Le Sette Regole Dell'Arte Di Ascoltare PDF
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Università degli Studi di Udine
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Summary
Il documento presenta le sette regole dell'arte di ascoltare, soffermandosi su aspetti quali il non affrettarsi alle conclusioni, l'importanza del punto di vista e la comprensione delle emozioni. Successivamente, vengono approfonditi i concetti di coinvolgimento e distacco nell'ambito della comunicazione interculturale, utilizzando esempi concreti, come quello del soggiorno di Edward Hall in Giappone.
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## LE SETTE REGOLE DELL'ARTE DI ASCOLTARE 1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca. 2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista. 3. Se vuoi comprendere q...
## LE SETTE REGOLE DELL'ARTE DI ASCOLTARE 1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca. 2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista. 3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva. 4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico. 5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti, perché incongruenti con le proprie certezze. 6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti. 7. Per divenire esperto nell'arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l'umorismo viene da sé. ## PARTE SECONDA ## IL GIOCO DELLE NARRAZIONI PARALLELE ### 17. EDWARD HALL IN GIAPPONE (COINVOLGIMENTO E DISTACCO AL MICROSCOPIO E AL RALLENTATORE) 1. Durante uno dei suoi primi soggiorni in Giappone l'antropologo fondatore della “prossemica interculturale" Edward Hall si trovò coinvolto in una sequenza di eventi che lo lasciarono completamente confuso e disorientato. Solo dopo un notevole lasso di tempo, parecchi mesi, incominciò a venirne a capo. Ho scelto questo racconto che qui ricostruisco perché in un certo senso è già di per se stesso al rallentatore e al microscopio e si presta bene a illustrare le dinamiche dell'attesa-intesa e del distacco-coinvolgimento nella comprensione interculturale. Lo scopo ultimo però è più generale: mettere in luce un modello paradigmatico che illustra le più generali dinamiche dell'autoconsapevolezza emozionale e dell'apprendimento reciproco in ogni comunicazione che ha i caratteri della complessità. 2. **Riassunto del racconto di E. Hall.** Ero da una decina di giorni a Tokyo, ospite di un hotel frequentato prevalentemente da giapponesi. Un pomeriggio rimettendo piede nella mia stanza avverto che c'è qualcosa di strano, qualcosa che non va. Gli oggetti sul letto, sulla tavola, non erano i miei; erano presumibilmente di un ospite giapponese. Il mio primo pensiero è stato: "Ho sbagliato camera! E se adesso arriva il legittimo proprietario e mi sorprende qui? Come spiego la mia presenza?". Allora non sapevo che poche parole di giapponese. Controllo di nuovo le chiavi: il numero della stanza era quello giusto. Evidentemente l'avevano data a qualcun altro, senza avvisarmi! E tutta la mia biancheria, i miei appunti, i miei bagagli... Dove li avranno portati? Ero in uno stato di confusione, di sgomento e irritazione. Ormai mi ero sistemato in quella stanza, in quella stanza, ci stavo bene. Come gli era saltato in mente... Riprendo l'ascensore e ritorno alla reception. L'impiegato con atteggiamento molto ossequioso (e imbarazzato?) mi informa che sì, in effetti mi avevano assegnato una nuova stanza perché la mia era stata riservata in precedenza da un altro cliente. Non dico nulla, ma penso: "Lo sapevano che mi sarei fermato per circa un mese! Perché trattarmi come una specie di tappabuchi?". Mi vengono consegnate le chiavi della nuova stanza. Entro e trovo che tutti i miei effetti personali erano già distribuiti ordinatamente nei cassetti e sugli scaffali quasi come se li avessi messi io stesso. Ho avuto uno smarrimento, una sensazione di crisi di identità. Come era possibile che qualcun altro avesse disposto tutti quegli oggetti piccoli e grandi esattamente secondo le mie abitudini? Tre giorni più tardi di nuovo mi cambiarono stanza e poi ancora. Già la seconda volta lo shock era sparito, sapevo di cosa si trattava, anche se quel comportamento mi risultava incomprensibile. Avevo deciso di reagire almeno esteriormente come se si trattasse di una prassi normale. Anzi, ogni volta che ritornavo in albergo per prima cosa mi informavo se ero ancora nella stessa stanza. In precedenza avevo soggiornato al Frank Lloyd Wright Imperial Hotel per parecchie settimane e niente del genere era accaduto né a me né ad altri. Come mai? Cos'era? Ero vittima di una forma di discriminazione verso gli stranieri? Non volevo arrivare a conclusioni affrettate, che tuttavia sarebbero state più che legittime nel mio Paese di origine. Come se non bastasse, qualche mese più tardi ero a Kyoto con alcuni amici e alloggiavamo in una deliziosa piccola locanda su una collina con vista sull'intera città. Una sera rientrando vediamo il direttore venirci incontro con grande sollecitudine e con aria molto imbarazzata. Capisco al volo. "Dovete cambiarci stanza. Benissimo, non preoccupatevi, comprendiamo perfettamente. Mostrateci le nuove stanze, per noi va benissimo." Ma in quel caso l'interprete ci spiegò che non dovevamo cambiare solo stanza, ma anche albergo. La mia disinvoltura cominciava a tentennare. Un trambusto del genere senza nemmeno avvertirci? Il piccolo taxi nel quale ci avevano stipati si avvia verso il centro e si inoltra in stradine sempre più piccole e affollate, con sempre meno europei in giro. Ci deposita in un alberghetto di classe chiaramente inferiore a quello di provenienza, nel quale eravamo gli unici ospiti occidentali. A questo punto stavo diventando davvero un po' paranoico, sapevo che è un sentimento al quale è facile aggrapparsi in terre straniere, ma lo stavo diventando ugualmente. "Devono pensare che siamo proprio dei poveracci, di uno status sociale infimo, per permettersi di trattarci in questo modo!" Il giorno dopo scoptimmo che il nuovo quartiere era molto più autentico e interessante di quelli visitati in precedenza, lo percorremmo a fondo e a parte alcune difficoltà legate alla lingua, riuscimmo a cavarcela egregiamente e con grande soddisfazione. Tuttavia questa faccenda di essere presi e spostati come una valigia continuava ad assillarmi. Pur essendo un osservatore di modelli culturali, non avevo la più pallida idea su come intepretare questi comportamenti. La risposta finalmente la trovai grazie ad amici giapponesi i quali erano stupiti anch'essi del trattamento riservatomi, ma per la ragione opposta alla mia. In realtà mi era stato fatto un grande onore in quanto "ero stato trattato come un membro della famiglia". Quando uno viene visto come parte della famiglia, con lui ci si può permettere di essere "informali, rilassati e privi di cerimoniosità". In Giappone una persona o “appartiene” o non ha alcuna vera identità. Questo vale sia per l'azienda in cui lavora sia per l'hotel in cui soggiorna. L'ospite di un hotel- mi spiegarono gli amici giapponesi - dal momento della registrazione diviene "membro di un'ampia famiglia mobile" il che per esempio dà il diritto-dovere di salutare gli altri ospiti dell'albergo con un certo calore anche se si incontrano per strada (in effetti era successo e mi ero chiesto se per caso sapessero chi ero...), inoltre l'appartenenza comporta dei diritti di anzianità per cui ogni volta che ritorni hai maggior diritto a prenotare anche con mesi di anticipo la stessa stanza che occupavi in precedenza. Questo fa sì che i nuovi ospiti siano effettivamente dei "tappabuchi", ma è il far parte della stessa famiglia che conta, non in quale camera dormi o quanto è grande. Naturalmente gli hotel più turistici adottano un diverso comportamento perché hanno constatato che gli americani diventano ansiosi, si irritano, "non hanno alcun desiderio di far parte della famiglia”.