nel caso rosso è preponderante la componente elastica. Al tempo 𝑡1 rimuoviamo la deformazione. Nel caso blu, come visto precedentemente avremo un recupero istantaneo iniziale e successivamente un recupero più lento della forma, mentre nel caso rosso, avremo un recupero istantaneo di gran parte della deformazione. Ovviamente osserviamo questo comportamento nel diagramma deformazione-tempo. La diminuzione dello sforzo che osserviamo nel grafico sforzo-tempo, significa che le macromolecole all’interno del materiale cercano un equilibrio per mantenere la deformazione costante ne tempo. Dunque, diminuisce lo sforzo necessario per mantenere quella determinata deformazione perché avviene un riarrangiamento delle catene macromolecolari nel tempo. METODI DI CARATTERIZZAZIONE: La microscopia si usa per fare delle analisi morfologiche, dunque per studiare l’aspetto morfologico (forma, caratteristiche superficiali etc.) di un dispositivo. Le principali tecniche di microscopia sono: microscopia ottica, microscopia ottica a stereo, microscopia a scansione (SEM). Microscopio ottico: ci permette di cambiare gli obbiettivi al fine di ingrandire sempre di più. Vogliamo per esempio osservare come le cellule crescono su un materiale. Le parti più colorate che osserviamo in figura sono le cellule e quello che cambia da un’immagine all’altra è che in un caso abbiamo una luce riflessa, dunque che arriva da sopra, e nell’altro caso abbiamo una luce trasmessa, dunque che arriva da sotto. Nel caso di luce trasmessa, essa ci permette di osservare il campione di materiale solamente se questo è trasparente. Questa tecnica, in ambito di biomateriali, può servire anche ad osservare l’interazione del materiale con i tessuti biologici, dunque ci permette di fare le cosiddette istologie (per esempio la biopsia). Le istologie consistono nell’andare a sezionare il materiale in strati di centinaia di migliaia di micrometri che vengono poi osservate con colorazioni particolari sui tessuti, per andare ad osservare come sia fatto il tessuto (per esempio studiare una patologia che rende il tessuto diverso da un tessuto sano). Per esempio, quando inseriamo un biomateriale all’interno del corpo umano, esso viene identificato come corpo estraneo e il nostro organismo cerca di isolarlo tramite la cosiddetta capsula fibrotica. Le istologie possono per esempio servire ad osservare lo spessore della capsula fibrotica, oppure da quale tipo di tessuti è formata. Microscopio ottico a stereo: viene utilizzato per osservare un dispositivo a livello macroscopico, che non riusciamo a riconoscere a occhio nudo. I due oculari funzionano come se fossero i nostri occhi. Mentre nel microscopio ottico, i due oculari vanno verso un unico sistema di lenti, in questo caso i due oculari hanno sistemi di lenti separati, e questo ci permette di osservare l’immagine nella sua tridimensionalità. Il microscopio ottico a stereo ci permette dunque di ingrandire quello che vogliamo vedere (per esempio un difetto) e di osservarlo nella sua tridimensionalità. Questo microscopio ci permette inoltre di osservare un dispositivo senza romperlo o tagliarlo. Microscopio a scansione elettronica (SEM): è costituito da una camera all’interno della quale devo inserire il dispositivo che voglio osservare, che quindi non può essere di qualsiasi dimensione. Dobbiamo ridurre quindi la dimensione dell’oggetto che vogliamo osservare. Per esempio, nel caso di una protesi vascolare meccanica dobbiamo disassemblare i diversi componenti e mettere all’interno della camera del microscopio solamente il componente che volevo osservare. Questo microscopio ci permette un ingrandimento maggiore, rispetto a quello che posso fare con i microscopi ottici. Questo è possibile dal momento che il microscopio a scansione elettronica funziona con un fascio elettronico che viene collimato da un sistema di lenti sull’oggetto che voglio osservare. Il fascio elettronico deve però collimare su un materiale conduttivo. Si devono quindi rendere conduttivi i materiali polimerici. A questo scopo, i dispositivi vengono spesso ricoperti da uno strato d’oro in modo tale da renderli conduttivi. Il vantaggio di questo strumento è che si possono raggiungere ingrandimenti anche fino a mille volte rispetto a quello che potremmo osservare a livello ottico. Una volta che il fascio elettronico (fascia gialla in figura) collima sul campione di materiale, vengono generati diversi segnali che sono diversi elettroni che vengono scalzati dal materiale e che vengono “catturati” da diverse sonde. Questi elettroni ci permettono di ottenere diverse informazioni. In particolare, ci interessano gli elettroni retrodiffusi (Backscattered), gli elettroni Secondari e i Raggi X. - Elettroni secondari: sono emessi da spessori superficiali del campione (circa 10 nm) e ci permettono di avere una buona visione della morfologia superficiale del dispositivo. - Elettroni retrodiffusi (backscattered): ci danno informazioni sulla morfologia della superficie e inoltre ci danno informazioni a livello qualitativo sugli elementi presenti sulla superficie che sto osservando. Vediamo per esempio la seguente immagine: Osserviamo diversi toni di grigio. Questa differenza è correlabile al peso atomico dell’elemento presente sulla superficie che sto osservando. I vari toni di grigio ci permettono di riconoscere elementi a basso peso molecolare (grigi più chiari) ed elementi ad alto numero atomico (grigi più scuri). Sappiamo solamente che sono presenti elementi con diverso numero atomico, ma niente di più. Per avere informazioni su quali siano questi elementi abbiamo bisogno del segnale ottenuto con la sonda a raggi x. - Raggi X: i raggi X ci permettono di riconoscere gli elementi presenti sulla superficie del materiale. Ci permettono di “dare un nome” alle diverse tonalità di grigio. Otteniamo quindi un grafico in cui sono riportati i vari elementi che vengono riconosciuti. Nel caso di un materiale polimerico, che dunque è stato rivestito di oro per essere reso conduttivo, nel grafico che otteniamo osserveremo sempre il picco corrispondente all’oro. L’oro è però messo in uno strato nanometrico, e quindi il fascio di raggi riesce a distinguere senza alterazioni gli elementi del nostro materiale. Quello che abbiamo descritto è un SEM tradizionale. Al giorno d’oggi esistono dei SEM che vengono chiamati SEM ambientali, in cui non si lavora a basso vuoto, dunque a bassa pressione, ma si lavora a pressione atmosferica (SEM ambientale). Questo ci permette di osservare campioni con le cellule, campioni idratati etc. Cose che non potremmo fare in condizioni di sottovuoto. Vediamo ora delle tecniche di caratterizzazione che ci permettono di avere informazioni sulle proprietà termiche e di condurre analisi dei pesi molecolari. La calorimetria differenziale a scansione (DSC) ci permette di studiare le proprietà termiche del materiale, per esempio dove si trova la temperatura di transizione vetrosa (Tg), dove si trova la temperatura di rammollimento (Tr) o la temperatura di fusione (Tf). Questa tecnica consiste nel posizionare il campione polimerico (Sample Head) in un crogiolo costituito da materiale differente a seconda della temperatura che vogliamo raggiungere. Dall’altra parte montiamo un crogiolo vuoto (Reference Head). A questo punto scaldiamo i due crogioli. Il crogiolo di riferimento assorbirà, all’aumentare della temperatura, sempre la stessa quantità di calore, dal momento che è vuoto. Il campione di materiale invece, all’aumentare della temperatura, assorbirà calore fino ad arrivare al rammollimento/fusone. Per differenza di ciò che accade nei due crogioli, otteniamo un termogramma. In questa figura possiamo osservare dei termogrammi relativi a poliuretani. Questi grafici ci permettono di osservare i cambiamenti e le transizioni che avvengono nel materiale. Ci permette di avere informazioni relativa alla Tg, alla Tr della componente amorfa e alla Tf della componente cristallina. Per quanto riguarda l’analisi dei pesi molecolari, esiste un’analisi che si chiama analisi cromatografica. Osserviamo il seguente grafico: Immaginiamo che le palline colorate (blu, rosse e verdi) siano le catene macromolecolari del materiale polimerico. Ricordiamo che le catene macromolecolari non sono tutte uguali, cioè non contengono tutte lo stesso numero di unità ripetitive, ma possono contenerne in modo molto variabile. Vogliamo dunque ricavare un’informazione relativa al peso molecolare medio del campione di materiale polimerico. Per condurre questa analisi dei pesi molecolari, facciamo passare il materiale polimerico, precedentemente sciolto in un opportuno solvente, all’intero di una “fase stazionaria”, che consiste in uno strato poroso. Quello che succede è che le macromolecole più lunghe usciranno per prime, dal momento che non passeranno attraverso tutte le porosità della fase stazionaria, potranno attraversare solo i pori più grandi e quindi usciranno per prime. Le catene più corte invece impiegheranno più tempo ad attraversare questa struttura perché potranno fare percorsi più tortuosi (potranno attraversare percorsi più stretti). Abbiamo dunque dei tempi di uscita differenti delle catene più lunghe (alto peso molecolare) e delle catene più corte (basso peso molecolare). Il seguente schema riassume il processo di analisi dei pesi molecolari: La colonna cromatografica è la fase stazionaria attraverso cui passeranno le catene macromolecolari. Al termine della colonna cromatografica c’è un rilevatore che analizzerà i tempi di uscita delle catene e indicherà i diversi pesi molecolari. Questi segnali verranno elaborati da un Software che ci restituirà i valori del peso molecolare medio numerale (Mn) e del peso molecolare medio ponderale (Mw). Facendo il rapporto tra Mw e Mn otteniamo l’indice di dispersione che indicherà quanto è dispersa la dimensione e il peso delle macromolecole all’interno del materiale polimerico. Ponendo in grafico la concentrazione di ciascun componente in funzione del tempo otteniamo un cromatogramma, in cui i numeri riportati indicano i tempi di uscita e il numero di macromolecole. Per ottenere i pesi molecolari, facciamo una curva di calibrazione ottenuta con dei campioni di polimeri mono dispersi, cioè sono privi di dispersione delle catene macromolecolari, dunque che presentano un unico peso molecolare. Nel caso di un campione mono disperso uscirà tutto allo stesso tempo. Questo ci permette di creare la curva di calibrazione in cui a ciascun tempo di uscita corrisponderà un peso molecolare. Il Software farà una corrispondenza con la curva di calibrazione che ho ottenuto e otterremo così il cromatogramma in cui abbiamo il peso molecolare in funzione del numero di macromolecole. Nel seguente grafico osserviamo l’esempio di un materiale espiantato dopo 0-12 settimane di impianto. Dal grafico possiamo osservare come il materiale si sia degradato, infatti osserviamo una evidente diminuzione del peso molecolare. Il numero delle catene macromolecolare diminuisce, infatti osserviamo un abbassamento del picco. Inoltre, osserviamo anche tempi di uscita maggiori, infatti il picco oltre ad abbassarsi si sposta verso destra. Ciò significa che i pesi molecolari stanno diminuendo, dal momento che i tempi di uscita sono maggiori. Il materiale si sta degradando, dunque la lunghezza delle catene macromolecolari si sta accorciando. Un ulteriore analisi che prendiamo in considerazione è un’analisi di caratterizzazione chimica, che ci permette di fare un analisi sui gruppi chimici funzionali presenti nel materiale. Si tratta di analisi spettroscopiche, dunque dove di fatto abbiamo un segnale in ingresso che interagisce con la superficie del materiale e mi restituisce un altro segnale che possiamo andare a leggere in diversi modi. Osserviamo che una parte del segnale viene assorbita dal materiale e una parte viene riflessa. Rispetto a questa differenza possiamo capire alcune caratteristiche del materiale. Osserviamo inoltre i diversi segnali in uscita che possiamo ottenere: raggi X, raggi UV, segnali infrarosso etc. La regione dell’infrarosso ci permette di andare a vedere il moto vibrazionale delle macromolecole all’interno del materiale. Il moto vibrazionale è diverso a seconda del legame che hanno i diversi elementi tra di loro. Avremo quindi diverse lunghezze d’onda a cui avremo il moto vibrazionale di diversi legami in cui sono coinvolti diversi elementi chimici. Osserviamo il seguente grafico: I picchi che osserviamo nella zona dei gruppi funzionali, cioè quella compresa tra 400 e 1900, sono dei picchi sempre presenti dal momento che si riferiscono a legami OH o in generale a legami sempre presenti nel materiale polimerico. La zona di fingerprint invece è caratteristica di ogni materiale polimerico. L’arrangiamento dei picchi che si presentano in questa zona è caratteristico di ciascun materiale polimerico. I vantaggi di questa tecnica sono che non è una tecnica distruttiva, dunque mi permette di riutilizzare il medesimo dispositivo per analisi successive. Ci permette di fare un’analisi qualitativa andando ad osservare lo spettro e ad attribuire a ciascuno di questi picchi un gruppo funzionale ed inoltre un’analisi quantitativa, dal momento che a seconda dell’intensità dei picchi possiamo fare diverse considerazioni sul materiale in esame. L’analisi infrarossa permette condurre analisi di superficie. Nel seguente esempio abbiamo un catetere: Osserviamo come il segnale a infrarossi colpisce da sotto il campione e successivamente torna indietro dove viene rilevato dal detector. Vediamo quindi come anche dispositivi molto piccoli come un catetere possano essere osservati all’infrarosso per andare a vedere la composizione o la variazione strutturale del materiale. Questo tipo di analisi si chiama ATR-FTIR, dove ATR sta per “riflessione totale afenoata” e FTIR sta per “infrarosso a trasformata di Fourier”. Dunque, FTIR è la tecnica, mentre ATR identifica l’accessorio che ci permette di fare questa analisi in riflessione totale. ANALISI MECCANICHE SU MATERIALI VISCOELASTICI: I materiali polimerici possono andare sotto al cappello dei materiali viscoelastici. Possiamo descrivere questi materiali tramite diversi modelli. Consideriamo un modello in serie (Modello di Maxwell), costituito da un modello di Hook, quindi da una molla che modellizza il comportamento di un solido elastico e un modello di Newton cioè un modello a pistone che modellizza i fluidi viscosi. Modello di Hooke: La molla sta ad indicare un solido perfettamente elastico. Modello di Newton: ci permette di valutare quale sia l’effetto di una componente viscosa presente nel materiale. Possiamo notare come lo sforzo sia legato alla velocità di deformazione o di taglio tramite la viscosità. Ricordiamo che per un fluido viscoso, la viscosità è influenzata dalle macromolecole presenti all’interno del fluido. Stiamo parlando di un fluido viscoso, cioè un materiale polimerico che quando arriva ad alta temperatura rammollisce o fonde e diventa un liquido viscoso. Parliamo di un modello molto semplice, in cui abbiamo una molla in serie con un pistone. Quanto più è preponderante la componente relativa alla componente elastica (molla), avremo un materiale più solido. Se fosse più preponderante la componente viscosa, avremo un materiale più viscoso. Sia la viscosità che il modulo elastico non sono caratteristiche costanti. Variando ad esempio la velocità di applicazione della forza, in un caso di trazione, si ha la possibilità di avere un ventaglio di comportamenti dello stesso materiale. Possiamo quindi variare il valore di modulo e viscosità. Possiamo quindi vedere quale sia l’influenza di un parametro, come la velocità, sulle caratteristiche del materiale. Queste caratteristiche, inoltre, non sono costanti nel tempo. Vogliamo capire se esiste la possibilità di studiare quale sia l’effetto della componente elastica e della componente viscosa sul comportamento meccanico globale del materiale polimerico. Vogliamo studiare quindi il contributo delle due componenti. Esistono due tecniche: l’analizzatore dinamico-meccanico (DMA) e le analisi reologiche. Sono due tecniche che ci permettono di valutare la preponderanza o meno del contributo elastico o viscoso. Con la DMA andiamo principalmente a studiare l’influenza dei due contributi su forze applicate in modo assiale. Con le analisi reologiche andiamo principalmente ad applicare uno sforzo o una deformazione di taglio. Da una parte abbiamo il contributo elastico e da una parte abbiamo il contributo viscoso. Applichiamo una deformazione sinusoidale. In tutte queste prove la forza è una forza che viene applicata con un certo ciclo, quindi con una certa frequenza e una certa ampiezza. Avremo come risultato un certo sforzo, anch’esso variabile, a seconda che noi andiamo verso un materiale elastico o verso un liquido viscoso. Materiale solido elastico: lo sforzo risultante è in fase con la deformazione applicata. È di fatto totalmente sovrapposta alla deformazione applicata. Fluido viscoso: lo sforzo risultante è in contro fase, quindi è sfasato di 90° rispetto alla deformazione applicata. Nel caso di un materiale viscoelastico siamo in una situazione intermedia tra un materiale solido elastico e un fluido viscoso. La risposta in termini di sforzo sarà sfasata di un certo angolo rispetto alla deformazione applicata. Questo angolo si chiama angolo di sfasamento 𝛿 e sarà compreso tra 0° e 90°. - Se 𝛿 = 0° siamo nel caso di un comportamento ideale di un materiale solido elastico. - Se 𝛿 = 90° siamo nel caso di un materiale liquido viscoso ideale. Vogliamo tenere un parametro che ci permetta di valutare questo sfasamento. Conoscere il valore di 𝛿 significa comprendere se il materiale viscoelastico abbia un maggiore contributo della componente elastica (𝛿 piccolo) o della componente viscosa (𝛿 elevato). Abbiamo una deformazione applicata 𝜀 = sin(𝜔𝑡). La risposta sarà 𝜎 = 𝜎0 sin(𝜔𝑡 + 𝛿). Ricordando le regole trigonometriche, sappiamo che: sin(𝑎 + 𝑏) = sin(𝑎 )cos(𝑏) + sin(𝑏)cos(𝑎) Andiamo quindi a scomporre il nostro sforzo risultante e otteniamo: 𝜎 = 𝜎0 sin(𝜔𝑡) cos(𝛿 ) + 𝜎0 cos(𝜔𝑡) sin(𝛿) Otteniamo quindi: 𝜎′ = 𝜎0 cos(𝛿 ) che sarà la componente in fase 𝜎′′ = 𝜎0 sin(𝛿) che sarà la componente in contro fase Otteniamo quindi: 𝜎 ∗= 𝜎 ′ + 𝑖𝜎 ′′ = 𝜎0 cos(𝛿 ) + 𝜎0 sin(𝛿) 𝜀 ∗= 𝜀 ′ + 𝑖𝜀 ′′ = 𝜀0 sin(𝜔𝑡) (perché 𝜀 ′′ = 0) Possiamo ora definire un modulo che tenga conto di queste due grandezze, che chiamiamo modulo complesso. Considerando la legge di Hooke, sappiamo che: 𝜎 =𝐸∙𝜀 𝜎 ∗= 𝐸 ∗∙ 𝜀 ∗ 𝜎 ∗ 𝜎 ′ + 𝑖𝜎 ′′ 𝜎0 cos(𝛿 ) + 𝑖𝜎0 sin(𝛿) 𝐸 ∗= = = 𝜀∗ 𝜀′ 𝜀0 𝜎0 𝑖𝜎0 𝐸 ∗= cos(𝛿 ) + sin(𝛿 ) = 𝐸 ′ + 𝑖𝐸′′ 𝜀0 𝜀0 Se avessi che l’angolo 𝛿 = 0, avrei solamente 𝐸’ e quindi siamo nel caso di un solido ideale elastico, mentre se avessi 𝛿 = 90° avrei solo 𝐸’’ e quindi siamo nel caso di un liquido ideale viscoso. Andiamo a definire un altro valore: 𝐸′′ sin(𝛿) = = tan(𝛿) 𝐸′ cos(𝛿) Questi tre parametri ci permettono di andare a studiare il comportamento viscoelastico del materiale. 𝐸’ viene chiamato modulo conservativo (storage modulus). È legato alla componente elastica del materiale, tiene dunque conto dell’energia che il materiale riesce ad immagazzinare durante il processo di deformazione. 𝐸’ non può essere assimilabile al modulo elastico, se non solo quando abbiamo a che fare con un materiale ideale elastico (𝛿 = 0). Se 𝛿 = 0 il modulo conservativo coincide con il modulo elastico. 𝐸’’ viene chiamato modulo dissipativo (loss modulus). È legato alla componente viscosa del materiale. Se 𝛿 = 90°), 𝐸’’ coincide con il modulo elastico relativo ad un materiale ideale fluido viscoso. Nel caso di un materiale viscoelastico si riferisce all’energia dissipata per fenomeni di attrito interno tra le catene molecolari. 𝐸′′ sin(𝛿) 𝐸′ = cos(𝛿) = tan(𝛿) viene chiamato fattore di perdita (loss factor). Necessitiamo di individuare questi tre parametri se vogliamo capire quanto nel nostro materiale abbia più importanza la componente elastica oppure la componente viscosa. Questi tre parametri non sono indipendenti, una volta individuati due di questi è possibile ricavare il terzo. ANALISI DINAMICO-MECCANICA: Si tratta di analisi fatte con uno strumento di piccole dimensioni. Ci permettono di valutare e quantificare il contributo delle componenti elastica e viscosa del materiale polimerico. Questa macchina può anche essere utilizzata per altri materiali, come per esempio i materiali compositi, per vedere l’effetto sulla matrice polimerica del materiale. Un altro esempio di utilizzo riguarda i materiali metallici, che possono avere un comportamento differente al variare della temperatura. Ci focalizzeremo sui materiali polimerici. La geometria/forma più semplice del provino che utilizziamo è quella in cui applichiamo una forza assiale di trazione. Abbiamo detto che applichiamo una deformazione/forza ciclica. Mentre nelle macchine tradizionali i due afferraggi della macchina sono fissi, in particolare l’afferraggio superiore si muove con una velocità di deformazione imposta. Nel caso dal DMA invece, è presente una clamp mobile (afferraggio inferiore) che ci permette di applicare la forza/sollecitazione/deformazione sinusoidale. Possiamo quindi variare la frequenza, l’ampiezza o in generale la modalità di applicazione della deformazione. Questa geometria viene utilizzata per tutti i materiali polimerici. La seconda tipologia di geometria è quella a compressione. In questo caso la componente mobile è superiore Un limite di questa macchine è la cella di calco, si presenta cioè un limite di forza. Per questo motivo i materiali utilizzati sono a basso-medio modulo elastico. Un ulteriore geometria che si può utilizzare è la shear sandwich mode: In questo caso abbiamo un campione che di fatto è separato dalla clamp mobile. Applichiamo una sollecitazione di taglio al campione. È deputata a solidi soft (gel, adesivi ed elastomeri), cioè materiali con un basso modulo. Altre due geometrie che possiamo utilizzare sono la dual: È deputata a materiali termoplastici (in caso con componente amorfa sopra la Tg) ed elastomeri. In questo caso il campione è bloccato ai due estremi e il materiale è libero di muoversi nella zona centrale. Gli elastomeri sono quei materiali estremamente deformabili (siliconi, gomme naturali). E la single cantilever: Questa è deputata a materiali termoplastici ma non per gli elastomeri. In questo caso gli elastomeri andrebbero a deformarsi in maniera così elevata che verrebbe superata la soglia di scostamento. Per i materiali termoplastici a temperatura minore della Tg è preferibile una single cantilever. L’ultima tipologia di afferraggio è la 3 point bend mode. Il campione non è vincolato agli estremi, che sono solamente appoggiati. Questo tipo di afferraggio si utilizza per materiali con alto e medio modulo, quindi con elevate caratteristiche meccaniche. Abbiamo la possibilità di scegliere quale di queste geometrie del campione utilizzare a seconda del materiale che vogliamo studiare. Con tutte queste geometrie è possibile studiare il modulo complesso. Dobbiamo scegliere quella più opportuna a seconda del materiale o dell’applicazione a cui è deputato il materiale. Con la DMA abbiamo la possibilità di applicare diverse forze in diversi modi, in modo tale da ottenere le informazioni che necessito sul modulo complesso. Otteniamo il modulo complesso andando a fare delle prove in due modi diversi: il primo è fare una prova in cui mantengo costante la frequenza di applicazione della forza di sollecitazione e andando ad aumentare la temperatura. Vediamo come sono influenzati 𝐸’ e 𝐸’’ al variare della temperatura. Il grafico riportato in figura rappresenta una situazione ideale. I risultati rappresentati in figura possono essere ottenuti qualunque sia l’afferraggio montato, dunque qualunque sia la geometria del campione di materiale che andiamo a testare. In blu è rappresentato 𝐸′, mentre in rosso è rappresentato 𝐸′′. Osserviamo per primo 𝐸’: stiamo studiando un materiale amorfo-cristallino. Al di sotto della temperatura di transizione vetrosa il materiale ha un alto valore di 𝐸’, legato quindi ad un alta componente elastica. In corrispondenza della transizione vetrosa il modulo diminuisce. Si osserva poi un altro intervallo di temperatura in cui il materiale ha un comportamento più gommoso, quindi è più deformabile e infine il materiale va verso le transizioni di rammollimento e di fusione, perdendo quindi le caratteristiche meccaniche. Osserviamo ora 𝐸′′: a basse temperature (prima della Tg) è più basso di 𝐸’. Ha poi un picco in corrispondenza dell’inizio della transizione vetrosa e successivamente tende a diminuire e ad assestarsi in corrispondenza della fase gommosa per poi diminuire nuovamente in fase di fusione. Il passaggio da solido vetroso a solido gommoso è dovuto al movimento iniziale delle catene macromolecolari fino ad arrivare al completo movimento dello catene macromolecolari. Questa zona di transizione è dovuta al fatto che l’innalzamento della temperatura facilita il movimento delle catene macromolecolari l’una sull’altra. Questo causa la diminuzione progressiva del modulo. È interessante notare il picco che si presenta nel modulo dissipativo (𝐸′′)in corrispondenza dell’inizio della fase di transizione vetrosa. A bassa temperatura le macromolecole sono fisse in una determinata posizione. Aumentando la temperatura, le catene macromolecolari iniziano a muoversi, sono dunque consentiti micromovimenti tra le macromolecole. Sappiamo che 𝐸’’ è legato all’energia dissipata per calore per fenomeni di attrito. In questa fase, solo alcune catene iniziano a muoversi mentre altre sono ancora fisse, quindi l’energia dissipata dallo scorrimento iniziale delle macromolecole è molto elevata, perché le catene fanno molto fatica a muoversi. I fenomeni di attrito sono quindi molto elevati in questa fase. Questo spiega il picco di 𝐸’’ all’inizio della fase di transizione. Ci interessa studiare questo per capire dove si colloca il nostro materiale, alla temperatura di utilizzo (tipicamente 37°). Riusciamo a capire quanto sia elevato il contributo della componente elastica e della componente viscosa. Se sappiamo che è alto il contributo della componente viscosa sappiamo che il materiale avrà delle caratteristiche meccaniche inferiori rispetto ad un materiale con un maggiore contributo di componente elastica. Fare prove di questo tipo ci permette di studiare quali siano le variazioni delle caratteristiche meccaniche del materiale al variare della temperatura. Questo è molto importante dal momento che i materiali utilizzati per scopi biomedici possono essere soggetti anche al passaggio da temperatura ambiente a temperatura corporea. Vediamo qualche esempio. Policarbonato: Nel grafico osserviamo i tre parametri, storage modulus (E’), loss modulus (E’’) e tanδ. Il policarbonato è un materiale totalmente amorfo con una temperatura Tg superiore ai 100°. La prova in questo caso parte da 80°, dal momento che conosciamo già la temperatura di transizione. Arrivati a una certa temperatura osserviamo che il modulo conservativo (verde in figura) tende a scendere di quasi due ordini di grandezza. Nel caso del modulo dissipativo (blu in figura), in corrispondenza della temperatura di transizione Tg osserviamo un picco e poi una discesa. Il tan(delta), cioè il rapporto tra E’ ed E’’ (marrone in figura) presenta un picco shiftato verso valori maggiori. Questo è dovuto al fatto che stiamo facendo il rapporto tra un valore che sta decrescendo (E’) e un valore che sta aumentando (E’’), in corrispondenza della zona di transizione. Possiamo osservare che il valore del picco di tanDelta è in corrispondenza del termine del transitorio, dove di fatto i due moduli E’ ed E’’ hanno comportamento simile, cioè stanno entrambi diminuendo. Questa analisi ci dice molte cose. Innanzitutto, vediamo come da una prova fatta in funzione della temperatura possiamo ottenere diverse indicazioni su diversi parametri, sia meccanici che fisici. I parametri meccanici sono E’, E’’ e il tanDelta che ci sono come il materiale che stiamo studiando abbia, prima della Tg, una preponderanza di comportamento elastico e di come il suo comportamento cambi in funzione della temperatura. Da queste prove è anche possibile andare a studiare le transizioni termiche. Osserviamo infatti che la transizione del modulo conservativo è più o meno in corrispondenza del punto di flesso della curva di E’, mentre la transizione del modulo dissipativo è in corrispondenza del picco massimo della curva. Lo scostamento tra le curve dei due moduli non è elevato, mentre lo scostamento tra il picco di tanDelta e i valori di transizione vetrosa di E’ e E’’ è intorno ai 5/6°. Questo è da tenere conto dal momento che potrebbe capitare di dover ricavare il valore di transizione dall’osservazione dell’andamento di tanDelta e bisogna dunque ricordarsi che c’è questo shift. È importante capire da quale dei tre parametri è stato ricavato il valore di transizione vetrosa, perché potremmo trovare dei valori differenti a seconda del metodo utilizzato. In questa prova si parte da 80° e si termina a 180°, dal momento che lo scopo di questa prova è studiare in modo dettagliato il valore della temperatura di transizione vetrosa. In questo caso abbiamo selezionato questo range dal momento che conosciamo il range di temperatura del policarbonato. Nel caso in cui non avessimo nessuna informazione preliminare sul materiale che stiamo esaminando, converrebbe partire da una temperatura inferiore a 0°, perché il materiale in esame potrebbe avere una temperatura di transizione vetrosa inferiore a 0°. Un altro aspetto di cui tenere conto è la velocità di incremento della temperatura. Più è lenta la crescita della temperatura, più è facile osservare i fenomeni di transizione termica con una maggiore precisione. Generalmente si fanno prove in cui si ha una velocità di rampa di temperatura da 2° o 5° al minuto (°/min). Policaprolattone: Sappiamo che il policaprolattone ha una Tg inferiore allo 0°, infatti in questa prova si è partiti da una temperatura di -150°. In questa prova osserviamo l’andamento del modulo conservativo (verde in figura) e di tanDelta (blu in figura). Anche in questo caso osserviamo come il valore di transizione che possiamo ricavare osservando l’andamento di E’ e il valore di transizione che possiamo ricavare dall’andamento di tanDelta, sia shiftato. Osserviamo che il modulo E’ ha un andamento decrescente. Il modulo diminuisce e arrivati a un certo punto diminuisce in modo più significativo, dovuto alla fusione a bassa temperatura del policaprolattone (intorno ai 60°). Possiamo osservare questa caratteristica anche dall’andamento di tanDelta, che in corrispondenza della fusione del materiale ha un andamento crescente. Questo accade perché quando un materiale fonde, la componente viscosa è preponderante rispetto alla componente elastica e tanDelta è il rapporto tra E’’ ed E’. Osserviamo anche i due picchi iniziali indicati dalle frecce verdi. Essi sono dovuti ad altre transizioni dette transizioni secondarie. Sappiamo che i materiali amorfo-cristallini hanno zone amorfe e zone cristalline che possono essere organizzate in modo diverso. Possiamo dunque osservare fenomeni di transizione termica anche a temperature differenti di quelle maggiormente presenti nel materiale, dovute al fatto che si possono avere fenomeni di riarrangiamento delle catene macromolecolari al variare della temperatura. Vediamo ora un esempio di sensibilità dello strumento: Il seguente grafico mostra un’analisi termo meccanica in rampa di temperatura fatta su un materiale amorfo di cui conosciamo la temperatura di transizione vetrosa (Tg=120°-140°). Osservando questo intervallo di temperatura, non vediamo la diminuzione dello storage modulus e il picco di tanDelta. C’è qualcosa che non torna. Osserviamo una diminuzione dello storage modulus intorno ai 100°. Osserviamo inoltre un lieve picco nell’andamento del tanDelta in corrispondenza dell’intervallo della Tg, ma non è così evidente. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che il materiale abbia assorbito dell’umidità e quindi la transizione che osserviamo non è dovuta ad una transizione del materiale ma può essere dovuta all’effetto che ha l’acqua (che evapora a 100°) sulle caratteristiche meccaniche del materiale. Una volta osservato questo problema viene effettuato un trattamento termico che rende anidro il campione di materiale, cioè viene rimossa l’umidità assimilata al materiale e successivamente viene ripetuta l’analisi termo meccanica del materiale. Osserviamo ora la transizione attesa: Nel caso del materiale trattato e dunque privo di umidità sull’asse delle ordinate vediamo che il modulo è maggiore (2.075*10^10) rispetto al valore del modulo nel caso del materiale umido (1.942*10^10). Questo accade perché l’acqua ha quella che viene definita un’azione plasticizzante nei confronti del materiale, cioè diminuisce le caratteristiche meccaniche del materiale. L’acqua favorisce lo scorrimento tra le catene macromolecolari e quindi diminuisce la resistenza meccanica del materiale favorendo una maggiore deformabilità. Vediamo ora un esempio di Blend: Il blend è una miscela (quando unisco due materiali polimerici uno con l’altro e li mescolo). Quando mettiamo insieme due materiali polimerici può succedere che si formino delle zone in cui ho un solo polimero e zone in cui ho solamente l’altro polimero (per esempio come accade per acqua e olio). Può anche succedere che i due polimeri si intersechino uno con l’altro (per esempio quando unisco un colorante all’acqua). In ogni caso non si tratta di copolimeri, perché non abbiamo i due polimeri uniti sulle catene macromolecolari. Facciamo una prova in rampa di temperatura su un blend polimerico. Osserviamo il seguente grafico: Aumentando la temperatura otteniamo due salti nell’andamento del modulo conservativo (linea continua in figura). Questo significa che il blend ha due polimeri che sono ben separati l’uno dall’altro ed è dunque possibile osservare l’effetto di entrambi i polimeri sulla diminuzione del modulo conservativo. Questo è importante perché se vogliamo utilizzare un blend per la creazione di un dispositivo, possiamo giocare sulla proporzione dei polimeri che compongono il blend in modo tale da avere una maggiore o minore flessibilità o rigidezza alla temperatura di utilizzo. I blend sono dei materiali polimerici in cui mettiamo insieme materiali polimerici con caratteristiche diverse. Nel grafico osserviamo transizioni differenti che influenzano le caratteristiche del materiale che ottengo. Supponiamo di avere un blend costituito da due polimeri: A e B. Osserviamo nel grafico blu in figura due salti, uno più basso e uno più alto. Supponendo che il secondo salto sia dovuto al polimero B, il fatto che sia più alto sta a significare che la percentuale di B nel blend è maggiore della percentuale di A. Se avessimo un blend costituito dagli stessi due polimeri con un grafico come quello rosso in figura, starebbe a significare che la percentuale del polimero A nel blend è maggiore della percentuale del polimero B. Un salto più alto, cioè una diminuzione maggiore del modulo conservativo sta a significare che ci sono tante catene macromolecolari che hanno la transizione termica in quel determinato range e meno catene che hanno la transizione nel range del salto più basso. Dunque, variando la composizione del blend, utilizzando sempre gli stessi polimeri A e B, possiamo variare le caratteristiche del materiale. Oltre alle prove in rampa di temperatura, esiste anche un’altra possibilità per andare a studiare come cambiano le caratteristiche di un materiale. Questa possibilità consiste nel fare delle prove in rampa di frequenza, cioè facendo prove in cui varia la frequenza di prova. Quando varia la frequenza di prova la temperatura deve essere costante dal momento che il sistema non è in grado di variare entrambe le variabili. In rampa di frequenza significa dunque che sollecitiamo il materiale in modo sinusoidale ma variando la frequenza con cui applichiamo la sollecitazione (deformazione o sforzo). Il grafico che otteniamo da una prova in rampa di frequenza è il seguente: Osserviamo che l’andamento di E’ cresce con la frequenza. Nel caso di E’’ osserviamo dei picchi. Al crescere della frequenza di applicazione della sollecitazione, osserviamo che aumenta il contributo della componente elastica mentre diminuisce il contributo della componente viscosa. È dunque possibile studiare le transizioni termiche anche osservando come variano le caratteristiche del materiale al variare della frequenza di applicazione della sollecitazione. Il seguente grafico mostra invece un esempio di diversi polimeri appartenenti alla stessa famiglia (quella dei gel) in cui varia la concentrazione e lo spessore del campione. Quello che vogliamo notare è come si possa valutare in questo caso come varia il comportamento dello stesso materiale (dal momento che la composizione chimica è la stessa) al variare della frequenza a seconda della concentrazione del gel in soluzione. Osserviamo come il valore del modulo conservativo sia differente a seconda della concentrazione del gel. Un’altra osservazione che possiamo fare è che questo materiale non ha un comportamento che è influenzato dalla frequenza di applicazione della sollecitazione, possiamo infatti osservare come il valore del modulo G’ sia pressoché costante al variare della frequenza. L’analizzatore dinamico-meccanico (DMA) nasce perché vogliamo studiare il contributo della componente elastica e della componente viscosa al comportamento meccanico risultante. Abbiamo visto come possiamo applicare diverse geometrie ed afferraggi e come possiamo studiare il comportamento sia in rampa di temperatura che in rampa di frequenza. Questa macchina permette inoltre di fare delle prove in funzione del tempo. Possiamo dunque fare le prove di creep e di stress relaxation, utilizzando uno qualunque degli afferraggi visti precedentemente. Possiamo ottenere informazioni riguardo creep e recovery e riguardo stress relaxation e recupero della forma di tutti i materiali polimerici. Creep/recovery: nella prova di creep la sollecitazione viene applicata istantaneamente all’istante t = t1 e mantenuta costante per un periodo di tempo specifico. Nella prova di recovery lo sforzo è portato a zero all’istante t = t2. In entrambi i casi la deformazione è monitorata in funzione del tempo (𝜀(t)). Schematizziamo la risposta che otteniamo in caso di materiale elastico o viscoso: Nel caso di un materiale viscoelastico otteniamo invece una situazione intermedia in cui si osserva un tratto elastico iniziale dovuto alla risposta immediata, influenzato però dal comportamento della componente viscosa rispetto a quella elastica. Possiamo osservare il grafico del comportamento di un materiale viscoelastico nella seguente figura: Per riassumere, supponendo che il grafico in alto a sinistra sia il carico applicato, osserviamo i vari comportamenti del materiale: Con queste prove non otteniamo informazioni relative al modulo conservativo E’, al modulo dissipativo E’’ e al fattore di perdita tanDelta, ma possiamo ottenere informazioni relative al comportamento viscoelastico del materiale. Non possiamo studiare dunque l’influenza a livello quantitativo della componente elastica e viscosa. Osserviamo ora la curva sperimentale di una prova condotta su un film di PET: Osserviamo che nel momento di applicazione del carico si ha una risposta elastica immediata preponderante rispetto alla deformazione che continua poi ad avere il materiale nel tempo influenzata dalla componente viscosa. Vediamo come la curva compresa tra t=5 e t=10 abbia una lieve pendenza. Questa pendenza indica la presenza di una componente viscosa, ma non così elevata. Al tempo t=10 osserviamo ancora una risposta elastica importante che indica una presenza preponderante di componente elastica. Osserviamo anche come la componente viscosa rallenti lievemente il recupero della forma successivo all’istante t=10. Stress relaxation e recovery: in questa prova la deformazione è applicata istantaneamente e mantenuta costante nel tempo. Lo sforzo viene monitorato in funzione del tempo 𝜎(t). Schematizziamo la risposta che otteniamo in caso di materiale elastico o viscoso: Nel caso di un materiale viscoelastico lo sforzo diminuisce nel tempo partendo da un certo valore e può decrescere fino a zero (dipende dal materiale): Vediamo un grafico di esempio di una prova di stress relaxation: La linea blu tratteggiata mostra la deformazione che viene mantenuta nel tempo, mentre la linea verde continua indica il l’andamento dello sforzo. Osserviamo un massimo in corrispondenza del punto di applicazione della sollecitazione e successivamente una diminuzione che tende poi ad un valore costante. Questo significa che c’è una preponderanza di componente elastica rispetto a quella viscosa. Se fosse preponderante una componente viscosa, la curva dello sforzo continuerebbe a diminuire e non tenderebbe ad un valore costante. Ricordiamo che in una prova di stress relaxation e recovery dobbiamo fare due grafici: il grafico dello sforzo in funzione del tempo e il grafico della deformazione in funzione del tempo, la quale sarà costante per tutto il tempo in cui ho svolto la prova di stress relaxation e alla fine della quale mostrerà l’andamento di recupero della forma del materiale. Per la prova di creep invece il grafico è unico. ANALISI REOLOGICHE SU MATERIALI VISCOELASTICI: Quello che cambia tra un’analisi dinamico meccanica e un’analisi reologica è il metodo con cui è applicata la forza. Nel caso delle analisi reologiche è sempre una sollecitazione a taglio. Le analisi reologiche sono utili per studiare il comportamento dei materiali che impieghiamo. Per esempio, possiamo studiare come un materiale viene estruso, miscelato, spalmato, spruzzato etc. Dobbiamo tenere conto del fatto che non tutti i materiali a stati differenti si comportano nello stesso modo. Il comportamento del materiale viscoso può essere notevolmente differente. È dunque importante studiare le caratteristiche dei diversi fluidi che si possono impiegare in ambito biomedicale. La reologia è la scienza che studia la deformazione e il flusso della materia sotto condizioni di prova controllate. Viene studiata la relazione tra lo sforzo applicato e la deformazione ottenuta. Tutto il procedimento che abbiamo svolto per ricavare E’ ed E’’ in questo caso vale per G’ e G’’. Parliamo dunque di un G’ collegato ad un solido elastico e un G’’ collegato ad un liquido viscoso. Tutto quello che c’è in mezzo riguarda l’ambito dei materiali viscoelastici. Utilizziamo il reometro quando abbiamo una soluzione viscosa. Il reometro è costituito da una parte fissa, cioè un “piatto” e da una parte mobile che permette di avere la sollecitazione a taglio sul campione di materiale. La parte mobile può essere definita con geometrie differenti. Un’analisi reologica consiste nell’applicazione di uno sforzo e nell’osservazione della risposta del campione di materiale in termini di shear rate (velocità di rotazione) o strain (ampiezza di oscillazione). Questo tipo di analisi è in grado di misurare i parametri viscoelastici e la viscosità di un materiale sotto diverse condizioni. Sappiamo che la viscosità è data dal rapporto tra lo sforzo di taglio e la velocità di taglio, mentre il modulo di taglio è dato dal rapporto tra lo sforzo di taglio e la deformazione. Dunque, grazie a questo tipo di analisi possiamo ottenere informazioni sulla viscosità del materiale. Supponendo che la seguente immagine rappresenti il campione di materiale, definiamo le grandezze utilizzate: Le grandezze normalmente utilizzate sono: - stress, 𝜏(derivato dalla forza e dalla coppia). - strain, 𝛾 (ampiezza di oscillazione). - shear rate, 𝛾̇ ( velocità di rotazione). - Modulo, G. - Viscosità, 𝜂. Dove: 𝑥(𝑡) 𝑆𝑡𝑟𝑎𝑖𝑛:𝛾 = 𝑦0 ∆𝛾 𝑆ℎ𝑒𝑎𝑟𝑅𝑎𝑡𝑒, 𝛾̇ = ∆𝑡 𝜏 𝑀𝑜𝑑𝑢𝑙𝑜, 𝐺 = 𝛾 𝜏 𝑉𝑖𝑠𝑐𝑜𝑠𝑖𝑡à, 𝜂 = 𝛾̇ Vediamo quindi come lo stress, lo strain e lo shear rate siano in funzione di alcuni parametri macchina del reometro. Quando facciamo una prova reologica, dobbiamo giocare con alcuni parametri che sono: la coppia, che influenza lo sforzo di taglio; lo spostamento angolare, che influenza la deformazione a taglio; la velocità angolare che è relativa alla shear rate. Lo sforzo di taglio è in realtà influenzato da due parametri: uno è variabile ed è la Coppia. L’altro è 𝐾𝜎 , che è una costante che tiene conto della geometria, dunque dell’afferraggio che utilizziamo. L’afferraggio ha infatti un’influenza sulla modalità con cui viene applicato lo sforzo di taglio. Analogamente la deformazione a taglio è influenzata da una costante 𝐾𝛾 , che tiene conto della geometria e dell’afferraggio. Infine, anche la shear rate è influenzata dalla costante 𝐾𝛾̇. Il parametro G* è dunque legato a dei parametri specifici della macchina, ma anche a dei parametri relativi alla geometria con cui utilizzo la macchina. Dunque, anche la viscosità che ricaviamo è indirettamente influenzata dalla geometria che utilizziamo per condurre l’analisi reologica. Dunque, a seconda della geometria che utilizziamo possiamo avere dei parametri reologici differenti. Dobbiamo quindi scegliere la geometria più adeguata per il materiale che voglio utilizzare. Le geometrie disponibili sono le seguenti: Le geometrie più utilizzate sono la Cone and Plate e la Parallel Plate. Il piatto, cioè la parte fissa della macchina ha sempre la stessa geometria, quello che cambia è la parte mobile sovrastante. - Cone and Plate: si tratta della geometria con le costanti di conversione più semplici. Viene utilizzata per liquidi senza particelle disperse o dispersioni / emulsioni con particolato molto piccolo (ordine dei nm). Vantaggi: shear rate omogeneo su tutto il raggio; necessita poco campione (circa 1 ml); permette di misurare sistemi a bassa viscosità (< 10 mPa* s). Svantaggi: non adatto a sistemi ad alta viscosità; non adatto per sospensioni/emulsioni con particolato di grandi dimensioni. - Parallel Plate: si tratta della geometria da preferirsi nei casi in cui il Cone and Plate non è utilizzabile. Il gap è impostabile a scelta dell’operatore (intervallo 300 μm-3mm). Viene utilizzata in caso di campioni molto viscosi e analisi di sospensioni con grande particolato (fino a 300 μm). Vantaggi: possibilità di selezionare il gap; preparazione del campione semplice; viscosità misurabili a partire da 10 mPa s (circa). Svantaggi: ad alti shear rate possono manifestarsi turbolenze. Il reometro permette di caratterizzare la risposta di un materiale in condizioni di: ➔ Flusso (rotazione continua): determinazione della viscosità e della sua dipendenza da fattori quali lo shear rate e la temperatura. ➔ Sollecitazione oscillatoria: determinazione dei parametri visco-elastici (moduli conservativo e dissipativo), loro dipendenza da temperatura, frequenza, ampiezza di oscillazione, etc.. ➔ Transitorio: caratterizzazione della risposta di un campione sottoposto a sforzo costante (creep) e a deformazione costante (stress relaxation). Tutte queste prove possono essere condotte con le geometrie che abbiamo introdotto precedentemente. Per ciascuna di queste modalità di prova possiamo variare alcuni parametri e tenerne fissi altri. La viscosità non è un parametro intrinseco del materiale, ma può variare al variare della temperatura, della frequenza, al variare dell’applicazione dello sforzo di taglio etc.. Un aspetto importante delle prove reologiche è il fatto che avere il modulo a taglio o il modulo elastico e il modulo complesso G* o il modulo complesso E*, dipende da dove mi trovo nel comportamento viscoelastico del materiale. Se abbiamo un solido elastico, abbiamo E*, ma se ci spostiamo verso un comportamento viscoelastico, andiamo verso una regione che non è più a elasticità lineare. Dunque, quello che dobbiamo fare con le prove reologiche è andare a capire dove il materiale si comporta con una viscoelasticità lineare e non si discosta da questa. TEST DI FLUSSO: La viscosità è definita come la resistenza interna di un fluido allo scorrimento. Secondo il modello di Newton la viscosità rappresenta la costante di proporzionalità tra lo shear rate e lo stress, ma la viscosità dipende da diversi fattori: - se l’unica dipendenza è dalla temperatura, si tratta di un fluido newtoniano. - se dipende da fattori (es. tempo, shear rate), si tratta di un fluido non newtoniano Nel caso di una prova a shear rate costante, lo shear rate viene mantenuto costante e per un periodo di tempo impostato dall’operatore. Lo scopo di questa prova è la misura della viscosità ad un valore di shear rate e il controllo della dipendenza della viscosità dal tempo. Nel caso di una prova a rampa continua, il campione viene sottoposto ad una rampa di shear rate o stress crescente o decrescente nel tempo. Lo scopo di questa prova è la misura dello shear thickening del campione. Nel caso di una prova a rampa di temperatura, il campione viene sottoposto ad un profilo definito di temperatura (tipicamente una rampa), lo shear rate è mantenuto costante. Lo scopo di questa prova è studiare la dipendenza della viscosità dalla temperatura. Queste prove servono per avere informazioni principalmente sulla viscosità. Se vogliamo andare a studiare come variano i parametri viscoelastici, possiamo fare le stesse prove che abbiamo visto per il DMA, quindi delle prove che possono essere fatte in rampa di temperatura. Andiamo dunque a vedere cosa succede al materiale al variare della temperatura. Osserviamo quindi come varia la viscosità, ma anche come cambiano i parametri che abbiamo nominato: modulo conservativo G’, modulo dissipativo G’’ e tan𝛿. Abbiamo visto che quando viene applicato uno sforzo di taglio, consideriamo un altro parametro che è la viscosità, che sarà una viscosità complessa 𝜂∗ , dal momento che è formulata come: 𝐺∗ 𝜂∗ = 𝜔 𝜂∗ può essere scomposta in una componente conservativa e una dissipativa. Rispetto ad un DMA, con la reologia posso avere informazioni sia sulle componenti elastica e viscosa in termini di modulo conservativo e modulo dissipativo, ma anche informazioni relative alla viscosità (viscosità complessa). Il fatto che possiamo studiare il comportamento viscoelastico definendo E’, E’’, o G’ e G’’ è reso possibile solamente nel momento in cui ci troviamo in una regione detta regione di viscoelasticità lineare. Per il DMA, questo tipo di analisi può non essere strettamente necessaria, mentre lo è per le analisi reologiche. Quando facciamo un’analisi reologica, andiamo a farla su un fluido. Sapere come questo fluido si comporti è importante al fine di svolgere le successive analisi. Dobbiamo capire quale sia lo sforzo o la deformazione massima oltre la quale si esce da questa regione di viscoelasticità lineare. Per fare questo, prima di fare delle prove in regime oscillatorio che ci permettono di definire i parametri G’ e G’’, dobbiamo andare a vedere quale sia l’intervallo di viscoelasticità lineare. Per farlo, applichiamo una forzante (deformazione oscillatoria sinusoidale) che cresce in ampiezza nel tempo e andiamo a vedere fino a quando G’ e G’’ rimangono più o meno costanti. Osserviamo che dopo un certo valore, G’ non è più costante. Dopo questo valore, il materiale non ha più un comportamento a viscoelasticità lineare. In questa zona, chiamata Regione non lineare, G’ e G’’ non sono più costanti, ma variano rispetto alla deformazione applicata. Da un punto di vista teorico, in questa zona, sarebbe scorretto applicare tutto quello che abbiamo visto finora per trovare G’ e G’’. Dobbiamo quindi scegliere una deformazione o uno sforzo da applicare che sia nella zona di linearità, dopodiché possiamo fare tutte le analisi per trovare G’ e G’’. Una volta definita la regione di viscoelasticità lineare possiamo fare tutte le prove del caso. Per esempio, nel caso di test time sweep, possiamo applicare una deformazione o uno sforzo a frequenza e ampiezza costante, mantenendo la temperatura costante e andare a vedere come il materiale in esame si comporta. Lo scopo di questo test è studiare e misurare la stabilità di un materiale. Fare uno studio di reticolazione, cioè, applicare uno sforzo costante nel tempo e andare a vedere come cambiano G’ e G’’. Se un materiale sta reticolando, ci aspettiamo che diminuisca la componente viscosa e aumenti la componente elastica. Infine, questa prova ci permette, in caso di soluzione polimero-solvente, di andare a vedere come il solvente in cui è disciolto il materiale in esame evapori e quindi osserveremo il passaggio da una soluzione più liquida ad una più solida. Questo è importante nel caso, per esempio, in cui devo fare un rivestimento di materiale polimerico. Esempio: reticolazione del materiale. Osserviamo che G’, ad un tempo 0 è molto inferiore a G’’, dal momento che stiamo osservando una soluzione più liquid like in cui è preponderante la componente viscosa rispetto a quella elastica. Si arriva poi ad un punto, detto Gel Point, in cui si intersecano i due andamenti. Dopo questo punto osserviamo un incremento di G’ e una diminuzione di G’’, dal momento che si ha una diminuzione della componente viscosa e un aumento della componente elastica. Questo avviene a causa della reticolazione e dunque il materiale risulta essere più consistente con una maggiore aggregazione tra le catene macromolecolari. Può essere interessante andare a vedere anche come cambiano i parametri G’ e G’’ e in questo caso anche la viscosità complessa quando applichiamo una rampa di frequenza (frequency sweep), dunque una rampa in cui l’ampiezza rimane costante e la frequenza aumenta. Ricordiamo che se varia la frequenza, la temperatura rimane costante e viceversa. Aumentando la frequenza, il materiale varia il contributo della componente elastica e della componente viscosa. Possiamo inoltre fare delle analisi in regime oscillatorio in cui si applica una rampa di temperatura (frequenza e ampiezza vengono mantenuti costanti), crescente o decrescente. Per esempio, osserviamo la seguente figura che mostra il risultato di una prova su ABS (copolimero acrilonitrile, butadiene e stirene): Osserviamo che i picchi di tanDelta sono shiftati rispetto alla variazione di G’ e rispetto al picco di G’’. Tra -100 e 200 gradi andiamo a vedere quale sia il contributo delle tre componenti. In particolare, osserviamo soprattutto il contributo del butadiene e dello stirene. Il butadiene è un polimero che viene aggiunto allo stirene per dare maggiore flessibilità. Questo può essere osservato nella diminuzione di G’. L’ABS è un materiale con buone caratteristiche meccaniche. Questa prova è stata svolta con una geometria torsionale. Questo è un esempio rappresentativo del fatto che anche con il reometro posso ottenere informazioni su G’, G’’, ma anche sulle temperature di transizione. L’ultima tipologia di prova che si può eseguire è quella in transitorio, dunque prove tempo-dipendenti come prove di Stress-relaxaion e prove di creep-recovery. Queste vengono eseguite nello stesso modo delle prove in ambito dinamico-meccaniche, dunque applicando uno sforzo di taglio e mantenendo costante la deformazione o mantenendo costante lo sforzo. SMART MATERIALS: Questa classe di materiali nasce da una domanda che si sono fatti diversi ricercatori, cioè: i materiali possono imparare a diventare smart, intelligenti, funzionali, attivi e con buona memoria? È possibile progettare un materiale che sia in grado di riorganizzarsi, cioè che cambi le sue caratteristiche e proprietà, quando cambiano le condizioni al contorno, cioè nell’ambiente circostante? Si tratta di materiali che sono in grado di modificare una o più delle loro caratteristiche a seguito di variazioni nell’ambiente circostante o in alcune condizioni di applicazione. Una cosa importante da sottolineare è che questi materiali cambiano sempre nello stesso modo. Il materiale si comporta e reagisce alle condizioni al contorno sempre nello stesso modo. Questi materiali vengono chiamati smart materials. Quando questi materiali non esistevano, si cercava di utilizzare un materiale che meglio si adattasse ad una determinata situazione, che non era però il materiale ideale. I materiali tradizionali hanno infatti risposte limitate. L’esempio più facile di materiali intelligenti è il corpo umano. Il corpo umano è fatto di cellule, che sono organismi intelligenti, dal momento che sono in grado di capire quali sono gli stimoli presenti in un determinato ambito del nostro corpo e reagire di conseguenza. Se per esempio consideriamo delle cellule staminali (cellule in grado di differenziarsi in diversi fenotipi cellulari) in un tessuto osseo, grazie agli stimoli che ricevono, esse capiscono che si devono differenziare in osteoblasti. Un altro esempio sono le cellule muscolari che si differenziano a seconda della sollecitazione a cui sono sottoposte. Come smart materials, considereremo solamente sistemi non-viventi, cioè materiali che sono stati sintetizzati, progettati e prodotti dall’uomo, che sono in grado di variare una loro proprietà a livello macroscopico (in maniera significativa), a seguito di uno stimolo esterno, dunque una variazione nell’ambiente in cui si trovano. Le proprietà che possono cambiare possono essere: forma, dimensione, proprietà elettriche, proprietà magnetiche, caratteristiche ottiche. Tutto quello che abbiamo detto finora vale per tutti i materiali intelligenti (metallici, ceramici e polimerici). Riportiamo di seguito la definizione scientifica: Definizione: materiali intelligenti (smart) sono materiali che rispondono con una variazione significativa di una proprietà sotto l’applicazione di una “driving force” esterna. Alcuni possibili stimoli che possono essere applicati sono: variazione di temperatura, campo magnetico, luce, reazioni chimiche (variazioni di ph). Applicando uno di questi stimoli possiamo avere come risposta una variazione in una o più delle seguenti proprietà: lunghezza, viscosità, conducibilità elettrica etc.. Nella seguente slide sono riassunti tutti i tipi di materiali intelligenti: Osserviamo una suddivisione in Tipo 1 e Tipo 2. In Tipo 1 rientrano dei materiali che hanno tutti lo stesso suffisso. Si chiamano materiali ticromici (termo-, foto-, mecano-, chemo-, elettro-,…), che significa che cambia come output il colore di questi materiali. Cambia però l’input. Possiamo dunque avere diverse sollecitazioni esterne che portano allo stesso risultato, cioè il cambio di colore. Dunque, applicando un diverso input, possiamo ottenere lo stesso output. Il Tipo 1 sono quei materiali in cui a seguito dell’applicazione di uno stimolo (che di fatto è un’energia), cambia una proprietà del materiale (colore, rigidezza o viscosità). Applicando un’energia (termica, elettrica, meccanica, chimica etxc.), osserviamo una variazione in una proprietà del materiale. In Tipo 2 rientrano materiali che hanno come caratteristica quella di avere in input un’energia e in output sempre un’energia, ma differente rispetto a quella applicata in input. Per esempio, in tabella osserviamo materiali che presentano come output lo stesso tipo di energia (variazione della luce), ma hanno in input tutti un’energia diversa (elettrica, luminosa, chimica, termica, magnetica). Al variare dell’energia data in input, questa energia viene trasformata in un’altra forma di energia. Un esempio di questo tipo di materiali sono i sistemi fotovoltaici. In tabella osserviamo un’ulteriore categoria, cioè il Tipo 2 reversibile. Osserviamo infatti una doppia freccia, che significa che per questi materiali (prendiamo come esempio il caso del Piezoelettrico), possiamo applicare come input una deformazione e osservare come output una differenza di potenziale elettrico, oppure applicare come input una differenza di potenziale elettrico e osservare come output una deformazione. Si tratta di materiali reversibili, cioè possono essere utilizzati in entrambi i modi riportati in tabella. Esempi di materiali smart sono le leghe a memoria di forma, i materiali piezoelettrici e i materiali polimerici intelligenti. SMART POLYMERS: Nel seguente schema sono riportati gran parte dei materiali polimerici smart. Questi materiali possono essere suddivisi in Tipo 1 e Tipo 2: i materiali che ricevono un’energia e la trasformano per dare luogo ad una variazione in una proprietà del materiale (Tipo 1), sono i cromogenici, i materiali a memoria di forma e i fluidi Elettro Reologici (ER). I materiali che sono in grado di variazione il tipo di energia data in input (Tipo 2) sono i piezoelettrici, i materiali luminescenti e i materiali conduttivi). Materiali piezoelettrici: Sono materiali reversibili, che possono dunque funzionare sia come attuatori che come sensori. Generalmente i materiali piezoelettrici sono realizzati con materiali ceramici. Sono materiali che in qualche modo devono essere sensibili all’energia che viene fornita. In figura, la parte in rosso rappresenta l’elettrodo che può trasmettere il segnale elettrico dal campo elettrico che poi viene chiuso, al materiale piezoelettrico In figura è rappresentato il funzionamento da attuatore. Il circuito viene chiuso, lo stimolo è un campo elettrico. Come output osserviamo una variazione dimensionale, quindi una deformazione. Di seguito è invece rappresentato il funzionamento da sensore. Si tratta in questo caso di un materiale che ha una sua forma, che viene sollecitato meccanicamente (in figura osserviamo una forza assiale). Come output risultate osserviamo un segnale elettrico (una tensione che si genera). Questa deformazione porta ad avere come output un segnale elettrico che può essere letto da un detector. I materiali piezoelettrici hanno diversi possibili usi: - Attuatori: possono essere impiegati per controllare componenti in strumenti di macchine di precisione; per migliorare parti robotiche che si muovono più velocemente e con maggiore precisione (prendiamo l’esempio di una mano robotica che deve deformarsi. Applicando un campo elettrico, si deforma una parte della mano robotica che permette alla mano di aprirsi). - Sensori: possono essere impiegati per piccoli circuiti microelettronici in macchine che vanno dai computer alle stampanti fotolitografiche; possono essere utilizzati per fibre di monitoraggio per applicazioni biomedicali (prendiamo come esempio un sistema di monitoraggio per la gravidanza. Si ha una variazione dimensionale della pancia della mamma. Questo viene rilevato da un sensore che si deforma e invia come output un segnale elettrico), ponti e edifici. Ad oggi, per la realizzazione di materiali piezoelettrici, si usano materiali ceramici, che però hanno qualche svantaggio: sono fragili, sono difficili da lavorare (si possono lavorare solo per sinterizzazione, dunque processi ad alta temperatura), hanno alta densità e hanno deformazioni molto limitate (0.1-0.3%). Per cercare di risolvere alcune di queste limitazioni, sono stati studiati dei materiali polimerici piezoelettrici. I principali vantaggi dell’impiego di materiali polimerici al posto di quelli ceramici sono che, innanzitutto i polimeri sono materiali facili da lavorare. I processi di lavorazione necessari per questo tipo di materiali sono gli stessi utilizzati per lavorare i materiali polimerici tradizionali e questo porta un ulteriore vantaggio, cioè quello di non avere costi aggiuntivi di lavorazione e di processo. Un ulteriore vantaggio è la bassa densità. Anche i polimeri piezoelettrici sono stati studiati per essere impiegati sia come attuatori che come sensori. Esempio: materiali polimerici piezoelettrici impiegati come sensori Osserviamo in figura una donna con un cellulare. Sullo schermo del cellulare osserviamo un segnale in cui sono rappresentati i battiti cardiaci, che rappresenta l’esito di una qualche analisi fatta dalla paziente. L’informazione sul cellulare è stata ottenuta grazie alla collana che indossa la paziente, che è fatta con un materiale polimerico piezoelettrico. Quando la donna respira, la collana è sottoposta ad una deformazione. Tanto più il battito è accelerato, tanto più si avrà una deformazione di questa collana, che genera un segnale elettrico. Il materiale di cui è costituita la collana funziona dunque come sensore e da come output il battito cardiaco. Questa tecnologia è molto utilizzata e in fase di studio in ambito elettronico, in particolare per il rilevamento di segnali fisiologici. Esempio: pittura piezoelettrica Questo è un esempio, a livello industriale, che ci aiuta a capre che avere un materiale polimerico, rispetto ad un ceramico, sia un vantaggio, anche in termini di densità. In figura osserviamo in verde la nostra struttura e in azzurro i film conduttivi che ci permettono di portare il segnale elettrico (attuatore) o di riceverlo (sensore). In mezzo, in rosa, è rappresentato il film piezoelettrico. Utilizzando un materiale polimerico, siamo in grado di avere un film piezoelettrico di basso spessore (sottile) e più flessibile. La sua flessibilità permette di seguire in migliore modo la superficie della struttura. Nella seguente figura osserviamo un ponte che era crollato a causa di fenomeni vibrazionali. È stato deciso di riprogettare questo ponte mettendo in alcuni punti della struttura dei film in materiale polimerico piezoelettrico. In caso il ponte vibrasse più del dovuto, questi sensori rilevano la deformazione e quando questa deformazione supera una certa soglia, si va in campo di allarme. Questo permette di intervenire tempestivamente per ridurre il rischio. Materiali conduttivi: Collegati ai materiali piezoelettrici, ci sono i materiali conduttivi. Quando si parla di polimeri conduttori si hanno sempre alcune perplessità, dal momento che i polimeri siano gli isolanti per eccellenza, dal momento che tutti gli elettroni sono bloccati nei legami covalenti presenti sulla catena macromolecolare. Esistono però dei polimeri che possono essere sintetizzati, in modo tale da essere conduttori. In generale i materiali polimerici sono isolanti, ma possiamo sintetizzare dei materiali che hanno una struttura macromolecolare particolare, tale per cui sono conduttori. Tra questi citiamo Polianiline, Polipirroli e Poliotifeni. Questi materiali sono intrinsecamente conduttori. I materiali metallici sono conduttori perché gli elettroni nel legame non sono bloccati, ma formano una nube elettronica che permette un passaggio elettronico che determina la conducibilità elettrica. Nei materiali polimerici sintetizzati, avviene la stessa cosa, cioè vengono sintetizzate delle strutture macromolecolari in cui mancano degli elettroni. Sulla catena principale mancano degli elettroni, quindi viene permessa una conducibilità elettrica, cioè una delocalizzazione degli elettroni lungo la catena macromolecolare principale (backbone) del polimero. Esiste un’altra possibilità di avere materiali conduttori. Si tratta di materiali polimerici nei quali andiamo a caricare la matrice polimerica con delle particelle. Queste particelle vengono chiamate elementi droganti e permettono di avere un passaggio di elettroni grazie alla loro carica. La conducibilità elettrica, in questo caso, è dovuta alla carica che abbiamo inserito nel materiale composito, dunque maggiore è la carica, maggiore è il segnale elettrico che passa da una particella all’altra e quindi maggiore è la capacità del materiale di rispondere ad un campo elettrico. Minore è la carica che inserisco, minore sarà l’effetto di conducibilità elettrica del materiale. Questo accade perché se le particelle cariche sono poche, sono più lontane l’una dall’altra e dunque il segnale non riesce a passare da una particella all’altra perché si perde nella matrice polimerica (isolante). In ambito biomedicale questo tipo di materiale viene impiegato per lo più in ambito robotico. Esempio: Ci sono delle patologie, come la nevralgia del trigemino, che possono portare a delle modifiche del battito dell’occhio, fino ad arrivare ad una chiusura non completa della palpebra. È dunque necessario sollecitarla, sia perché l’apertura e la chiusura della palpebra svolgono una funzione di lavaggio dell’occhio, sia per evitare l’insorgere di un problema psicologico nel paziente. Una soluzione proposta è stata quella di fare una specie di molletta che si posiziona intorno all’occhio, costituita da materiale polimerico conduttore. Questo è collegato ad una batteria sottocutanea. Questo materiale è programmato per aprire e chiudere l’occhio, in modo tale da avere un movimento pseudo-naturale. Materiali cromogenici: Si tratta di materiali che vengono sollecitati con una determinata energia e la cui risposta consiste nella variazione di una determinata proprietà. I materiali cromogenici possono essere suddivisi in tre principali sottocategorie: termocromici, fotocromici e elettrocromici. ➔ Materiali termocromici: sono materiali che cambiano il loro colore quando sono esposti ad una sorgente di calore. Questi materiali si basato principalmente sulla tecnologia dei cristall