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This document contains text about the causes of conflict, focusing on political, cultural, and military aspects. It delves into the complex relationships between European powers, detailing events and factors that contributed to the outbreak of war, and touches on the role of nationalism and military strategies.

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e origini del conflitto possono schematicamente essere ricondotte a tre ordini di cause: cause di natura politica, cause di natura culturale, cause di natura militare: Le cause politiche profonde della guerra vanno cercate nel contesto competitivo e conflittuale delle relazioni tra le principali po...

e origini del conflitto possono schematicamente essere ricondotte a tre ordini di cause: cause di natura politica, cause di natura culturale, cause di natura militare: Le cause politiche profonde della guerra vanno cercate nel contesto competitivo e conflittuale delle relazioni tra le principali potenze europee. Semplificando un quadro estremamente complesso, si può sostenere che la crisi del 1914 sia dipesa dalla rottura dell’equilibrio internazionale raggiunto alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento, dopo che la guerra franco-prussiana (1870-71) e l’ascesa del Secondo Reich tedesco avevano radicalmente mutato i rapporti di forza sul continente. Il Congresso di Berlino del 1878 aveva ratificato un nuovo ordine europeo ma non aveva eliminato le tensioni esistenti. Uno dei primi fattori di instabilità nel sistema internazionale fu la persistenza del conflitto franco- tedesco. La Francia perseguiva con forza una politica revanchista (della rivincita), che la spinse ad accantonare la tradizionale rivalità con il Regno Unito (trattato dell'Enterite cordiale, 1904) e a riavvicinarsi alla Russia zarista, con cui venne siglata nel 1894 un’alleanza antitedesca che nel 1907, integrata da un accordo anglo-russo, diventò la Triplice Intesa. A questo “accerchiamento” la Germania rispose con una politica estera e militare sempre più aggressiva: gli effettivi dell’esercito e della marina vennero aumentati e le dimostrazioni di forza nei confronti della Francia spinsero le relazioni dei due paesi al punto di rottura. Nel 1905 e ancora nel 1911 (crisi di Agadir) il tentativo tedesco di impedire l’estensione del protettorato francese al Marocco giunse a un passo dallo scatenare una guerra aperta. Berlino era tuttavia sempre più isolata diplomaticamente, mentre il riarmo navale lanciato dal kaiser Guglielmo II all’inizio del secolo si rivelò un insuccesso: la Germania non aveva le risorse per dotarsi in tempi rapidi di una marina da guerra in grado di competere con la Royal Navy britannica. Al contrario, la sfida al suo tradizionale dominio dei mari spinse la Gran Bretagna a aderire al blocco antitedesco. Altro elemento di destabilizzazione fu la rivalità russo-austriaca, catalizzatore delle molte tensioni nazionali che agitavano la polveriera balcanica. Ergendosi a tutore dell’aggressivo regno serbo e proponendosi quale paladino di una politica panslava, la Russia minacciava direttamente l’Austria- Ungheria, sia perché indeboliva il suo ruolo come principale potenza regionale dell’area balcanica sia perché, fomentando il nazionalismo slavo, metteva in forse la stessa esistenza del multinazionale Impero asburgico. Di conseguenza, nel 1879, Austria-Ungheria e Germania strinsero un’alleanza difensiva antirussa nota come Duplice Alleanza, a cui avrebbe aderito di lì a poco anche il Regno d’Italia (Triplice Alleanza, 1882). Questo complesso sistema delle alleanze venne alla fine messo in crisi dal crollo dell’Impero ottomano: aggredito dall’Italia (guerra di Libia) e poi sconfitto dalla coalizione di Serbia, Montenegro, Bulgaria e Grecia nel corso della Prima guerra balcanica (1912), il vecchio impero fu ridotto alla Turchia e ai possedimenti mediorientali, mentre gli ex alleati si scontravano tra di loro per la suddivisione dei territori conquistati nella cosiddetta Seconda guerra balcanica (1913). Una situazione di instabilità che esacerbò i timori per l’imminente fine della convivenza pacifica tra le nazioni, in un clima di generalizzata corsa agli armamenti. Tra le cause culturali del conflitto, la più importante si ritrova nella convinzione, comune tra i contemporanei, che la lotta per la sopravvivenza e la supremazia delle potenze fosse inevitabile. Il radicalizzarsi dei nazionalismi e un malinteso darwinismo diffuso, che sosteneva la visione della guerra come banco di prova delle nazioni e occasione per “migliorare i popoli”, alimentarono l’immagine, familiare nella cultura europea all’inizio del XX secolo, di un’imminente grande guerra. Certo, si trattava di sentimenti condivisi da segmenti minoritari delle popolazioni europee, soprattutto politici, intellettuali, artisti e mondo studentesco; d’altra parte, la maggioranza si rassegnava alla guerra come un evento sventurato, oltre che fatale. L’antimilitarismo internazionalista e il pacifismo di matrice cristiana non avevano infatti fatto breccia nelle masse europee. Infine, non vanno trascurate alcune cause tecniche militari, riconducibili all’autonomia concessa agli Stati maggiori (soprattutto in Germania) e alla rigidità dei piani di mobilitazione. La convinzione che la guerra sarebbe stata breve e che fosse necessario attaccare per primi portò entrambi gli schieramenti ad avviare con la massima celerità possibile le disposizioni per la mobilitazione generale. Eserciti di milioni di coscritti vennero richiamati alle armi, equipaggiati e avviati al fronte prima che la diplomazia avesse esaurito le sue opzioni; un atto collettivo di ostilità che pregiudicò l’esito della crisi nelle sue ore cruciali. 2. Il 28 giugno 1914, l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono d’Austria-Ungheria, venne assassinato a Sarajevo da Gavrilo Princip, uno studente bosniaco. Le indagini rivelarono che l’attentato era stato progettato da una società segreta (la Crna Ruka) di cui facevano parte membri delle forze armate e del governo serbo. Il 28 luglio, poco dopo l’invio di un duro ultimatum, l’Austria-Ungheria dichiarò guerra al Regno di Serbia. Il giorno dopo l’Impero russo iniziò la mobilitazione delle proprie forze armate; la Germania intimò alla Russia di sospendere i propri preparativi e il 1° agosto le dichiarò guerra. Prevedendo l’ingresso in guerra dei francesi, e temendo di dover sostenere una guerra su due fronti, lo Stato maggiore tedesco scelse di dare subito corso al piano Schlieffen, una direttiva strategica che prevedeva un rapido attacco a sorpresa in direzione di Parigi, allo scopo di costringere la Francia alla resa per poi rivolgersi contro i russi. Il 2 agosto, i tedeschi occuparono il Lussemburgo e il giorno successivo il kaiser Guglielmo dichiarò guerra alla Francia. Il 4 le armate tedesche invasero anche il Belgio, la cui neutralità era garantita internazionalmente dal Regno Unito. La decisione provocò la reazione dell’opinione pubblica e del governo inglesi, fino ad allora profondamente divisi riguardo alla prospettiva di un conflitto. Il Regno Unito dichiarò guerra alla Germania, mentre centinaia di migliaia di sudditi inglesi si arruolavano volontari. Nell’arco di pochi giorni l’intero continente si mobilitò: il 6 agosto l’Austria-Ungheria aprì le ostilità contro la Russia, lo stesso giorno la Serbia dichiarò guerra alla Germania; il 9 la Francia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria, seguita tre giorni dopo dalla Gran Bretagna. Il 23 agosto, il Giappone dichiarò guerra a Germania e Austria-Ungheria e il 29 ottobre la Turchia prese le armi contro la Triplice Intesa: la guerra europea era diventata mondiale. 3. Il tentativo dello Stato maggiore tedesco di replicare la vittoria del 1870, investendo Parigi da Nord-Ovest e prendendo alle spalle il grosso dell’esercito francese, non riuscì. I francesi e il corpo di spedizione britannico (BEF) furono rapidamente sconfitti nel corso della “battaglia delle frontiere” (14-24 agosto) ma riuscirono a ritirarsi fino al fiume Marna dove respinsero l’offensiva del generale Moltke (prima battaglia della Marna, 5- 12 settembre). Nelle settimane successive il fronte si stabilizzò lungo una linea Nord-Ovest/Sud-Est che correva dal mare del Nord alla frontiera svizzera. Col sopraggiungere dell’autunno, gli eserciti, senza più riserve di uomini e armi, approntarono una serie di fortificazioni campali e di ricoveri in cui vivere e combattere in vista di uno stallo delle operazioni. Nei quattro anni successivi, le trincee sarebbero diventate l’elemento più caratteristico del nuovo modo di condurre la guerra di posizione moderna. Alla fine del 1914 il fronte era costituito da un’unica teoria di quasi 800 km di postazioni contrapposte, difese da filo spinato, parapetti e mitragliatrici e protetto dall’artiglieria. Nelle trincee i soldati combattevano e vivevano, esposti alle intemperie, in pessime condizioni igieniche ed esposti quotidianamente alla morte. La combinazione tra nuove armi e protezione naturale garantiva un’enorme superiorità dei difensori rispetto agli attaccanti, ma questo non avrebbe impedito ai generali europei di tentare ripetutamente lo sfondamento del fronte nemico attraverso imponenti e inutili offensive. Solo sul fronte orientale la guerra non diventò di posizione. Allo scoppio delle ostilità i russi attaccarono la Prussia orientale con una rapidità inaspettata. Dopo un successo iniziale vennero però duramente battuti dai generali Hindenburg e Ludendorff alle battaglie di Tannenberg (26-30 agosto) e dei laghi Masuri (7-13 settembre). In Galizia, al contrario, gli austriaci andarono incontro a disastrose sconfitte. Alla metà di settembre i russi minacciavano ormai il cuore dell’impero e solo una disperata controffensiva riuscì ad allontanare in dicembre il pericolo di un’invasione dell’Ungheria. 4. Tutti gli stati maggiori avevano programmato una guerra breve, al massimo di alcuni mesi, che si sarebbe risolta in poche grandi battaglie campali; i piani si rivelarono però fallimentari. Il primo inverno di guerra sorprese gli eserciti esausti e impreparati: mancavano equipaggiamenti per il freddo, armi, munizioni e gli uffici di reclutamento stentavano a colmare i vuoti aperti dalle enormi perdite delle prime settimane. Il nuovo tipo di guerra impose agli stati coinvolti di adottare misure straordinarie. Per sostenere la vita e l’operatività di milioni di soldati era necessaria la mobilitazione totale di ogni risorsa economica e spirituale del paese: la società europea subì così una progressiva militarizzazione. La mobilitazione economica mise l’industria e il commercio sotto il controllo dei governi e dei comandi militari: il modello, imitato ovunque con poche varianti, fu quello del Kriegsroshtoffabteilung (dipartimento per l’approvvigionamento delle materie prime) ideato e diretto dall’industriale tedesco Walter Rathenau e attivo presso il ministero della Guerra di Berlino già dal 1914 allo scopo di porre sotto il controllo dello stato la produzione, il commercio e l’impiego delle materie prime. In tutta Europa le fabbriche vennero convertite alla produzione di materiale bellico e il mercato venne disciplinato per assicurare il nutrimento delle popolazioni e dei combattenti: venne introdotto il razionamento dei generi alimentari e i prezzi vennero calmierati (socialismo di guerra). Le libertà civili vennero drasticamente limitate, l’iniziativa politica dei parlamenti ridotta al minimo e i comandi supremi videro crescere il proprio potere, fino a diventare (come in Germania) forme di governo parallele e autonome. I sacrifici e il dolore per le continue perdite di vite umane (in Francia morivano mediamente 830 uomini ogni giorno a causa del conflitto) ponevano seriamente in forse la tenuta del consenso da parte delle popolazioni. Per questo in ogni paese si assistette anche a una mobilitazione culturale, in gran parte spontanea. Intellettuali, accademici, giornalisti e artisti dipinsero la guerra come una crociata contro il male e per la sopravvivenza della propria nazione. Gli eserciti si dotarono inoltre di appositi uffici di propaganda che dovevano incentivare lo spirito patriottico e l’odio verso il nemico tra le truppe. 5. Nel 1914 l’Italia non era entrata in guerra, come previsto dalla Triplice Alleanza. Dopo lunghe trattative segrete con tutti e due gli schieramenti, il Regno d’Italia si alleò con la Triplice Intesa (patto di Londra, aprile 1915) e il 24 maggio dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. Una forte pressione in tal senso veniva esercitata dalla possibilità di completare il progetto risorgimentale con l’annessione delle terre irredente (il Trentino, Trieste, l’Istria e la Dalmazia costiera). Ma esistevano anche altre ragioni. L’Italia soffriva di uno status incerto nel consesso delle potenze, aveva collezionato alcuni insuccessi pesanti nel campo della politica estera; vari segmenti dell’opinione pubblica e del mondo parlamentare vedevano di buon occhio una guerra che dimostrasse le reali capacità militari della nazione,assicurando inoltre importanti conquiste territoriali e una vasta area di influenza nel Mediterraneo orientale. Non va dimenticato infine l’opposto desiderio di una guerra che disciplinasse il paese e rendesse più forte il sentimento nazionale o che, viceversa, innescasse una rivoluzione proletaria o anarchica. A favore dell’intervento per uno solo o per tutti questi motivi erano i cosiddetti interventisti: nazionalisti, parlamentari liberali di destra (capeggiati da Salandra e Sonnino), scrittori di estrema destra e artisti delle avanguardie (come i futuristi), ma anche intellettuali e politici della sinistra democratica di ispirazione mazziniana, repubblicani, alcuni socialisti rivoluzionari, gli irredentisti (capeggiati da Cesare Battisti), larga parte del mondo giovanile e studentesco. Per il mantenimento della neutralità (neutralisti) erano i socialisti, gran parte del mondo cattolico e i liberali di sinistra capeggiati da Giovanni Giolitti, all’epoca capo del governo. Benito Mussolini, già direttore del quotidiano socialista “L’Avanti!”, aderì all’interventismo e venne espulso dal Partito socialista; fondò quindi “Il Popolo d’Italia”, uno dei più aggressivi quotidiani interventisti. Da un punto di vista strategico, l’ingresso in guerra italiano fu un insuccesso. Nella primavera 1915 l’esercito russo, indebolito dalle grandi offensive dei mesi precedenti, non rappresentava più un’imminente minaccia, e la resistenza serba era cessata del tutto; lo Stato maggiore austro-ungarico poté così trasferire truppe e materiali sul fronte italiano. L’esercito italiano, inoltre, era ancora impreparato a un conflitto moderno e fu inizialmente molto mal guidato. Luigi Cadorna, comandante dell’esercito, era convinto di ottenere una vittoria rapida e decisiva ma non riuscì a forzare le linee difensive austriache sul Carso, davanti a Trieste, malgrado una serie di offensive frontali molto costose in termini di vite umane (battaglie dell’Isonzo, 1915-17). Sugli altri fronti, il 1915 e il 1916 furono caratterizzati dal tentativo di porre fine alla guerra di posizione. Il 22 aprile i tedeschi, nel corso della battaglia di Ypres, usarono gas tossici a base di cloro. Fu il primo impiego sistematico di armi chimiche della storia; da quel momento i gas venefici divennero un’arma consueta negli arsenali di tutti i contendenti, aumentando il livello della mortalità sui campi di battaglia. In maggio inglesi e francesi contrattaccarono nell’Artois e in settembre nella regione della Champagne. In tutti questi casi, le offensive, condotte con il metodo dell’assalto frontale della fanteria, costarono decine di migliaia di morti senza conseguire risultati. Nel tentativo di sbloccare la situazione, l’Intesa progettò uno sbarco in forze nella penisola dei Dardanelli, con l’obiettivo di marciare su Costantinopoli e costringere la Turchia alla resa, ma l’operazione fu un fallimento e gli alleati furono costretti a reimbarcarsi dopo aver perso oltre 250.000 uomini. Il miraggio della battaglia decisiva fu inseguito ancora nel 1916. A Verdun, una cittadella fortificata nella regione della Mosa, tedeschi e francesi si affrontarono nella più lunga e cruenta battaglia di tutto il conflitto, dal 21 febbraio all’ 11 luglio 1916. I francesi resistettero e infine respinsero l’attacco, anche se a un prezzo enorme (probabilmente 315.000 morti da parte francese, 280.000 da parte tedesca; i feriti e mutilati furono complessivamente altri 800.000). Il 1° luglio gli alleati attaccarono a loro volta nella zona del fiume Somme: dopo cinque mesi di assalti consecutivi, in cui furono impiegati i primi carri armati, gli anglo-francesi avevano perso oltre 620.000 uomini, i tedeschi poco meno di 600.000 e il fronte si era mosso di circa cinque chilometri. Le perdite furono così gravi che, per la prima volta, il Regno Unito dovette ricorrere alla coscrizione obbligatoria. Lontano dal fronte occidentale si assistette a grandi battaglie di movimento, che non assunsero tuttavia il carattere di sfondamento strategico. Nel maggio 1916 il feldmaresciallo austriaco Conrad attaccò in Trentino (Strafexpedition) per prendere alle spalle la massa dell’esercito italiano schierato sull’Isonzo. Dopo un successo iniziale, l’offensiva venne respinta prima di raggiungere la pianura veneta. In giugno, i russi lanciarono una vasta operazione attraverso la Polonia austriaca (offensiva di Brusilov): fu la più grande vittoria russa di tutta la guerra ma dissanguò l’esercito dello zar (con oltre 500.000 soldati morti o dispersi) senza raggiungere alcun obiettivo strategico. 6. Nel corso del 1917 le condizioni morali dei combattenti e delle popolazioni andarono rapidamente peggiorando e il consenso alla guerra si incrinò progressivamente. Nell’aprile 1917 il comandante francese Nivelle lanciò quella che doveva essere l’offensiva definitiva sul fronte occidentale: oltre un milione di uomini attaccò la linea difensiva tedesca col sostegno di 7.000 cannoni, carri armati e aerei, ma senza scalfirla. Esausti e falcidiati, alcuni reggimenti francesi si ribellarono. Il generale Pétain riportò l’ordine sospendendo ogni azione offensiva e migliorando le condizioni dei combattenti. Nel frattempo, la stanchezza dei civili si manifestò in moti popolari (rivolta di Torino, agosto 1917), in diserzioni di massa in Austria-Ungheria e soprattutto nelle rivolte di soldati e operai in Russia che portarono alla cosiddetta Rivoluzione di febbraio. Le enormi perdite di vite umane in tre anni di guerra e le privazioni avevano minato la disciplina dell’esercito russo. Quando la carenza di cibo nelle città spinse la popolazione di Mosca e Pietroburgo a protestare, le truppe inviate a reprimere le manifestazioni si ammutinarono. Il 2 marzo lo zar Nicola abdicò e il potere passò a un governo guidato dal socialdemocratico Aleksandr Kerenskij, deciso a continuare la guerra a fianco dell’Intesa. Il rapido deterioramento della situazione militare, la stanchezza della popolazione e dei soldati e le divisioni tra i generali (tra cui molti ancora fedeli allo zar) compromisero però la possibilità della Russia di proseguire la guerra. Alla fine di ottobre, i bolscevichi guidati da Lenin rovesciarono il governo provvisorio e si impadronirono del potere (Rivoluzione d’ottobre). Poco dopo vennero intavolate trattative di pace con gli imperi centrali che portarono alla pace di Brest-Litovsk (3 marzo 1918). La resa della Russia venne solo parzialmente compensata dall’entrata in guerra degli Stati Uniti (aprile 1917), che ruppero il loro tradizionale isolamento schierandosi a fianco dell’Intesa. Gli Stati Uniti, tuttavia, non avevano un esercito da inviare in Europa e avrebbero impiegato molti mesi prima di reclutarne e addestrarne uno. Germania e Austria-Ungheria poterono così trasferire ingenti forze dal fronte russo agli altri teatri di guerra. Il 25 ottobre 1917 truppe austriache e tedesche insieme lanciarono una massiccia offensiva sull’Isonzo nella zona di Caporetto: logorate da tre anni di assalti inutili e dispendiosi, colte di sorpresa e in inferiorità numerica, le truppe italiane vennero travolte (battaglia di Caporetto). La caotica ritirata che seguì comportò l’abbandono di tutto il Veneto orientale fino al Piave. Dopo alcune settimane di ripetuti attacchi lungo il fiume e sul Monte Grappa, gli austro-tedeschi furono però fermati (novembre-dicembre 1917). 7. L’ultimo anno di guerra fu caratterizzato dal tentativo austro-tedesco di ottenere una vittoria decisiva prima che l’arrivo delle truppe statunitensi facesse pendere la bilancia dell’equilibrio militare a favore dell’Intesa e prima che il blocco navale imposto dagli alleati, che dal 1915 impediva agli imperi centrali ogni commercio con l’estero, peggiorasse ulteriormente le condizioni di vita già difficili delle popolazioni. Dal 21 marzo al 15 luglio i generali Hindenburg e Ludendorff, che avevano assunto il comando delle truppe tedesche (e di fatto il controllo politico-militare della Germania), lanciarono cinque offensive consecutive su tutto il fronte occidentale. I tedeschi arrivarono fino a pochi chilometri da Parigi, ma furono nuovamente fermati. Nelle stesse settimane, le prime divisioni americane entravano in linea, avanguardia di un esercito di oltre un milione di combattenti già presenti in Francia: gli alleati disponevano ora di una schiacciante superiorità di uomini e mezzi. L’8 agosto inglesi, americani e francesi contrattaccarono sul fronte di Amiens con l’appoggio di 500 carri armati, costringendo l’esercito tedesco alla ritirata; il 28 settembre l’estrema linea tedesca (linea Hindenburg) venne definitivamente travolta. Anche sugli altri fronti la guerra giunse a un punto di svolta: il 29 settembre, minacciata dall’invasione di un’armata anglo-francese, la Bulgaria depose le armi, seguita il 30 ottobre dalla Turchia. In giugno gli austro-ungarici tentarono di replicare il successo di Caporetto per costringere l’Italia alla resa, ma furono respinti sul Piave e sul Monte Grappa (battaglia del Solstizio). Il 24 ottobre l’esercito italiano passò all’offensiva: inizialmente l’esercito austro- ungarico resistette ma poi, esausto e minato nel morale, cedette di colpo. In pochi giorni gli italiani raggiunsero Trento e Trieste mentre l’armata imperiale si dissolveva e le truppe seguivano i destini dei paesi di appartenenza. Il 28 ottobre a Praga venne proclamata una repubblica cecoslovacca, il 1° novembre l’Ungheria si proclamò indipendente dal governo di Vienna. Il 4 novembre l’esercito comune austro- ungarico si arrese, ultimo atto di un impero che non esisteva più. In Germania, ormai minacciata da un’invasione alleata, reparti dell’esercito e della marina si ammutinarono, rendendo vana l’intenzione del kaiser di tentare un’ultima resistenza. Il 9 novembre, mentre Berlino era scossa dai tumulti popolari, il nuovo governo guidato dal socialista Friedrich Ebert richiese l’armistizio senza condizioni all’Intesa; il kaiser abdicò e fuggì in Olanda. Alle 11 dell’11 novembre 1918 l’armistizio entrava in vigore su tutti i fronti. 8. Il 18 gennaio 1919 si aprì a Parigi la conferenza di pace (1919-20), durante la quale si sarebbero dovuti discutere i trattati di pace. La conferenza di Parigi avrebbe dovuto anche rispondere all’esigenza, particolarmente avvertita nell’opinione pubblica europea, di un nuovo ordine mondiale ispirato ai principi del wilsonismo. I cosiddetti Quattordici punti del presidente Wilson prevedevano un sistema internazionale basato non più sull’equilibrio delle potenze, ma sull’autodeterminazione dei popoli in base al criterio della nazionalità, sulla tutela delle minoranze e sulla composizione dei conflitti internazionali mediante l’arbitrato di una “lega delle nazioni”. La visione di Wilson si scontrò con la necessità di stabilizzare la situazione geopolitica europea, dove tre imperi si erano dissolti (asburgico, russo e ottomano) lasciando nel caos l’Europa centro-orientale, mentre quello tedesco era caduto lasciando il posto alla cosiddetta Repubblica di Weimar, fragile e attraversata da forti spinte centrifughe. La pace imposta a Parigi risultò un compromesso tra i principi di Wilson e il desiderio delle maggiori potenze (Francia, Gran Bretagna, Usa e Italia) di impedire una nuova minaccia tedesca. Il trattato di Versailles (giugno 1919) tra la Germania e gli alleati stabilì così condizioni molto dure: la Germania perse l’Alsazia-Lorena, che tornava alla Francia; la Prussia occidentale, Danzica, la Posnania e parte della Slesia, che concorsero a formare un nuovo stato polacco; tutte le colonie. Inoltre, lo stato tedesco venne considerato responsabile della guerra (art. 231) e condannato a pagare una fortissima somma in oro a titolo di riparazione alle nazioni invase o danneggiate. Infine, la Repubblica di Weimar non avrebbe potuto più avere un esercito di leva, ma solo un contingente limitato (100.000 uomini a selezione altissima per poi in futuro addestrare un nuovo esercito) per la sicurezza interna, né un’aviazione e una flotta da guerra. Nel settembre successivo venne firmato il trattato di St. Quentin con l’Austria. Gli alleati permisero la nascita di una piccola repubblica austriaca di lingua tedesca ma vietarono per sempre la sua unione alla Germania e ridistribuirono i territori dell’ex impero asburgico seguendo solo parzialmente il principio di nazionalità. L’Italia ottenne il Trentino e il distretto di Bolzano fino al Brennero, Trieste, l’Istria, la Dalmazia costiera. Non ottenne però territori coloniali né la città dalmatica di Fiume, abitata da italiani ma non compresa nell’originale patto di Londra del 1915; la questione fiumana sarebbe divenuta poi causa di forti attriti con gli alleati e il nuovo regno jugoslavo. Con il trattato del Trianon (giugno 1920) vennero stabilite anche le frontiere ungheresi: rispetto all’antico regno che aveva fatto parte dell’Austria-Ungheria il nuovo stato indipendente veniva ridotto di oltre due terzi mentre 2.000.000 di magiari divennero cittadini di altri paesi. In Ungheria rimasero d’altra parte circa 1.500.000 tedeschi e slovacchi, che furono oggetto di persecuzioni etniche. Dai territori dell’ex impero asburgico sorsero nuovi stati, la Polonia e la Cecoslovacchia, mentre Croazia, Slovenia e Bosnia-Erzegovina confluirono nella nuova Jugoslavia. La Transilvania, abitata da ungheresi e tedeschi, venne data alla Romania. In nessun caso si riuscirono a creare degli stati nazionali omogenei e quasi ovunque scoppiarono guerre interne a sfondo etnico. Con il trattato di Neuilly (novembre 1919) anche la Bulgaria subì alcune perdite territoriali minori. La nuova repubblica della Turchia riuscì invece a rivedere le clausole punitive del trattato di Sèvres (1920), che mutilava il suo territorio nazionale a favore della Grecia: grazie a una guerra vittoriosa condotta da Kemal Ataturk venne stipulato un nuovo trattato internazionale (trattato di Losanna, 1923) che garantiva alla Turchia il pieno possesso di tutta l’Anatolia, compresa Smirne, di Adrianopoli e Costantinopoli (Turchia europea). § CAPITOLO 19 (LO SPARTIACQUE DELLA RIVOLUZIONE BOLSCEVICA) Nel 1917 il corso della Prima guerra mondiale fu mutato da eventi che ebbero per protagonisti due paesi di cultura europea ma di dimensione continentale, destinati a subentrare, dopo la Seconda guerra mondiale, all’Europa nell’egemonia mondiale: l’intervento nel conflitto degli Stati Uniti, sollecitato dal nuovo impulso dato dalla Germania alla guerra sottomarina; il succedersi nell’Impero russo di due Rivoluzioni, di febbraio e di ottobre, che provocarono prima l’indebolimento della resistenza antitedesca sul fronte orientale, e poi l’uscita della Russia dal conflitto con l’onerosa pace di Brest-Litovsk. 1. Alla Rivoluzione russa è stata attribuita un’importanza epocale, tale da paragonarla, per dimensioni e durevolezza di impatto, alla Rivoluzione francese del 1789. Anche al 1917, non diversamente dal 1789, si può attribuire la duplice valenza di rivoluzione nazionale, in quanto momento di fondazione di un nuovo stato, con una nuova legittimazione popolare e un nuovo senso di appartenenza collettiva, e di rivoluzione di portata internazionale, nella misura in cui i suoi principi e ordinamenti divengono modelli e punti di riferimento per i rivoluzionari di altri paesi, o sono esportati con gli strumenti della diplomazia, della propaganda, della conquista militare. Nel breve termine la rivoluzione produsse in Russia una drammatica accelerazione del mutamento storico: La disgregazione delle istituzioni e al sovvertimento dei rapporti sociali. La ricostruzione di un nuovo stato e di un nuovo sistema di potere. Una guerra civile brutale e devastante (1918-20), destinata a coinvolgere, in modo diretto o indiretto, la maggioranza della popolazione. Ma l’interpretazione di quegli eventi è stata di volta in volta condizionata dalle circostanze storiche e politiche. Innanzi tutto, bisogna ricordare che furono i protagonisti della rivoluzione a fornirne l’immagine di rottura radicale nella storia dell’umanità. Sul piano della collocazione geopolitica e dei rapporti internazionali, conseguenza immediata della Rivoluzione bolscevica e degli accordi di Brest-Litovsk fu il ridimensionamento consistente del versante occidentale dell’ex Impero zarista, ricondotto nei confini della Moscovia. Ciò comportò la fine temporanea per la Russia del ruolo di grande potenza europea e lo spostamento del suo baricentro verso l’Oriente e l’Asia, tanto più che l’isolamento politico e ideologico del regime fu ratificato dall’adesione delle potenze vincitrici all’idea del “cordone sanitario” attorno all’”infezione rivoluzionaria”, concretizzatasi durante la conferenza di Parigi nel consolidamento dei neocostituiti stati dell’Europa centro-orientale. Nelle regioni dell’Asia centrale la combinazione leninista di socialismo e autodeterminazione nazionale sembrò, almeno inizialmente, inaugurare per quelle popolazioni una stagione inedita di riscatto ed emancipazione. In generale, l’esempio russo divenne punto di riferimento per le lotte di riscatto sociale e di liberazione nazionale dal dominio imperialistico portate avanti nel Terzo Mondo, anche se i tentativi rivoluzionari compiuti dai comunisti in diversi paesi (Cina, Indonesia, Brasile) non ebbero successo. Autodeterminazione dei popoli = Il alla comunità degli stati, principio di autodeterminazione dei popoli sancisce l'obbligo, in capo a consentire che un popolo sottoposto a dominazione straniera o facente parte di uno stato che pratica l’apartheid, possa determinare il proprio destino in uno dei seguenti modi: ottenere l'indipendenza, associarsi o integrarsi a un altro stato già in essere, o, comunque, a poter scegliere autonomamente il proprio regime politico. Nel 1917 il corso della Prima guerra mondiale fu mutato da eventi che ebbero per protagonisti due paesi di cultura europea ma di dimensione continentale, destinati a subentrare, dopo la Seconda guerra mondiale, all’Europa nell’egemonia mondiale: l’intervento nel conflitto degli Stati Uniti, sollecitato dal nuovo impulso dato dalla Germania alla guerra sottomarina; il succedersi nell’Impero russo di due Rivoluzioni, di febbraio e di ottobre, che provocarono prima l’indebolimento della resistenza antitedesca sul fronte orientale, e poi l’uscita della Russia dal conflitto con l’onerosa pace di Brest-Litovsk. 1. Alla Rivoluzione russa è stata attribuita un’importanza epocale, tale da paragonarla, per dimensioni e durevolezza di impatto, alla Rivoluzione francese del 1789. Anche al 1917, non diversamente dal 1789, si può attribuire la duplice valenza di rivoluzione nazionale, in quanto momento di fondazione di un nuovo stato, con una nuova legittimazione popolare e un nuovo senso di appartenenza collettiva, e di rivoluzione di portata internazionale, nella misura in cui i suoi principi e ordinamenti divengono modelli e punti di riferimento per i rivoluzionari di altri paesi, o sono esportati con gli strumenti della diplomazia, della propaganda, della conquista militare. Nel breve termine la rivoluzione produsse in Russia una drammatica accelerazione del mutamento storico: La disgregazione delle istituzioni e al sovvertimento dei rapporti sociali. La ricostruzione di un nuovo stato e di un nuovo sistema di potere. Una guerra civile brutale e devastante (1918-20), destinata a coinvolgere, in modo diretto o indiretto, la maggioranza della popolazione. Ma l’interpretazione di quegli eventi è stata di volta in volta condizionata dalle circostanze storiche e politiche. Innanzi tutto, bisogna ricordare che furono i protagonisti della rivoluzione a fornirne l’immagine di rottura radicale nella storia dell’umanità. Sul piano della collocazione geopolitica e dei rapporti internazionali, conseguenza immediata della Rivoluzione bolscevica e degli accordi di Brest-Litovsk fu il ridimensionamento consistente del versante occidentale dell’ex Impero zarista, ricondotto nei confini della Moscovia. Ciò comportò la fine temporanea per la Russia del ruolo di grande potenza europea e lo spostamento del suo baricentro verso l’Oriente e l’Asia, tanto più che l’isolamento politico e ideologico del regime fu ratificato dall’adesione delle potenze vincitrici all’idea del “cordone sanitario” attorno all’”infezione rivoluzionaria”, concretizzatasi durante la conferenza di Parigi nel consolidamento dei neocostituiti stati dell’Europa centro-orientale. Nelle regioni dell’Asia centrale la combinazione leninista di socialismo e autodeterminazione nazionale sembrò, almeno inizialmente, inaugurare per quelle popolazioni una stagione inedita di riscatto ed emancipazione. In generale, l’esempio russo divenne punto di riferimento per le lotte di riscatto sociale e di liberazione nazionale dal dominio imperialistico portate avanti nel Terzo Mondo. In Europa, l’esempio della Rivoluzione bolscevica, del suo immediato ripudio della guerra unito agli ambiziosi programmi di giustizia sociale, infiammò le masse popolari negli anni 1918-20: divamparono rivoluzioni, poi represse, in Europa centro-orientale, e massicce agitazioni sociali e politiche in Europa occidentale. In questo contesto nacquero i partiti comunisti, destinati a raccogliere il consenso di intellettuali e operai che erano rimasti delusi dalle ambiguità e dai compromessi delle socialdemocrazie nell’epoca della Prima guerra mondiale. 2. Ripercorriamo ora le tappe salienti delle Rivoluzioni di febbraio e di ottobre. 1) Nell’autunno del 1916 erano in molti a considerare la rivoluzione come un’eventualità concreta nell’Impero russo, perché alla delegittimazione dei vertici, provocata dalla gestione disastrosa della guerra e acuita dal discredito gettato sulla famiglia reale e sulla corte dalle voci scandalistiche e dal ruolo di consigliere informalmente ricoperto dal monaco Grigorij Rasputin, si accompagnava il peggioramento della vita quotidiana di milioni di persone, a causa dell’inflazione impetuosa e della penuria di viveri e di combustibile, inasprita dal deterioramento del sistema dei trasporti e particolarmente grave nelle città del Nord. 2) Furono proprio le strade di Pietrogrado a divenire, tra il 23 e il 27 febbraio 1917, il teatro della Rivoluzione di febbraio (le date si riferiscono al calendario giuliano, in vigore all’epoca in Russia, che comportava una sfasatura di 13 giorni rispetto a quello gregoriano, fatta eccezione per le date relative agli eventi del febbraio-marzo 1918, poiché il nuovo governo aveva a quel punto introdotto il calendario gregoriano). Frutto di una mobilitazione di massa spontanea, essa ebbe inizio con le manifestazioni organizzate per la Festa della Donna, presto affiancate dai cortei degli operai, e sfociò poi nello sciopero generale. Fu l’ordine dello zar di impiegare la forza per sedare i disordini a far precipitare la situazione: alcuni reggimenti della guarnigione di Pietrogrado, che erano stati costretti a fare fuoco sui manifestanti, si ammutinarono. 3) Mentre gli insorti assumevano nei fatti il controllo della capitale, e i membri del governo rassegnavano le dimissioni, si formavano i nuclei costitutivi del nuovo potere: il soviet (Consiglio) dei deputati operai (presto affiancati dai soldati), egemonizzato da menscevichi, trudoviki e socialisti rivoluzionari, e il governo provvisorio, composto da deputati della duma appartenenti al blocco progressista (cadetti, ottobristi, progressisti), con l’unica eccezione del socialista (prima trudoviko, poi socialrivoluzionario) Aleksandr Kerenskij, e presieduto da un liberale non iscritto ad alcun partito, il principe Georgij L’vov. Lo zar Nicola II fu costretto ad abdicare a favore del fratello Michele, che rinunciò al trono a sua volta il 3 marzo: era la fine della dinastia dei Romanov e del potere monarchico in Russia. I due organismi, che attingevano a fonti diverse di legittimazione, giunsero a un accordo instabile attorno ad alcuni punti programmatici, quali l’amnistia per tutti i prigionieri politici, la preparazione delle elezioni per l’Assemblea costituente, lo smantellamento degli organi di polizia e la loro sostituzione con le milizie popolari, l’elezione a suffragio universale di nuovi organismi di autogoverno. Dettero vita nei mesi successivi a un dualismo di potere, nel quale il governo provvisorio deteneva formalmente tutte le responsabilità del potere, ma era di fatto costantemente vincolato, e sovente scavalcato, dalle deliberazioni dell’Ispolkom (il Comitato esecutivo del soviet), su questioni cruciali quali l’organizzazione delle forze armate e la conduzione della guerra. 4) Una prima crisi di governo divampò in primavera, appunto sul tema della guerra e della pace, e si risolse con le dimissioni del ministro degli Esteri Pavel Miljukov e del ministro della Guerra Aleksandr Guckov, sostenitori della necessità di continuare la guerra mantenendo fermi gli obiettivi strategici segretamente concordati con gli alleati, e con l’ingresso dei socialisti, menscevichi e socialisti rivoluzionari nel governo. Questi ultimi erano fautori del difensivismo rivoluzionario, che coniugava l’adesione a una campagna internazionale classista contro la guerra imperialista con l’idea dell’unità nazionale attorno all’obiettivo della guerra difensiva: era questa la linea che era stata ufficialmente sposata dal soviet e che riscuoteva il consenso delle consistenti manifestazioni popolari verificatesi in quei giorni nella capitale. 5) Allo scoppio della rivoluzione gran parte dei leader dei partiti rivoluzionari russi erano all’estero, in prigione o in esilio. Vladimir Lenin giunse in treno a Pietrogrado il 3 aprile da Zurigo con l’aiuto del governo tedesco, interessato a favorire il successo della propaganda disfattista in Russia. Le sue posizioni, favorevoli a una rottura netta con il governo provvisorio, all’uscita dalla guerra, alla concentrazione del potere nelle mani dei soviet, al superamento immediato della fase borghese della rivoluzione in vista dell’instaurazione della dittatura del proletariato, furono presentate nelle famose Tesi di aprile, accolte inizialmente con scetticismo dagli altri dirigenti del partito per il loro carattere di rottura con l’ortodossia marxista, esse guadagnarono ai bolscevichi molti consensi presso operai, soldati, marinai delle generazioni più giovani. 6) Dopo il fallimento dell’offensiva estiva, lanciata il 18 giugno lungo il fronte occidentale, i soldati furono spinti definitivamente tra le braccia di coloro che invocavano un’immediata pace separata. Mentre si moltiplicavano diserzioni e fraternizzazioni, il bolscevismo di trincea trionfava, ponendo le premesse della futura svolta politica. Le manifestazioni contro la guerra nella capitale sfociarono in una sollevazione, nella cui organizzazione svolsero un ruolo significativo i bolscevichi, che mirava a eliminare il governo provvisorio per attribuire tutti i poteri al soviet, i cui dirigenti erano del resto assai riluttanti ad assumerli. 7) Fu in questo contesto, reso ancor più incandescente dal precipitare della questione nazionale ucraina (la Rada centrale, il parlamento di quella nazione, aveva proclamato l’indipendenza), che si consumò all’inizio di luglio una nuova crisi di governo, sfociata nelle dimissioni di L’vov, nell’assunzione della leadership da parte di Kerenskij, nel definitivo spostarsi a destra di forze liberali come i cadetti, nella repressione dell’insurrezione e nell’arresto o nella fuga di molti militanti e dirigenti bolscevichi. Nel mese di agosto il tentativo di Kerenskij di accreditarsi come il leader che avrebbe salvato la Russia dall’anarchia rivoluzionaria e dalla sconfitta fallì: le forze moderate venivano ormai individuando nel generale Lavr Kornilov l’uomo forte che avrebbe potuto riportare l’ordine e garantire l’integrità nazionale. Kerenskij, ritenendo che Kornilov fosse intenzionato a scalzarlo per porsi a capo di una dittatura militare, decise di giocare d’anticipo dimettendolo e proclamando sé stesso comandante in capo. Kornilov, infuriato per essere stato accusato di tradimento, e a sua volta convinto che il capo del governo fosse divenuto ostaggio dei bolscevichi, decise a quel punto di far marciare su Pietrogrado le truppe a lui fedeli, bloccate prima di arrivare in città dalla mobilitazione organizzata dai militanti bolscevichi. Il materializzarsi dello spettro della controrivoluzione ebbe due importanti conseguenze politiche: La riabilitazione del partito di Lenin, considerato ora la forza politica che aveva salvato la rivoluzione. L’indebolimento del potere di Kerenskij e dell’intero governo provvisorio, reso inevitabile dalla polarizzazione politica che ne assottigliava i sostenitori, a destra come a sinistra. Tra la fine di agosto e il mese di ottobre i bolscevichi conquistarono la maggioranza nelle elezioni per i parlamenti municipali, nonché negli esecutivi dei soviet locali. Nel soviet di Pietrogrado Lev Trockij divenne il nuovo presidente dell’lspolkom. Nel frattempo, la rivoluzione agraria, divampata nel corso dell’estate, procedeva speditamente: le comunità di villaggio, che dopo il febbraio avevano conosciuto una nuova vitalità, avevano approfittato della debolezza del potere centrale per procedere alla spartizione tra i contadini delle terre dei proprietari. D’altra parte, proprio il crescente afflusso di questi ultimi aveva provocato un’escalation di brutalità e di odio di classe: alle confische si accompagnavano saccheggi, violenze, regolamenti di conti con i proprietari terrieri e le loro famiglie. Alla metà di ottobre Lenin aveva ormai concentrato tutte le proprie energie nella preparazione dell’insurrezione armata, intenzionato a prendere il potere prima dell’apertura del Congresso panrusso dei soviet, prevista per il giorno 25. Il Congresso dei soviet, dopo che i menscevichi e i socialisti rivoluzionari ebbero abbandonato i lavori in segno di protesta, ratificò la presa del potere da parte dei bolscevichi, la Rivoluzione di ottobre, avvenuta formalmente in nome dei soviet. Furono poi approvati i due celebri decreti sulla pace e sulla terra: con il primo si lanciava un appello internazionale per l’immediata sospensione delle attività belliche e per una pace senza annessioni e indennità, che salvaguardasse il diritto di tutte le nazioni all’autodeterminazione; con il secondo, che faceva proprio integralmente il programma di socializzazione della terra elaborato dai socialisti rivoluzionari, si legittimava quanto stava già accadendo nelle campagne. Con un terzo decreto fu istituito il nuovo governo, il Consiglio dei commissari del popolo (Sovnarkom), organismo temporaneo che sarebbe dovuto rimanere in carica fino alla convocazione dell’Assemblea costituente. La sua struttura era analoga a quella del governo provvisorio, fatta eccezione per una significativa novità: l’introduzione di un ministero per le Nazionalità, affidato a Stalin. A capo del Sovnarkom era Lenin, che presiedeva anche il Comitato centrale bolscevico, concentrando così un enorme potere nelle proprie mani. Il 3 novembre Lenin e Stalin promulgarono una Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia, che riconosceva il diritto all’autodeterminazione nazionale e apriva la strada alla secessione delle regioni periferiche che rivendicavano l’indipendenza. 3. Il nuovo governo dovette fronteggiare nelle prime settimane l’ostruzionismo della burocrazia, sconfitto ricorrendo a epurazioni, spostamenti di grado e di funzioni e l’istituzione di un rigido controllo da parte di commissari politici. Nonostante l’isolamento di cui soffriva, il regime riuscì in soli tre mesi a consolidare il proprio potere, grazie al ruolo determinante svolto in tutti i momenti cruciali dalla personalità di Lenin, e anche grazie all’abilità con la quale la macchina statale fu demolita e ricostruita ai suoi diversi livelli. Mentre alla base si assecondò l’esercizio della democrazia diretta a livello locale (soviet, assemblee di villaggio, comitati di fabbrica, comitati dei soldati), così da svuotare le istituzioni esistenti e favorire la frammentazione, ai vertici istituzionali il potere fu concentrato eliminando ogni possibile opposizione politica. Strettissima e costante fu sin dall’inizio l’interazione tra Sovnarkom e Comitato centrale bolscevico, come dimostra la sistematica conversione delle risoluzioni di partito in decreti del governo; a essa si accompagnò il rapido esautoramento del Comitato esecutivo del soviet, in nome del quale pure il Sovnarkom era stato formalmente istituito. Le elezioni a suffragio universale per l’Assemblea costituente ebbero inizio il 12 novembre. La partecipazione fu molto elevata ma non dette il risultato sperato dal nuovo governo: la maggioranza relativa dei voti fu conquistata dai socialisti rivoluzionari (38%), mentre i bolscevichi ottennero il 24%. I menscevichi si attestarono al 3% e i cadetti al 5%. Il Sovnarkom decise di rinviare a tempo indeterminato la seduta inaugurale dell’assemblea (prevista per il 28 novembre) e istituì procedure atte a favorire la revisione dei risultati elettorali sgraditi. Il nuovo potere aveva sin dall’inizio manifestato disprezzo per le regole democratiche e Lenin aveva in più occasioni sostenuto la necessità del terrore di massa per difendere la rivoluzione. Giornali e riviste dell’opposizione furono posti fuorilegge, il sistema giudiziario (corti, tribunali, professioni legali) fu smantellato per instaurare una giustizia fondata sulla coscienza rivoluzionaria, amministrata dalle corti popolari e dai tribunali rivoluzionari per i reati contro lo stato. All’inizio di dicembre fu costituito il famigerato servizio segreto del nuovo regime, la Commissione straordinaria panrussa per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio (Ceka), a capo della quale fu nominato Feliks Dzerzinskij. Un passo decisivo in direzione dello scatenamento del cosiddetto terrore rosso fu compiuto con il decreto “La patria socialista è in pericolo!”, firmato da Lenin il 21 febbraio 1918: il governo legittimava l’esecuzione sul posto, senza processo, di speculatori, criminali e agitatori controrivoluzionari, categoria nella quale potevano rientrare avversari politici e nemici di classe. Gli accordi che sancirono l’uscita dalla guerra della Russia furono siglati il 3 marzo a Brest-Litovsk. Lenin era giunto a minacciare le dimissioni dal Comitato centrale del partito per superare l’opposizione al trattato. La pace, siglata in condizioni difficilissime, mentre i tedeschi conquistavano di giorno in giorno ampie porzioni di territorio, ratificò la perdita di Finlandia, Lettonia, Estonia, Lituania, Polonia, Ucraina (nonché di alcuni territori della Transcaucasia a favore della Turchia), ma consentì di salvare il regime comunista in Russia, come Lenin aveva tempestivamente e lucidamente compreso.

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