Civitas Educationis: Rivista Semestrale (PDF)
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Summary
This is an international peer-reviewed journal promoting reflection and discussion on the link between education and politics, considered a fundamental aspect of human existence. The journal aims to offer a diverse perspective and includes contributions from theory and empirical research focusing on educational systems, human rights, peace education, and other related topics.
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CIVITAS EDUCATIONIS. EDUCATION, POLITICS AND CULTURE Rivista semestrale Ambiti di interesse e finalità Civitas educationis. Education, Politics and Culture è una rivista internazionale peer- reviewed che promuove la riflessione e la discussione sul legame fra educazione e politica, intesa come dime...
CIVITAS EDUCATIONIS. EDUCATION, POLITICS AND CULTURE Rivista semestrale Ambiti di interesse e finalità Civitas educationis. Education, Politics and Culture è una rivista internazionale peer- reviewed che promuove la riflessione e la discussione sul legame fra educazione e politica, intesa come dimensione fondamentale dell’esistenza umana. Tale legame ha caratterizzato il pensiero e le pratiche educative occidentali sin dai tempi degli antichi greci, così come testimonia il nesso paideia-polis. La rivista vuole essere un’agorà in cui sia possibile indagare questo nesso da diverse prospettive e attraverso contributi teorici e ricerche empiriche che focalizzino l’atten- zione sulle seguenti aree tematiche: Sistemi formativi e sistemi politici; Educazione e diritti umani; Educazione alla pace; Educazione alla cittadinanza democratica; Educazione e differenze; Educazione e dialogo interreligioso; Educazione e inclusione sociale; Educazione, globalizzazione e democrazia; Educazione e cultura digitale; Educazione ed ecologia. Questa rivista adotta una procedura di referaggio a doppio cieco. Aims and scope Civitas educationis. Education, Politics and Culture is an international peer-reviewed journal and aims at promoting reflection and discussion on the link between educa- tion and politics, as a fundamental dimension of human existence. That link has been characterizing western educational thinking and practices since the time of the ancient Greeks with the bond between paideia and polis. The journal intends to be an agora where it is possible to investigate this topic from different perspectives, with both theoretical contributions and empirical research, including within its scope topics such as: Educational systems and political systems; Education and human rights; Peace education; Education and citizenship; Education and differences; Education and interfaith dialogue; Education and social inclusion; Education, globalization and democracy; Education and digital culture; Education and ecology. This journal uses double blind review. Founder: Elisa Frauenfelder Editor-in-chief: Enricomaria Corbi Editorial Advisory Board: Pascal Perillo, Stefano Oliverio, Daniela Manno, Fabrizio Chello Coordinator of the Scientific Committee: Margherita Musello, Fabrizio Manuel Sirignano Scientific Committee: Massimo Baldacci (Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”), Gert Biesta (University of Luxembourg), Franco Cambi (Università degli Studi di Firenze), Enricomaria Corbi (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa – Napoli), Mi- chele Corsi (Università degli Studi di Macerata), Lucio d’Alessandro (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa – Napoli), Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore), Ornella De Sanctis (Università degli Studi Suor Orsola Benin- casa – Napoli), Franco Frabboni (Università di Bologna), Elisa Frauenfelder (Uni- versità degli Studi Suor Orsola Benincasa – Napoli), Janette Friedrich (Université de Genève), Jen Glaser (Hebrew University of Jerusalem), Larry Hickman (Sou- thern Illinois University Car-bondale), David Kennedy (Mont Claire University), Walter Omar Kohan (Universidade de Estado de Rio de Janeiro), Cosimo Laneve (Università di Bari), Umberto Margiotta (Università Ca’ Foscari Venezia), Giu- liano Minichiello (Università degli Studi di Salerno), Marco Eduardo Murueta (Università Nazionale Autonoma del Messico), Margherita Musello (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa – Napoli), Pascal Perillo (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa – Napoli); Vincenzo Sarracino (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa – Napoli), Marie-Noëlle Schurmans (Université de Genève), Fabrizio Manuel Sirignano (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa – Na- poli), Giancarla Sola (Università degli Studi di Genova), Maura Striano (Univer- sità degli Studi di Napoli “Federico II”), Natascia Villani (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa – Napoli), Carla Xodo (Università degli Studi di Padova), Rupert Wegerif (University of Exeter) Web site: http://www.civitaseducationis.eu e-mail: [email protected] Civitas educationis EDUCATION, POLITICS AND CULTURE Anno IV Numero 1 Giugno 2015 SUOR ORSOLA MIMESIS UNIVERSITY PRESS Iscrizione al registro operatori della comunicazione R.O.C. n. 10757 Direttore responsabile: Arturo Lando Pubblicazione semestrale: abbonamento annuale (due numeri): € 36,00 Per gli ordini e gli abbonamenti rivolgersi a: Costantino Virgilio: [email protected] L’acquisto avviene per bonifico intestato a: Mimesis Edizioni, Via Monfalcone 17/19 20099 - Sesto San Giovanni (MI) Unicredit Banca - Milano IBAN: IT 59 B 02008 01634 000101289368 BIC/SWIFT: UNCRITM1234 Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, via Suor Orsola 10, 80135 Napoli Phone: +39 081 2522251; e-mail: [email protected] MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Isbn: 9788857533407 Issn: 2280-6865 © 2015 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso, o per qualunque mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfi lm, la memorizzazione elettronica, senza la preventiva autorizzazione scritta della casa editrice. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. Table of contents – Indice Enricomaria Corbi Editorial 7 Editoriale 11 SYMPOSIUM Educators Training. A challenge for the development of the Civitas educationis Enricomaria Corbi, Pascal Perillo Professions in education: an open issue 17 Le professioni educative: una questione aperta 23 Paolo Orefice Cittadini, saperi e professionisti della Civitas educationis terrestre. Scenario della formazione e della professionalità degli educatori e dei pedagogisti 29 Vanna Iori Identità professionale dell’educatore e del pedagogista: riferimenti normativi 51 Silvana Calaprice Sviluppo della professionalità educativa e pedagogica, tra ricerca di identità, formazione e lavoro. Il ruolo delle associazioni professionali 67 Fabrizio Chello Il ruolo della formazione nel processo di professionalizzazione degli educatori e dei pedagogisti 85 Daniela Manno L’inclusione come dialogo. Intorno alle competenze dei professionisti della formazione 115 Pascal Perillo Educatori e Pedagogisti. Quale habitus professionale? Il contributo della ricerca-formazione 133 ESSAYS – SAGGI Tommaso Fratini Educazione alla politica: la questione delle difese 159 Maria Rosaria Strollo, Alessandra Romano Social Network and the Expansion of the Civitas Educationis. Between Formal and Informal in School and University 173 BOOK REVIEWS – RECENSIONI Stefano Maltese Zoletto D., Dall’intercultura ai contesti eterogenei. Presupposti teorici e ambiti di ricerca pedagogica, FrancoAngeli, Milano 2012 211 L’inclusione come dialogo. Intorno alle competenze dei professionisti della formazione Daniela Manno1 Abstract This article explores the relationship between educational practices and inclusive practices in order to clarify the reason why dealing with the activity of training professionals for inclusion in the educational field means dealing with training educators tout court. Accordingly, this article presents some educational postures and tools that can promote educational practices which can be constitutively oriented to emanci- pation and able to support processes of inclusion in terms of dialogue. These processes are understood as those activated when the subjects are involved in rewriting their action schemes and in making contexts open to the expression of differences, in a framework of mutual respect that acts as a barrier to possible individualistic and relativistic drifts. Keywords: marginality, educational practices, reflexivity, Index for Inclusion. Riassunto L’articolo esplora la relazione fra pratiche educative e pratiche inclu- sive con l’obiettivo di chiarire in che senso occuparsi della formazione dei professionisti dell’educazione per l’inclusione significa occuparsi della formazione dei professionisti dell’educazione tout court. A que- sto proposito ci si interroga sulle posture e sugli strumenti che possono favorire una pratica educativa costitutivamente orientata all’emanci- pazione e in grado di sostenere processi di inclusione in termini di dialogo. Tali processi sono intesi come processi che si mettono in moto quando i soggetti partecipano alla riscrittura degli schemi d’azione ai quali sono stati socializzati e rendono i contesti aperti all’espressione delle differenze in una cornice di rispetto reciproco che fa da argine a possibili derive individualistiche e relativistiche. Parole-chiave: marginalità, pratiche educative, riflessività, Index per l’inclusione. 1 Università degli Studi Suor Orsola Benincasa – Napoli. 116 Civitas educationis – Education, politics and culture I. L’inclusione: monologo o dialogo? Simonetta Ulivieri, ne L’educazione e i marginali, scrive che: I marginali sono coloro a cui non è riconosciuta pienezza di diritti, etimo- logicamente vengono definiti come quelli che non sono nel testo, ma che stanno ai margini della pagina, anzi costituiscono, a fronte della pagina principale, codificata, una pagina secondaria, disordinata, che segue criteri diversi e divergenti (Ulivieri, 1997: IX). È ‘intorno’ ai marginali che storicamente si è andato sviluppando il discorso dell’inclusione sociale nei termini di discorso ‘intorno’ ai bisogni di quei gruppi di soggetti che restano esclusi dalle dinamiche sociali, sostanzialmente, a causa di una ‘mancanza’ di una qualche abilità che, dipendente da variabili organiche o sociali o economiche o etniche, rientra, invece, in un set di abilità possedute dalla maggior parte dei membri di una certa società. Al riconoscimento della mancanza e quindi alla legittimazione del bisogno ha certamente contribuito un mutamento – più o meno radicale a seconda dei differenti contesti socio-culturali –, della visione delle società e del loro funzionamento le quali, anche in relazione a una presa di parola sempre più insistente da parte degli stessi ‘marginali’, si sono andate connotando in senso più democratico e, in generale, più attento alla riduzione delle diseguaglianze. Da qui discende un insieme di misure volte alla riduzione del gap fra uno stato ritenuto ‘deficitario’ e una soglia da raggiungere perché intesa come livello accettabile e adeguato di condizioni di vita. Si tratta di un processo in corso e sul quale c’è ancora molto da investire, come testimonia, ad esempio, l’impegno dell’Unione Europea che dell’in- clusione ha fatto una delle sue priorità strategiche. Infatti, l’aumento delle opportunità di benessere che si sono determinate negli ultimi decenni non ha sempre portato a un miglioramento delle condizioni di vita perché anziché ‘diffondersi’ presso molti, tali opportunità si sono ‘concentrate’ presso pochi con la conseguenza che «il campo delle emarginazioni» si è andato allargan- do «anche verso ceti o situazioni fino a ieri protette e tutelate» (Ibid.: 33). Se l’esclusione è, dunque, una rinnovata emergenza e l’inclusione una delle priorità da perseguire bisogna, però, soffermarsi sull’idea stessa di ‘soglia da raggiungere’ e sulla natura delle misure volte alla riduzione del gap. Infatti, nonostante sia auspicabile che ci siano società in cui il benessere è diffuso, si nota che le misure volte alla realizzazione di questa condizione sono, nella maggior parte dei casi, orientate in una sola direzione: la direzione indica- ta dalla soglia. In altri termini, esse sono tese a ‘ripristinare’ uno standard di funzionamento. Pertanto, intendendo il bisogno come una ‘mancanza di qualcosa’, sembra che a definire il ‘che cosa’ manchi non sia il soggetto che esperisce il bisogno, ma coloro che come manchevoli non si identificano. Il discorso dell’inclusione si caratterizza, così, come un monologo: il mo- nologo degli inclusi. Da questo punto di vista, la differenza espressa da al- L’inclusione come dialogo – D. Manno 117 cuni rispetto a un insieme decisamente più omogeneo, assume il carattere di una eccezionalità che, poiché costituisce un ostacolo all’inclusione ossia all’accesso allo ‘stato non eccezionale’ – lo stato normale –, è da ridurre e/o superare. La norma, come sottolinea Medeghini (2015: 32) rileggendo il contributo di Esposito sull’idea di comunità, «non è preposta o imposta alla vita, ma solo desunta da essa. La norma è […] del vivente, espressione delle differenze, sempre in grado di creare e produrre nuove forme certamente non definite dalla dicotomia normale/anormale». Si capisce perché allora, dal punto di vista di una norma non desunta ma imposta, la questione dell’inclusione – come priorità da perseguire per far fronte all’emergenza dell’esclusione – si sia andata declinando nel senso della normalizzazione, ossia come adozione di una serie di misure che, pur specifiche per il ‘tipo’ di marginalità, sono tendenzialmente state di natura compensativa. Ben diverso è il discorso dell’inclusione in termini di dialogo, ossia di un processo in cui gli interlocutori non sono su gradini diversi rispetto alla loro vicinanza/lontananza dallo standard sociale, ma sono, invece, sullo stesso piano e si confrontano sui diritti specifici piuttosto che sui diritti convenzio- nalmente di tutti. L’inclusione come dialogo si produce quando si invoca il diritto all’espressione delle proprie differenze anziché richiedere e/o accon- tentarsi di azioni che sono volte a ricondurre quelle differenze in un insie- me omogeneo: l’inclusione come dialogo ha come obiettivo l’affermazione dell’eccezione e l’individuazione di un accordo sulle condizioni della parte- cipazione sociale. L’inclusione come dialogo rimanda a una condizione in cui, come afferma Fornasa (2011a: 158) le differenze non sono uno stigma disabilitante legato alle rappresentazioni sociali normative e al loro conseguente apparato di misure quantitative di abilità previste e ritenute necessarie, esse sono condizioni qualitative e qua- lificanti del vivente, di ogni vivente, e di ogni organizzazione, in qualsiasi forma e grado esse si manifestino e si (auto)organizzino nei contesti. Nel caso dell’inclusione come monologo, l’implicito è che l’inclusione sia un qualcosa di già realizzato dal quale alcuni sono rimasti fuori e, per questo, bisogna intervenire per ‘metterli dentro’. Nel caso dell’inclusione come dialogo, invece, parafrasando la definizione che ne danno gli autori dell’Index per l’inclusione, l’inclusione resta sempre un ideale irrealizzabi- le, qualcosa verso cui tendere: più che una condizione, è un processo che si mette in moto quando si inizia a considerare la differenza (cfr. Booth & Ainscow, 2008). Anche per Loiodice l’inclusione è legata all’affermazione e alla valoriz- zazione delle differenze piuttosto che alla loro normalizzazione: per questo si tratta di un concetto che non va ridotto al «tentativo, sempre incom- bente, di ‘includere’ per assimilare e omologare rispetto a modelli unici e totalizzanti» ma che deve complessificarsi «in virtù della pluralità delle dif- 118 Civitas educationis – Education, politics and culture ferenze che contraddistinguono e arricchiscono le persone», dal momento che esso «si riferisce alla possibilità/capacità di una società di assicurare a tutti gli individui il raggiungimento di standard dignitosi di vita […] fina- lizzati al benessere complessivo delle persone, attraverso il coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini stessi» (Loiodice, 2013: 209-210). È necessario, dunque, superare quella condizione che Fornasa (2011: 8) definisce di “emancipazione tutelata” attraverso la quale si ‘regolamentano’ le vite di alcuni gruppi sociali, indicando loro percorsi e strumenti predefiniti per uscire dalla condizione di subalternità. Bisogna piuttosto promuovere, nell’ottica dei diritti umani, misure di sostegno all’empowerment (cfr. Napo- litano, 2013) ossia di creazione di condizioni che permettano a tutti di ‘pren- der parola’ e di sperimentare forme inedite di partecipazione e solidarietà in un orizzonte democratico. A questo proposito, ripercorrendo il pensiero di Iris Marion Young su inclusione e democrazia, Oliverio specifica che [l]’inclusione non è […] solamente prendere parte agli esiti della decisione, né solamente ai processi di decisione ma, più radicalmente, all’elaborazione delle procedure con le quali si giunge alle decisioni. Così intesa, l’inclusione evita l’equivoco totalitario-omogeneizzante e acquista il carattere del pro- cesso sempre in divenire, che funge da dispositivo di conservazione della tensione democratica (Oliverio, 2010: 57). Il passaggio dall’ottica assistenziale all’ottica emancipativa – ossia dall’“emancipazione tutelata” all’emancipazione intesa come empower- ment – all’interno del discorso dell’inclusione chiama direttamente in causa l’educazione, che, per dirla con Henry Giroux (1992), può definirsi politica nella misura in cui, in un tempo dove, perlomeno nei contesti occidentali, il problema maggiore non sembra essere quello della censura, sostiene l’ap- propriazione degli strumenti per riconoscere di avere ‘voce’ e per esprimere, attraverso essa, la propria specificità. Visione, questa che Giroux elabora a partire dall’approfondimento e dell’applicazione degli strumenti concet- tuali dei Cultural Studies, il cui padre putativo, Stuart Hall, in un’intervi- sta nella quale la condizione di marginalità emerge come caratteristica di molti e non di pochi e sparuti gruppi sociali, afferma che: «Le maggioranze silenziose pensano; se non parlano, forse è perché abbiamo tolto loro la parola, perché le abbiamo private degli strumenti dell’enunciazione, e non perché non abbiano niente da dire» (Hall, 2006: 187). Si tratta, quindi, di un’educazione politica intesa come educazione alla cittadinanza e alla vita democratica (cfr. Sirignano, 2007), possibile solo in «una società aperta, orientata al cambiamento» e non in una «società chiusa, ostile agli influssi esterni, tesa unicamente a trasmettere i propri valori», e interessa- ta a promuovere «nei singoli l’interesse alle relazioni interpersonali e alle forme di vita associata, producendo una diffusa propensione a percepire i cambiamenti sociali come vantaggiosi per tutti» (Sirignano, 2012: 59-60). Un’educazione siffatta può mettere in grado i soggetti di autodetermi- narsi, sostenendo l’istanza della riduzione delle disuguaglianze sociali in L’inclusione come dialogo – D. Manno 119 nome della differenza e non dell’uguaglianza. Del resto, come ci ricorda Freire, rivendicare uguali condizioni significherebbe annullare la differenza che ci costituisce come soggetti unici ed irripetibili: il rispetto della diffe- renza esige, al contrario, un’eguaglianza di possibilità (cfr. Freire, 2008: 100). Solo mettendo tutti in condizione di ‘parlare’ può realizzarsi l’in- clusione come dialogo ed è nella realizzazione di questa condizione che l’educazione ricopre un ruolo fondamentale. Tuttavia, piuttosto che svilupparsi sulla direttrice dell’emancipazione, il nesso educazione-inclusione – tanto negli ambiti scolastici quanto e so- prattutto in quelli extrascolastici – si è andato sviluppando sulla direttrice degli interventi compensativi a cui più sopra si accennava, facendo spes- so scivolare l’idea di cura educativa verso l’idea di cura riabilitativa, fino a delineare, in alcuni casi, un orizzonte più generale di medicalizzazione dell’esistenza (cfr. Attinà & Martino, 2014; Medeghini, 2006). Le ragioni di questa situazione si ritrovano nella stessa genesi delle pratiche educative non formali che politiche sociali volte maggiormente all’assistenza ‘mate- riale’ dei singoli ‘svantaggiati’ piuttosto che alla promozione del benessere, anche immateriale, della società nel suo insieme hanno legittimato come pratiche legate alla marginalità (cfr. Melacarne, 2011). In virtù di questo legame tali pratiche educative sono state relegate in luoghi che non solo sono meno legittimati socialmente, ma sono anche considerati come «luo- ghi esclusivi della ri-educazione, della cura, della riabilitazione del conteni- mento, della devianza piuttosto che spazi di sviluppo, di autorealizzazione, di crescita e di emancipazione» (Santerini, 2006: 70). Nell’ultimo decennio questa situazione si è andata gradualmente tra- sformando anche perché in seguito all’emergere di «bisogni formativi ed educativi che rinviano ad un variegato e complesso quadro di emergenze sociali» si è fatta forte la «richiesta di una molteplicità di funzioni e figu- re che lavorino sulla formazione e sull’educazione di individui e gruppi sociali» con la conseguente nascita di «professioni di progettazione e di gestione» e «professioni di accompagnamento, aiuto, cura, sostegno in ri- sposta alle diverse richieste formative ed educative di differenti tipologia di utenza» (Striano, 2004: 119). In questo scenario, inizia a cambiare la con- notazione dello stesso lavoro educativo che prova a spogliarsi della veste dell’assistenza per indossare quella della promozione dell’empowerment, ossia di «attività di promozione di strumenti e sensibilità utili a scegliere responsabilmente le esperienze di formazione ritenute funzionali alla piena realizzazione di sé e alla costruzione del proprio percorso formativo […] all’interno di contesti sociali turbolenti e incerti» (Melacarne, 2011: 76). Ciò nondimeno, il legame fra educazione e inclusione sembra non essere letto nel suo senso organico e, ipotecato dalle sue stesse origini, è spesso ri- dotto a uno solo dei suoi aspetti costituivi perdendo, così, la sua ampiezza di significato e le correlate possibilità operative. Analizzando alcune occorrenze della relazione fra i termini educazione e inclusione, nel paragrafo che segue si cercherà di dare conto della natura strutturale di questo nesso e della sua complessità. Tale analisi sarà funzio- 120 Civitas educationis – Education, politics and culture nale a chiarire in che senso occuparsi della formazione dei professionisti dell’educazione per l’inclusione significhi occuparsi della formazione dei professionisti dell’educazione tout court per focalizzarsi, nella parte con- clusiva di questo scritto, sulle posture e sugli strumenti che favorendo il lavoro educativo favoriscono, di fatto, l’attivazione di processi inclusivi. Ciò non per relegare nuovamente l’educazione nei contesti della mar- ginalità quanto piuttosto per ‘liberare’ il concetto di inclusione ed esten- derlo alle dinamiche di partecipazione di tutti i soggetti. In altri termini, per delineare le condizioni di una pratica educativa che coinvolga tutti e non solo ‘soggetti specifici’ in ‘luoghi speciali’ e che sia costitutivamente orientata all’emancipazione così da sostenere processi di inclusione in termini di dialogo. 2. L’organicità del nesso educazione-inclusione Come anticipato, in questo paragrafo si proverà a ripercorrere alcuni dei modi in cui i termini educazione e inclusione si trovano accostati per rintracciare differenze di significato, ma soprattutto reciproci rimandi e implicazioni che sembrano poterci restituire la complessità e l’organicità del nesso che li tiene insieme. Nell’ottica di una prima esplorazione e senza nessuna pretesa di esaustività si prenderanno in considerazione le forme della relazione che potremmo definire di tipo qualificativo (l’educazione in- clusiva); di tipo strumentale e/o teleologico (l’educazione per l’inclusione); di tipo equivalente (l’educazione come inclusione). Nel caso dell’educazione inclusiva, i termini sono accostati in modo che l’inclusione qualifichi l’educazione e identifichi, così, uno dei modi di essere dell’educazione stessa. L’educazione inclusiva richiama il noto documento dell’UNESCO – The Salamanca Statement and Framework for Action on Special Needs Education – che introdusse questa locuzione nel 1994. Dal momento che nel dibattito nazionale e internazionale l’inclusione è sempre stata intesa come inclusione sociale e riferita ai soggetti deboli e marginali, ossia, come specifica Caldin (2013: 13), «with no specific refe- rence to education», la Dichiarazione di Salamanca rappresenta un tassello fondamentale nell’elaborazione di un quadro che risponda a quello che la stessa studiosa individua come il bisogno di «create a terminology that in- cludes both the wider meaning of the inclusive approach and the ties with school inclusion» (Ibidem). Nella Dichiarazione ci si concentra sulle strategie per l’educazione dei soggetti con bisogni educativi speciali partendo dalla premessa che, poi- ché l’inclusione e la partecipazione sono elementi essenziali per la dignità umana e per l’esercizio dei diritti umani, è necessario individuare, in campo educativo, le opportune strategie atte a favorire condizioni di uguaglianza e opportunità a tutti. Il focus è sulla scuola e in particolare sulle caratteristiche della cosid- detta scuola inclusiva che si richiama al principio fondamentale dell’ugua- L’inclusione come dialogo – D. Manno 1 21 glianza di tutti gli alunni: tutti gli alunni, infatti, e non solo quelli con Biso- gni Educativi Speciali, dovrebbero apprendere insieme, tenuto conto delle differenze, in termini di culture, capacità e difficoltà, di ciascuno. In rispo- sta alla specialità dei bisogni, l’UNESCO suggerisce non percorsi speciali, ma percorsi comuni e risposte personalizzate che si sostanziano in quel supporto extra in grado di aumentare l’efficacia stessa dell’educazione. Da questo punto di vista, l’educazione inclusiva non è altro che una rinnovata versione del principio dell’Education for All sostenuto dall’UNESCO. Nonostante questa idea di fondo, le prassi del quotidiano hanno portato a intendere l’educazione inclusiva sì come un modo nuovo di fare educa- zione, ma un modo diverso e speciale rivolto ad alunni considerati diversi e speciali. In molti casi sembra di trovarsi di fronte a una mera modifica lessicale: pensiamo al caso italiano in cui il processo di integrazione, in par- ticolare scolastica, è stato avviato da più di quattro decenni e che, pur es- sendo stato un modello da seguire per altri paesi, avrebbe bisogno di essere ripensato proprio alla luce della prospettiva inclusiva (cfr. D’Alessio, 2011; Medeghini & Fornasa, 2011) e dove, invece, il termine inclusione finisce comunque per designare un insieme di pratiche specifiche e specialistiche, rivolte a gruppi di soggetti precisi, categorizzati sulla base di un ‘bisogno’ ritenuto speciale (cfr. Musello & Sarracino, 2015). Il passaggio dall’integrazione all’inclusione, a scuola come in qualsiasi altro contesto educativo, richiede un cambiamento su molteplici piani – modelli teorici, modelli professionali, focus dell’azione, contesti e modelli didattici (cfr. Medeghini, 2011: 125) – e il riconoscimento e superamento di quegli “impliciti pedagogici” – abilismo, neutralità dei contesti, omoge- neità formativa e adattamento (cfr. Ibid.: 110-116) – che Medeghini analiz- za pervenendo alla definizione dell’educazione inclusiva come uno sfondo adeguato alle ‘differenze’ in ambienti di forte connotazione re- lazionale per cui, anziché essere un tema specifico relativo a come si possa integrare qualcuno nell’educazione ordinaria, essa si propone di indicare un percorso e delle scelte per portare il sistema educativo a dare risposte significative, in termini di partecipazione e formazione, alle differenze di tutti (Ibid.: 118). Non solo è possibile estendere le dimensioni analizzate da Medeghi- ni dalla scuola ad altri contesti educativi, ma ci si può anche soffermare sugli effetti che una educazione scolastica realizzata secondo il modello dell’integrazione ha in termini di formazione dei futuri cittadini. Alunni abituati a vivere in classi in cui è istituzionalizzata la differenza fra alunni e insegnanti ‘normali’ e alunni e insegnanti ‘speciali’, si abitueranno a con- siderare la società come qualcosa che appartiene ad alcuni e non ad altri, a considerare i problemi di alcuni come problemi dei singoli e non come problemi dei contesti per la cui risoluzione impegnarsi; interiorizzeranno un modello di delega agli specialisti dei soggetti e delle questioni che non sono riconducibili all’interno di una norma: un modello, questo, che, anche 122 Civitas educationis – Education, politics and culture in presenza di diverse indicazioni legislative, la scuola, di fatto, finisce con il suggerire. Quando si riduce a «dispositivo che risponde ai bisogni educativi spe- ciali», non si coglie l’ampiezza del concetto di inclusione e non se ne valo- rizzano le molteplici implicazioni culturali, educative e sociali sul piano individuale e collettivo [relegandosi in…] un orizzonte di senso ristretto, laddove sarebbe necessa- rio allargare il campo a una riflessione di più ampia portata interessando anche l’area della pedagogia generale e sociale oltre che quello della peda- gogia speciale (Striano, 2014: 71). L’inclusione, infatti, è una pratica educativa a cui essere ‘esposti’ e all’in- terno della quale prendere forma a scuola e fuori dalla scuola. Una pratica che richiede una riflessione che maturi, appunto, nell’incontro fra pedago- gia generale e pedagogia sociale al fine di considerare la formazione indi- viduale come mai slegata dalla dimensione collettiva entro cui si sviluppa (cfr. Sarracino, 2011; Orefice, 2011). Nel caso dell’educazione per l’inclusione, la relazione fra i termini si mostra nella sua natura strumentale e/o teleologica. L’inclusione è l’obiet- tivo da raggiungere sia che l’educazione sia considerata un mezzo, al pari di altri e diversi mezzi, per raggiungere un obiettivo fissato all’esterno del suo ambito di discorso, sia che l’inclusione sia considerata un fine in sé dell’educazione. L’educazione può essere una risorsa che si colloca in un insieme più ampio di risorse materiali e immateriali mobilitate, nell’ambito delle mi- sure previste dalle politiche sociali di un certo territorio, per ridurre i fe- nomeni di marginalità sociale e, come sostengono Corsi e Ulivieri (2013: 5), «fornire e creare la possibilità per l’esercizio del diritto alla ‘citta- dinanza attiva’». È la complessità di questo obiettivo, la realizzazione dell’inclusione in termini di cittadinanza (cfr. Giaconi, 2012) – termine, quest’ultimo, che può essere finanche più egualitario del primo perché non ha in sé il rimando a una divisione fra chi è dentro e chi è fuori (cfr. Levitas, 2005) – che, come sottolineano gli autori, richiede l’attivazione tanto del welfare tanto dei dispositivi formativi e, quindi, chiama in cau- sa «tanto le scienze socio-economiche quanto quelle psico-pedagogiche» (Corsi & Ulivieri, 2013: 5). Infatti, ‘[i]ncludere’ significa […] mettere al centro le condizioni in cui si trovano gli individui e contemporaneamente si riferisce alla necessità di diminuire le diseguaglianze tra gli individui, non solo riducendo i fenomeni di divario socioeconomico, ma fornendo a tutti una prospettiva esistenziale in cui i processi di empowerment siano centrali (Ibidem). Parlando, per l’appunto, di un “educare per includere”, Tramma fa nota- re che il ruolo svolto dalle politiche educative è decisivo per la realizzazione L’inclusione come dialogo – D. Manno 123 dell’inclusione poiché esse, a differenza di altre, «hanno la nota particolarità di dover trasformare il mondo e non solo di interpretarlo, e questo sia che dell’educazione si abbia una visione liberatoria-individualizzante sia, all’oppo- sto, che se ne abbia una visione costrittiva-socializzante» (Tramma, 2014: 26). Quando la visione non è quella costrittiva-socializzante, ma liberatoria- individualizzante, l’educazione concorre a mettere i soggetti in grado di attivare la propria inclusione, di divenire soggetti attivi e partecipativi. In questo modo, «in quanto soggetti che necessitano di inclusione» essi mi- gliorano la propria condizione di vita e, al contempo, «in quanto soggetti che dovrebbero favorire, o almeno non ostacolare, l’inclusione altrui», par- tecipano al miglioramento della società nel suo insieme (Ibid.: 30). I processi educativi, nella misura in cui «innalzano i livelli di consapevolezza e di riflessione; b) producono empowerment a livello individuale e collettivo; c) forniscono strumenti di decodifica culturale, di comunicazione, di signifi- cazione; d) orientano alle decisioni e alle scelte informate; e) sostengono la partecipazione e l’assunzione di responsabilità» rappresentano «un presuppo- sto imprescindibile» dell’inclusione (Striano, 2014: 76). Infatti, gli elementi or ora richiamati nella citazione sono prerequisiti ineliminabili per un’inclusione come dialogo: è in tal senso che l’educazione realizza l’inclusione – o più cor- rettamente pone le basi per l’attivazione del processo inclusivo – e quest’ultima può, al contempo, essere considerata un fine in sé dell’educazione. L’educazione agisce, inoltre, «sulle condizioni di contesto, sottoponen- do ad analisi critica e mettendo in discussione credenze, rappresentazioni, stereotipi» di una certa società (Striano, 2010: 7). Ciò potrebbe significare che l’inclusione è un fine in sé dell’educazione anche nel senso della costru- zione di quelle condizioni che permettono la sua stessa realizzazione come insieme di esperienze ‘significative’ per lo sviluppo del soggetto in una dire- zione, per questi, emancipativa. Come ci ha insegnato Dewey, esperienza ed educazione sono inscindi- bilmente legate, il loro “nesso è organico”, ma esse non sono equivalenti perché non «tutte le esperienze sono genuinamente o parimenti educative» (Dewey, 2014: 11). L’esperienza è diseducativa quando «ha l’aspetto di arrestare o fuorviare lo svolgimento della esperienza ulteriore […] può procurare incallimento; può diminuire la sensibilità e la capacità di reagire […] limita[ndo così] le possibilità nel futuro» (Ibid.: 12). Ci sono esperien- ze che in sé possono risultare anche piacevoli, che possono migliorare una certa abilità del soggetto o portargli un qualche vantaggio senza, però, che ciò implichi, necessariamente, il potenziamento della sua autonomia nell’o- rientare il suo sviluppo successivo. Non è sufficiente l’esperienza naturale della crescita affinché l’esperienza sia educativa, ma l’esperienza dovrebbe tendere verso un fine preciso, rappresentato, appunto, dallo sviluppo ulte- riore. Vale a dire che l’esperienza dovrebbe essere la “forza propulsiva” che sostiene il tendere verso e, per questo, caratterizzarsi per l’essere in grado di «suscita[re] curiosità, rafforza[re] l’iniziativa e fa[r] nascere desiderio e propositi che sono sufficientemente intensi per trasportare un individuo al di là dei punti morti nel futuro» (Ibid.: 24). Inoltre, l’educazione dovrebbe 124 Civitas educationis – Education, politics and culture realizzarsi nelle migliori condizioni di interazione fra i fattori “interni” al soggetto e fattori cosiddetti “obiettivi” intesi come «il totale assetto sociale delle situazioni in cui la persona è impegnata» (Ibid.: 32): è su tale assetto che l’educatore può e deve intervenire attraverso una progettazione che sappia mettere al centro l’attività del soggetto e potenzi la sua capacità di concorrere alla trasformazione di tali condizioni. Perché le esperienze diseducative si verificano, in particolar modo, quando l’attività del sogget- to è mortificata, nella “scuola tradizionale” a cui Dewey si sta in questo caso riferendo, ma in generale in ogni condizione di privazione materiale e culturale come è, anche, quella dell’esclusione sociale. L’inclusione, invece, come condizione di convivenza in cui ciascuno possa partecipare alla vita sociale secondo le sue attitudini e possibilità, è una condizione in sé signi- ficativamente educativa. Quanto appena detto apre la strada a una relazione fra educazione e inclusione che può essere letta in termini di equivalenza, ossia nei termini di educazione come inclusione. Educations as inclusion è il titolo di un Symposium – apparso su questa stessa rivista lo scorso anno – curato da Maura Striano, la quale nella sua introduzione chiarisce in che modo tale dizione sia in grado di recuperare il senso complesso di entrambi i termini e di risolvere, al contempo, quella ambiguità semantica che sembra caratterizzarli (cfr. Striano, 2014a). In- fatti, solo nel contesto formativo, a differenza di quello economico – dove l’inclusione è ‘misurata’ attraverso indicatori standardizzati – o di quello socio-politico – in cui essa è intesa sempre rispetto a qualcuno che è altro da sé e per il quale è necessario trovare nuove modalità di contatto e forme di integrazione – l’inclusione «viene a essere riconosciuta […] come un processo di co-adattamento e co-evoluzione, che interessa, insieme, con- testi e persone e si riverbera sulla relazione (intesa in termini transattivi) tra individuo e contesti di vita, nella misura in cui questi ultimi risultano funzionali all’espressione di tutte le sue risorse e potenzialità» (Ibidem). In questo caso, l’inclusione non solo diventa un processo “esplorabile dall’interno”, ma è un processo che mette al centro i soggetti in relazione ai contesti che questi abitano (Ibidem). La messa in discussione dei “contesti educativi e sociali” è al centro del saggio di Canevaro (2014), intitolato per l’appunto “Educazione come in- clusione”, un’educazione che secondo l’autore si differenzia profondamente da una forma trasmissiva di educazione che non mette in discussione l’ordi- ne della società e finisce con il sostenere quasi esclusivamente misure com- pensative attraverso cui i soggetti possono adattarsi a ciò che è stato già co- struito a partire dalle esigenze di altri. L’educazione come inclusione sembra risolvere anche il problema dell’incontro fra misure speciali e misure comuni a cui si accennava anche a proposito dell’“educazione inclusiva” perché essa, come sostiene Canevaro, non esclude le tecniche compensative che anzi sono necessarie, ma queste, intese come competenze, devono intrecciarsi con com- petenze di ordine conservativo, tese a salvaguardare l’identità dei poli della relazione, e competenze evolutive ossia quelle competenze che sorreggono L’inclusione come dialogo – D. Manno 125 processi trasformativi attraverso cui i soggetti possono cambiare prospettiva e, dunque, gli stessi contesti modificare la propria forma (Ibid.: 82). Non c’è inclusione, come abbiamo visto anche parlando dell’“educa- zione per l’inclusione” senza trasformazione dei contesti e, dunque, senza messa in discussione dei sistemi culturali di riferimento (cfr. Striano, 2010: 7) e tale trasformazione è il risultato dei processi educativi che «vanno a intervenire proprio sullo ‘habitat’ culturale che alimenta e sostiene l’agire individuale e collettivo e sugli “habits” (in senso deweyano) in esso inscritti per generare nuovi copioni, nuovi modelli, nuove pratiche, nuove rappre- sentazioni» (Striano, 2014b: 76). L’inclusione, un’inclusione come dialogo, è il processo che si mette in moto quando i soggetti partecipano alla riscrittura degli schemi d’azione ai quali sono stati socializzati e rendono i contesti aperti all’espressione delle differenze in una cornice di rispetto reciproco che fa da argine a possibili derive individualistiche e relativistiche. L’enfasi sulla funzione trasformativa dell’educazione ci aiuta a compren- dere che il discorso educativo e il discorso inclusivo – entrambi liberati dal loro essere circoscritti a specifiche categorie di soggetti e contesti ed entrambi considerati come processi trasformativi – si pongono su un piano di equivalenza e si implicano a vicenda. Il loro rapporto è chiastico come suggerisce Maltese (2014: 39) ed è alla base, secondo l’autore, di quel chiasma inclusione-interdisciplinarietà che Oliverio (2013a) identifica per parlare della formazione dei professioni- sti dell’inclusione considerando di quest’ultima anche la sua dimensione epistemologica oltre che quella etico-politica. Educazione e inclusione si implicano a vicenda perché [i]n un paradigma pedagogico che proponga l’inclusione come suo oriz- zonte di senso, ogni pratica educativa è già di per sé un andare incontro alla diversità di ciascuno e, d’altro canto, è possibile testimoniare anche il ragionamento inverso: dal momento che l’educazione ha nel suo statuto epistemologico il mandato di promuovere, sostenere e alimentare la crescita di soggettività uniche e irripetibili, e che le soggettività altro non sono che strutturazioni personali di differenze, viene da sé che considerare la pratica educativa a prescindere da una cornice teleologica inclusiva risulterebbe un’operazione di segno contrario al suo ruolo preponderante nella costru- zione di società democratiche, come ci si affanna a definire quelle attuali (Maltese, 2014: 40). L’educazione, dunque, è sempre inclusiva e sempre lavora nella dire- zione dell’inclusione: essa non si dà come dispositivo di trasformazione dei contesti se non all’interno di una dimensione che, in quanto sociale, è caratterizzata inevitabilmente dalla differenza dei soggetti e non dalla loro uguaglianza, e essa sempre mobilita dispositivi che potenziano la capacità dei soggetti di esprimere quella stessa differenza. 126 Civitas educationis – Education, politics and culture 3. L’inclusione come dialogo: posture e strumenti dei professionisti della formazione In questo paragrafo si proverà a riflettere sulle competenze dei profes- sionisti dell’educazione e della formazione – coloro, i primi, che «si occu- pano di garantire ai cittadini il diritto all’educazione» e coloro, i secondi, che si «occupano della preparazione dei cittadini ad una determinata attività lavorativa, qualunque sia il livello tecnico e professionale» (Ore- fice, 2009: 222) – intesi come professionisti che operano, entrambi, nel più ampio «ambito della formazione dell’uomo» (Perillo, 2012: 26), alla luce del nesso che unisce educazione e inclusione in virtù di una comune natura processuale relativa allo sviluppo dei soggetti e alla trasformazio- ne dei contesti, in un senso, rispettivamente, emancipativo e democratico. Se la condizione dell’essere inclusi è la condizione della partecipazione alla vita sociale secondo potenzialità e interesse di ciascuno, risulta difficile individuare contesti in cui l’educazione non sia una pratica – a patto di non volerne considerare le forme autoritarie e trasmissive – che permette ai soggetti di acquisire gli strumenti per esercitare tale partecipazione e sostenere che educare non significhi già di per sé includere, o meglio porre le condizioni dell’inclusione come dialogo. Da questo punto di vista, l’inclusione sembrerebbe designare una carat- teristica, uno sfondo e una direzione – costitutiva – della pratica educativa, piuttosto che uno dei suoi ambiti, ossia quello legato ai fenomeni connessi alla marginalità sociale. Fenomeni che, d’altronde, oggi risulta comunque sempre più difficile circoscrivere dal momento che, a causa del complessifi- carsi delle dinamiche sociali, la marginalità è polimorfa e diffusa: la difficol- tà/non possibilità di ‘espressione’ che essa designa interessa, in modo stabile o temporaneo, fasce sempre più ampie di popolazione la cui domanda edu- cativa e formativa diventa, anche per questo, sempre più consistente. Quali sono, allora, le competenze che un professionista della formazione dell’uomo dovrebbe possedere per essere in grado di progettare e/o attua- re – a seconda dei livelli della professione (cfr. Orefice, 2009; Orefice et al., 2011) – interventi educativi e formativi intenzionalmente emacipativi e dunque, per questo, inclusivi? La specificità dell’educazione e dell’inclusione risiede, in ultima istanza, nel rimandare a un processo fondato sull’incontro con l’altro in situazioni che non sono predeterminate e che non possono, per tale motivo, essere af- frontate esclusivamente attraverso l’applicazione di un set di saperi e com- petenze di tipo ‘chiuso’ ossia non suscettibili di una ridefinizione di fron- te alla “richieste della pratica” (Schön, 2006). Come rileva Striano «l’azione educativa» – che è, nell’interpretazione proposta in questo scrit- to, anche azione per e di inclusione – «è una peculiare e specifica forma di ‘azione sociale’, profondamente implicata in sistemi di norme, trame di significati, tradizioni culturali ai quali per un verso garantisce la possibilità di riproduzione, per l’altro offre occasioni di riflessione e trasformazione»; ne discende che L’inclusione come dialogo – D. Manno 1 27 i professionisti dell’educazione dovrebbero, pertanto, essere indirizzati non tanto e non solo ad acquisire specifiche conoscenze e competenze che li qua- lifichino in senso tecnico-strumentale, ma a sviluppare e a praticare forme di razionalità pratica ed emancipativa che li mettano in grado di funzionare come agenti di trasformazione e di cambiamento (Striano, 2001: 8). Si tratta di un tipo di razionalità le cui forme consentono «la realiz- zazione di azioni non tanto e non solo efficaci, ma fondate su una reale consapevolezza dei presupposti (culturali, sociali, politici) da cui tali azio- ni derivano, delle implicazioni che le connotano, delle conseguenze che prefigurano» (Ibid.: 9). È una razionalità di tipo riflessivo (cfr. Striano, 2001, 2006; Fabbri et al., 2008; Perillo, 2012; Oliverio, 2013a) sulla quale non può non fondarsi «l’operari educativo quale luogo di esercizio della professione educativa» nel momento in cui si riconosce «l’agire educativo come problematico ambito di ricerca in situazione che chiama in causa l’interazione pensiero-conoscenza-in-azione in quanto regolata da istanze, orientamenti e intenzionalità» (Perillo, 2012: 21). Il ricorso ad una razionalità riflessiva, lungi dal porsi come panacea per la risoluzione dei problemi che l’educatore può incontrare nel proprio agire quotidiano, può tuttavia consentire di intervenire sul rafforzamento dei li- velli di consapevolezza che si accompagnano all’azione (Ibid.: 84). Rafforzando i “livelli di consapevolezza che si accompagnano all’azio- ne”, una postura riflessiva può sostenere forme di impegno nell’incontro con l’alterità poiché, favorendo la scoperta e la ridefinizione degli impliciti soggiacenti all’agire, favorisce la costruzione di condizioni inedite e condi- vise in cui ciascuno possa sentirsi accolto e soggetto di dialogo. L’«impegno […] di sviluppare contesti educativi accoglienti, che prendano in considera- zione le differenze […] e le diverse esigenze di cui sono portatrici» dovreb- be, infatti, caratterizzare, come sostiene Oliverio (2010: 59), l’educazione in una società pluralistica, connotazione che possiamo estendere a tutte le società, in quanto insiemi di differenze, e non solo a quelle caratterizzate dalla convivenza di diverse culture nazionali come effetto delle migrazioni. Impegno che deve, però, mantenersi in equilibrio fra l’attenzione alle diffe- renze e l’attenzione all’insieme più ampio in cui esse si inseriscono, dunque, fra rischio dell’eccessiva distinzione e rischio dell’eccessiva generalizzazio- ne (cfr. Tramma, 2014: 18). È una postura riflessiva quella che può sostenere la traduzione operativa del nesso educazione-inclusione dal momento che l’inclusione «pedagogicamente parlando, diventa un fatto concreto nel momento in cui si sottopongono le pratiche educative a revisione critica e ri-costruzioni che la promuovano» (Maltese, 2014: 41). Essere aperti e pronti alla revisione critica e alla ri-costruzione delle pro- prie pratiche richiede una certa attitudine a rinunciare al conforto che ci procura la consuetudine, la ri-produzione quasi meccanica di schemi d’a- 128 Civitas educationis – Education, politics and culture zione già noti, perché è questa la strada per arrivare a «una forma men- tis inclusiva, e in senso più ampio a una cultura dell’inclusione», afferma Striano (2014: 17) introducendo il contributo di Medina (2014) nel quale si rintraccia, per l’appunto, la proposta di un’educazione come inclusione in termini di coltivazione del disagio e della perplessità. Ripercorrendo il pensiero di Addams, Medina scrive che: The cultivation of perplexity […] is the cultivation of our openness to being challenged and affected by other experiential perspectives. This critical ex- periential approach involves an ethical imperative: the imperative to renew our perplexities and to reinvigorate our openness to alternative standpoints, the imperative to constantly expand our personal as well as shared perspec- tives and sensibilities. Only when we live up to such imperative can we contribute to the formation of pluralistic communities and open publics that are committed to inclusion and social justice. The expansion of social sensibilities through the cultivation of perplexity facilitates pluralistic forms of solidarity. We are interested in the cultivation of perplexity and in educa- tional practices and habits that resist comfort because they are the heart and soul of solidarity, of social empathy and a social ethics (Ibid.: 55). Operare nel senso dell’educazione come inclusione significa, dunque, ri- spettare l’imperativo di rinnovare la perplessità e rinforzare l’apertura ver- so punti di vista alternativi al proprio, di resistere alla tentazione di ‘ada- giarsi’ e di percorrere le strade tortuose e incerte, ma ricche di potenzialità di benessere individuale e sociale, dell’incontro con la differenza. Bisogna abitare l’incertezza e far sì che il disagio che essa ci procura alimenti non fughe e chiusure, ma nuovi progetti di sviluppo: perché l’educazione come inclusione non offre risposte già costruite – ecco l’insufficienza di un sapere tecnico teso esclusivamente alla sua riproduzione – ma si attiva a partire da quelle domande che essa stessa contribuisce a far emergere. È sempre a partire da una domanda, contestuale e situata, che si può attivare una riflessione sulle proprie pratiche educative e la tensione inclusiva si sostanzia, proprio, nella capacità di mantenere sempre aperta la domanda, di conservare una postura interrogativa dal momento che nessuna risposta, in quanto contestuale e situata, potrà mai essere esaustiva rispetto alle richieste di ulteriori e possibili differenze. La tensione inclusiva così intesa è alla base dell’uso di uno strumento come l’Index per l’inclusione (Booth & Ainscow, 2008) che, mes- so a punto per la trasformazione della scuola in comunità inclusiva, si intende qui brevemente prendere in considerazione per le sue funzioni di analisi, progettazione e ricerca in quanto funzioni fondate su un processo di riflessione condivisa fra gli attori di un certo contesto educativo. Come suggerisce il suo nome si tratta di un ‘Indice’ delle caratteristiche di un contesto educativo inclusivo, ma, a differenza di ciò che si potrebbe pen- sare, il processo che esso attiva non è quello di un’automatica verifica di corrispondenze fra una situazione attuale e una situazione ideale in vista L’inclusione come dialogo – D. Manno 129 di un adeguamento della prima alla seconda, quanto un processo di in- dagine che pur nel rigore – anzi, anche grazie al rigore – della struttura stessa dell’Index basata su dimensioni, sezioni, indicatori e domande, è estremamente sensibile al contesto e in grado di accoglierne le specifiche istanze, ma soprattutto si caratterizza come processo di continua revisione e ri-progettazazione degli assetti relativi ai valori, alle strategie e alle pra- tiche di quello stesso contesto in considerazione degli esiti di un dialogo in cui le differenze hanno modo di affermarsi e sostenere le proprie esigenze. L’Index combina parametri qualitativi e parametri quantitativi, e, come afferma Dovigo nella sua introduzione alla traduzione italiana, fattori im- portanti sono: la sistematicità con cui viene condotta la ricognizione rispetto alle tematiche individuate come sensibili; l’attività di controllo e verifica ricorsiva degli elementi acquisiti e delle considerazioni che da essi scaturiscono; l’atten- zione a lavorare attraverso categorie di analisi che rimangano abbastanza aperte e modificabili così da incorporare nuove osservazioni e risultanze che emergono dalla raccolta sul campo (Dovigo, 2008: 27-28). Partendo dalla critica del concetto di Bisogno Educativo Speciale – con- siderato un’etichetta che, nonostante l’ampiezza dei fenomeni che si pro- pone di designare, finisce comunque per l’essere stigmatizzante e suggerire interventi educativi speciali e non davvero inclusivi – gli autori dell’Index propongono di focalizzare l’attenzione sugli “ostacoli alla partecipazione e all’apprendimento” e, dunque, una trasformazione dei contesti piuttosto che un adattamento dei soggetti ai contesti: scrivono, infatti, che «[i]nclu- sione significa ridurre al minimo tutti gli ostacoli nell’educazione di tutti gli alunni» (Booth & Ainscow, 2008: 111). Fondamentale nel processo di analisi e progettazione, oltre alla siste- maticità che deve caratterizzarlo, è «la partecipazione da parte di tutti i soggetti della comunità scolastica» (Dovigo, 2008: 28) ossia docenti e per- sonale scolastico in generale, alunni, famiglie e chiunque altro possa sup- portare la scuola nella sua trasformazione inclusiva. Potremmo affermare che la potenzialità inclusiva dell’Index nei contesti educativi non risiede solo nelle condizioni descritte, più o meno normati- vamente, dai suoi indicatori, ma in fattori quali: l’orientamento alla ricerca, sostenuto dalle domande poste a cor- redo di ciascun indicatore e che possono essere modificate e/o ar- ricchite in base alla specificità del contesto che si intende analizza- re e che pretendono risposte argomentate e produttive; la dimensione comunitaria dell’indagine che potenzia l’esercizio della riflessività perché lo radica nella concretezza delle esperienze della comunità di riferimento e fa sì che, non riducendosi a for- me solipsistiche con esiti costruttivisti (cfr. Corbi, 2010; Oliverio, 2013b), sia funzionale alla revisione delle pratiche e alla trasfor- mazione dei contesti; 13 0 Civitas educationis – Education, politics and culture la sua stessa struttura che scompone il tutto (il contesto educativo) in parti (dimensioni, sezioni e indicatori) e abitua a ‘discriminare’, ossia a fare la differenza, per ‘includere’. Da questo punto di vista, strumenti come l’Index per l’inclusione po- trebbero potenziare la postura riflessiva dei professionisti della formazione permettendo loro di familiarizzare con l’esperienza del disagio e della per- plessità e di ‘proteggersi’, così, dall’anestesia a cui, la mancanza di apertura alla problematicità del quotidiano, sottopone le loro pratiche educative rendendole incapaci di promuovere un’inclusione come dialogo. Bibliografia Attinà, M., & Martino, P. (2014), “Inclusive Pedagogy, Well-Being, Care and Re- sponsibility for the Humanisation of Mankind”, in Civitas Educationis. 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