Diventando Insegnanti: Una Teoria Pedagogica dell’Insegnamento PDF

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This document explores the multifaceted aspects of becoming a teacher, discussing the historical and contemporary challenges and opportunities. It examines the role of implicit theories in teaching and the influence of historical and cultural representations on the profession. A core argument emphasizes the distinction, although partial overlap, between education and lifelong learning. This text aims to provide a foundation for understanding the theoretical aspects of teaching.

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DIVENTARE INSEGNANTI – VERSO UNA TEORIA PEDAGOGICA DELL’INSEGNAMENTO PRIMA PARTE: UN’ESPERIENZA ANTICA E UNA PROBLEMATICA ATTUALE Capitolo 1 – Diventare insegnanti fra mitologia e pregiudizio 1. Una premessa inattuale Nelle società umane vi è una continua ridefinizione del progetto educativo, s...

DIVENTARE INSEGNANTI – VERSO UNA TEORIA PEDAGOGICA DELL’INSEGNAMENTO PRIMA PARTE: UN’ESPERIENZA ANTICA E UNA PROBLEMATICA ATTUALE Capitolo 1 – Diventare insegnanti fra mitologia e pregiudizio 1. Una premessa inattuale Nelle società umane vi è una continua ridefinizione del progetto educativo, soprattutto in termini ideali nell’ottica dei “valori”, che talvolta sono “ideologici” o “pregiudiziali”. In un secondo momento la riprogettazione viene costruita in modo funzionale alla propria società dal punto di vista storico, culturale ed economico: si progettano la formazione e il reclutamento degli insegnanti in base ai bisogni prioritari. Il tema del reclutamento, del ruolo e della formazione degli insegnanti porta in sé ambivalenze importanti, poiché si mischiano ideali e mitologie sociali con pregiudizi. La scuola sembra abbia il potere di salvare le società, ma allo stesso tempo si svaluta il lavoro degli insegnanti, che hanno bassi salari e un ruolo ormai burocratico. Esiste un processo di formazione specifica affidabile e storicamente osservabile per diventare insegnanti? Ci sono delle attitudini personali e caratteristiche psicologiche influenti? 2. Il ruolo della teoria implicita nella professionalità di insegnanti In ogni professione esige una teoria, ma nel caso dell’insegnamento non è concettualmente e organicamente compiuta →teorie implicite di Bruner, nelle quali rientrano mente e cultura, ma anche rappresentazioni relative alla società e alla scuola, all’infanzia e all’adolescenza, alla natura e al ruolo dell’insegnamento. Teoria implicita = rappresentazione della mente dell’allievo e dell’azione dell’insegnante, inclusa dentro il “sapere implicito”, cioè il “saper fare” (non sempre però rappresentazione e saper fare sono coerenti fra loro). Nel sapere implicito confluiscono teorie e idee apprese mediante studi, ma non sempre va a costituire la teoria implicita dell’insegnante. Nel corso del tempo le rappresentazioni e le aspettative degli insegnanti si sono modificate. Risulta dunque difficile credere che si possa acquisire una conoscenza teorica da “riversare” meccanicamente nella prassi didattica, anche se tale idea è ancora molto diffusa tra gli insegnanti. Come la teoria implicita dell’insegnamento si costruisce nella mente e si integra con l’esperienza diretta? → Dall’esperienza concreta dell’insegnamento (anche lezioni private/ripetizioni) → Dalla formazione sul campo e dall’avvio di un processo formativo personale → Dal legame tra una fondata teoria ad una pratica autoriflessiva 3. Archetipi e mitologie nella rappresentazione dell’insegnante Le rappresentazioni agiscono su aspettative, orientamenti e motivazioni e sulla riorganizzazione progressiva dell’immagine di sé in rapporto al ruolo professionale. → Maestro nell’Occidente ha una polarità interna: da un lato il Maestro incarna la pienezza di una funzione sapienziale e rivelatrice, depositaria di conoscenza e promotrice di verità, d’altro lato è un maestro umile e “travestito”, che accompagna l’infanzia. Si incontra spesso nella religione, nelle fiabe popolari, nella Divina Commedia di Dante (vedi Virgilio). Le sue peculiarità sono: alto livello intellettuale, profonda conoscenza filosofica-teologica-scientifica- letteraria, sensibilità morale e totale disinteresse. 1 C’è un’asimmetria strutturale nella relazione maestro-discepolo: il maestro deve imparare a divenire superfluo e il discepolo lo deve superare, anche se inizialmente non può farne a meno. → Nutrice A diretto contatto con il corpo infantile, era sottovalutata dal punto di vista sociale nella Grecia e Roma antiche, poiché non erano richieste abilità e competenze di alto livello. Nonostante ciò, è un lavoro irrinunciabile di cura e conoscenza dei segreti di ciascuno (vedi incontro tra Ulisse e la sua nutrice nell’Odissea). La funzione sapienziale del maestro non può essere separata dalla sua funzione materiale di servizio alla persona, dalla condivisione di un percorso materiale di esistenza con l’allievo. 4. Figure storiche custodi dell’utopia e educatori del popolo Rappresentazioni di origine storica e culturale non remota: → Universalismo della ragione a partire dall’Illuminismo: diffusa convinzione che la diffusione del sapere e l’estensione generale dell’educazione bastino a liberare l’uomo e ad eliminare i mali della società → Saldatura tra pensiero illuminista e positivista: ogni insegnante è visto come custode privilegiato della tradizione culturale e scientifica oggettivamente valida → Dagli anni ’70 si critica l’insegnante come custode di una tradizione e lo si indica come vestale della classe media, poiché si sopravvaluta il contenuto disciplinare. Invece, l’insegnante è “liberante” di energie e creatività per i suoi allievi, educa al cambiamento e si trasforma con loro. L’insegnante diventa custode dell’utopia. Da qui deriva la rivendicazione della libertà d’insegnamento → Dall’età romantica alla metà del Novecento, insegnanti elementari come educatori del popolo, che promuovono opportunità per gli allievi (Pestalozzi e Lombardo Radice). → Dalla seconda metà del Novecento l’insegnante è promotore di opportunità piuttosto che trasmettitore di contenuti disciplinari. Nella teoria implicita entrano: a. Rappresentazioni e orientamenti mitici b. Teorie e modelli scientifici e/o politici c. Esperienza diretta e indiretta 5. Le prospettive per la formazione Alcune leggi… →Legge su autonomia scolastica (DPR. 275/1999): riconosce alle istituzioni scolastiche la responsabilità di istruire educare e formare →Riforma Moratti (L.53/2003): forte sensibilità per l’istanza educativa, per promuovere l’apprendimento per tutto l’arco della vita e fornire pari opportunità a tutti È importante riconoscere una duplice responsabilità educativa: una interna all’azione di insegnamento (si educa insegnando) ed una parallela e contemporanea (si educa in aggiunta all’insegnamento). Il neo-docente deve riconoscersi in un modello concreto. L’insegnante ha bisogno di una teoria pedagogica dell’insegnamento e della scuola che definisca il suo profilo professionale specifico. 2 Capitolo 2 – Per una teoria pedagogica dell’insegnamento: premesse 1. Riportare l’attenzione sull’insegnamento Insegnamento, apprendimento o formazione? L’apprendimento è un processo proprio della persona che apprende e di nessun altro (non ha senso parlare di auto- apprendimento). In ogni caso, apprendimento e insegnamento non sono identificabili! Oggigiorno sembra che si voglia cancellare l’insegnamento e si ponga maggiore attenzione a favore dell’apprendimento inteso come centralità dell’allievo. ➔ Tutto ciò deriva dalla concezione antropologica e naturalistica e spontaneistica che distingue la pedagogia del Novecento, a partire da Dewey, che afferma “non si può parlare di insegnamento dove nessuno abbia appreso qualcosa”, arrivando quasi a identificare insegnamento e apprendimento. ➔ Rogers afferma “l’insegnamento è un’attività relativamente inutile e ampiamente sopravvalutata”, poiché segue una metodologia non-direttiva, in cui la persona è libera e democratica. 2. Insegnamento e apprendimento Insegnamento non è risolvibile nell’apprendimento: apprendimento costituisce un campo d’esperienza molto più ampio, con molti stili, forme e livelli di complessità! Si può apprendere “per scoperta”, per immagini, con fatica o senza, dal movimento o dalle parole, può essere involontario. Tutti gli uomini apprendono per tutto l’arco della vita e condividono l’apprendimento con tutti i viventi. Insegnare comprende una particolare e specifica categoria di azioni umane, che secondo Bruner ha permesso l’evoluzione dell’homo sapiens. L’insegnamento è oggetto privilegiato della ricerca pedagogica, ha principi di metodo, strategie e un codice deontologico. La natura culturale della specie umana presuppone la presenza di attività di insegnamento all’interno delle relazioni. 3. Educazione e formazione: definizione provvisoria Sono due processi diversi, sebbene parzialmente sovrapponibili, che si distinguono in base al periodo di vita in cui si collocano: → Educazione: in riferimento ad un soggetto in età evolutiva (fino ai 20 anni). Processo di interazione protratta per tutto il tempo dell’età evolutiva fra un soggetto giovane e immaturo ed un certo numero di adulti significativi per lui, che si affiancano, si alternano, si succedono e confliggono nella relazione con lui. L’educatore è un soggetto collettivo ma non impersonale. Il processo educativo si compie per definizione dentro un orizzonte culturale ed ha come fine la promozione di un sufficiente grado di autonomia personale nelle forme previste dalla società e dalla cultura di riferimento. L’educazione non si identifica con socializzazione o acculturazione. Si usa il termine processo educativo per sottolinearne la natura dinamica e progressiva, di lunga durata: il giovane attraversa molti stadi fino a diventare adulto, è soggetto in crescita, non è mai totalmente passivo e subalterno, ma neanche totalmente attivo e responsabile del processo. Si viene educati sono nella misura in cui ci si educa. Fondamentale qui è l’autonomia, non intesa come maturità, ma come condizione esistenziale di un soggetto diventato capace di fissare a se stesso le norme del proprio agire e anche di sostenere conflitti interpersonali. → Formazione: processo più ampio che include l’educazione già avvenuta e si innesta su essa. Processo attraverso il quale ogni adulto, nell’arco della vita e delle diverse stagioni di essa, esercita la propria conquistata autonomia per 3 continuare a “prendere forma” alla propria umanità individuale in una direzione da lui giudicata desiderabile rispetto ad un proprio sistema di motivazioni e valori rispetto all’orizzonte socio-culturale in cui egli vive. La formazione è un percorso che suppone l’autonomia personale mentre l’educazione la persegue. 4. La “trasformazione” e la categoria di “auto-realizzazione” come implicito È bene distinguere la formazione in senso proprio dalla “trasformazione” in ciò che si è, cioè dall’autorealizzazione. Una trasformazione non comporta necessariamente intenzionalità. Invece formazione nella vita adulta coincide con una progettazione esistenziale consapevole e intenzionale. Nella formazione vi sono interventi rivolti a adulti a cui si richiede una trasformazione mirata di parti importanti del Sé. Serve quindi una teoria che integri coerentemente una descrizione interpretativa dell’educazione/formazione a una possibilità di progettazione pratica. Al momento non esiste! Sarebbe però necessaria per individuare criteri metodologici adeguati. 5. La tradizione pedagogica e il mito dell’educazione permanente Nell’educazione si è sempre individuata una polarità dialettica tra le forze esterne al soggetto (società, cultura, generazione adulta, condizioni storiche) e una di forze interne (natura, temperamento, destino, vocazione). →Nelle varie epoche si è dato il primato all’uno o all’altro. Tutto ciò vale anche per il concetto di formazione, per secoli pienamente assimilata all’educazione. Educazione permanente=non si smette mai di educarsi per tutta la vita. Ma se così fosse la specificità dell’educazione verrebbe negata. Nella società delle informazioni, l’insegnamento è stato confuso con l’apprendimento e assimilato alla comunicazione. Invece occorre ripartire dalla specifica natura dell’insegnamento intenzionale. 6. Insegnamento: Definizione provvisoria Insegnamento intenzionale= qualsiasi atto umano che intervenga per modificare l’esperienza di un altro essere umani, sia anticipandola, sia controllandola, sia mediandola, sia rendendola consapevole. C’è sempre un’implicita funzione promozionale dell’esperienza cognitiva ed emozionale del discente. Per questo però l’insegnamento è caratterizzato da un costante tentativo di controllare l’esperienza e da un’impossibilità di garantirne l’effettivo controllo. L’insegnante è di più del comunicare, riproduce, re-interpreta, ricostruisce e ri-genera la conoscenza in chi riceve l’insegnamento. SECONDA PARTE: DENTRO L’INSEGNAMENTO Capitolo 3 – Il “segreto dell’evoluzione umana” 1. L’insegnamento intenzionale nell’esperienza umana: alcuni esempi Esempio n.1: allievo è apprendista e istruttore è capo officina. Questo chiede all’allievo di voltarsi ed egli fa cadere sul banco vari oggetti, prima con rumori semplici e netti, poi via via più complessi, al fine di allenare l’udito dell’allievo; dopo vari mesi sa individuare cos’ha un motore non funzionante. Esempio n.2: giovane madre cerca di spiegare alla figlia di 2 anni che non deve toccare le cose calde (forno, ferro…) perché “bruciano”, finché la bimba lo fa lo stesso e si scotta. Capisce da se stessa che non toccherà più quelle cose. ➔ Sia l’istruttore che la mamma agiscono in modo intenzionale, anticipano l’esperienza che l’immaturo deve compiere ➔ Ogni atto didattico efficace è tale proprio per la possibilità che esso introduce di andare oltre il singolo specifico obiettivo perseguito. Esso stimola una competenza specifica che assume progressivamente un potere auto- espansivo. 4 ➔ Sarebbe il caso di proporre delle esperienze reali “simulate”, ma quando ciò non è possibile perché non sono del tutto prive di rischi possono essere anticipate in modo “addomesticato” sotto il controllo di educatori adulti. L’insegnamento intenzionale non può essere contrapposto all’esperienza diretta del soggetto che cresce, la anticipa, la canalizza e richiama l’attenzione selettiva dell’allievo su alcuni aspetti, grazie ad attività di analisi e sintesi ➔ L’insegnamento suppone nell’adulto una rete di memorie e di aspettative fra loro interconnesse. ➔ L’insegnamento suppone un’intelligenza, cioè un certo grado di consapevolezza della condizione infantile e delle sue esigenze in quella situazione e un controllo razionale di essa. ➔ L’insegnamento intenzionale trasforma la curiosità spontanea e generica in una motivazione orientata verso la realtà naturale. ➔ La scelta di contenuti e strategie dipende da valutazioni e decisioni preventive→ sono impossibili “ricette” metodologiche! 2. Trovare le parole per dirlo: la radice comunicativa dell’insegnamento Dewey sottolinea che “ricevere una comunicazione significa avere un'esperienza allargata e diversa. Si partecipa di quel che un altro ha pensato e sentito e se ne ha il proprio atteggiamento modificato, in modo più o meno profondo. E nemmeno colui che comunica rimane inalterato… L'esperienza deve essere formulata per essere comunicata. Per formularla è necessario portarsi all'esterno di essa.” L'insegnamento è un'attività specificamente umana ed ha a che fare con il linguaggio al pensiero. L'insegnamento costituisce una forma di comunicazione ma non necessariamente ogni comunicazione e insegnamento. Il linguaggio verbale non è l'unico medium. L'apprendimento avviene nella mente dell'allievo quando comprende e riconosce come è vera la conoscenza offerta dal maestro: l'apprendimento è un percorso assolutamente personale, anche se si apprende attraverso i pensieri del maestro. Il vincolo tra pensiero, linguaggio e insegnamento è nelle operazioni mentali di colui che insegna: l'insegnante vuole comunicare qualcosa e deve “trovare le parole per dirlo”. Nella mente del docente diventa secondaria la dimensione del pensiero che si traduce in parole perché viene rispettato il vincolo fra pensiero e linguaggio nella parola interna del docente →il dialogo interno è la condizione perché egli possa smontare e rimontare i percorsi cognitivi da proporre. Bruner distingue il pensiero paradigmatico e il pensiero narrativo, che si sviluppano parallelamente, anche se il pensiero narrativo è più arcaico. Cosa accade nella comunicazione del narratore interpellato da uno ascoltatore? Egli deve far presenti le cose non viste attraverso le parole, comunicare emozioni profonde e “trovare le parole per dirlo”: è un'attività complessa che comporta il distanziamento dalla propria esperienza, la sua oggettivazione e conseguente modificazione. Il pensiero narrativo e paradigmatico sono entrambi essenziali nelle attività di insegnamento, poiché si alternano e vi è un continuo passaggio dall'una all'altra modalità. Molto spesso la dimensione narrativa e la mediazione del linguaggio rendono possibile un'esperienza anticipata dell'intelligenza infantile nella realtà. Nella nostra società la pura partecipazione sociale del bambino non sarebbe sufficiente alla sua sopravvivenza se non venisse integrata continuamente da insegnamento e addestramento intenzionale. In realtà, è importante che non vi siano solo esperienze dirette e concrete perché potrebbero dare informazioni imprecise o errate: è importante comunicare→l'efficacia comunicativa dipende dalla padronanza effettiva che l'insegnante ha dell'argomento, ma anche dai suoi presupposti e dalla sua esperienza didattica. 5 Riconoscere che l'insegnare modifica l'esperienza di colui che insegna, come di colui che apprende, anticipa la scoperta del valore decisivo dei processi di insegnamento e apprendimento nella trasformazione della cultura umana. L’insegnamento intenzionale non è solo la condizione della riproduzione culturale di ogni società, ma anche e soprattutto la condizione della trasformazione progressiva della cultura stessa. La specificità della comunicazione didattica genera l'insegnamento-apprendimento intenzionale e risiede nel suo scopo educativo, nel rapporto che lega l'insegnante per un verso al bisogno del suo allievo, per un altro verso all'oggetto degno di essere insegnato. La finalizzazione dell'insegnamento intenzionale e la volontà di determinare un esito è un termine del processo educativo: l'educatore lavora per rendersi superfluo. 3. L'insegnamento come mediazione Ogni atto di insegnamento è sempre intenzionale, volontario e consapevole, mentre la relazione educativa può presentare un grado di intenzionalità e consapevolezza variabile e perfino inesistente. L'insegnamento costituisce una forma di comunicazione diretta e suppone una competenza ed efficacia comunicativa insegna. La comunicazione didattica non è soltanto verbale, ma la dimensione verbale è comunque irrinunciabile e privilegiata. L'insegnante anticipa l'esperienza diretta, la canalizza e la potenzia con la propria mediazione e modificherà la qualità dell'esperienza futura degli allievi. L'uso della parola di supporto ha una funzione essenziale: la dinamica della comunicazione didattica comporta la trasformazione della qualità dell'esperienza riflessa in entrambi i protagonisti e implica la possibilità di analizzare e scomporre l'abilità o la conoscenza desiderata in elementi semplici, ma anche di dilatare potenzialmente una singola abilità o competenza acquisita. È importante ricordare nel processo di insegnamento che l'attivazione cognitiva non è solo dell'insegnante ma anche dell'allievo in un crescente grado di intenzionalità. L'azione didattica muove da due presupposti impliciti: → esistenza di una serie di possibili oggetti didattici, cioè dati, conoscenze, interpretazioni esplicative, competenze e abilità possedute dalla collettività umana, degni di essere insegnati e che costituiscono l'implicita “teoria della cultura” di Bruner → esistenza di un potenziale allievo bisognoso di insegnamento e capace di avvantaggiarsene. Insegnare comporta una selezione e reinterpretazione di contenuti informativi, coincide con una continua attività della struttura cognitiva dell'insegnante. Anche l'allievo, se partecipa effettivamente al processo didattico, è un partner attivo e intenzionale della mediazione e non è un semplice “contenitore”. Capitolo 4 – L’arte dell’insegnamento 1. La mediazione didattica nella comunicazione frontale La lezione frontale è la più comune attività d’aula e mediazione didattica. La qualità delle lezioni frontali è estremamente variabile e, questo, conduce ad un paradosso della professione docente → l’insegnamento può essere assolto da due persone in maniera apparentemente identica e sostanzialmente molto diversa. Di norma la lezione frontale viene alternata ad altre attività e, al fine di mantenere l’attenzione si tende a modulare il linguaggio e il tono comunicativo. Ne consegue che l’efficacia didattica dipende dalla qualità della competenza comunicativa di ciascun docente. 6 La lezione frontale costituisce una “mappa” per orientarsi nell’esplorazione di informazioni non possedute; tali “mappe” sono in grado di “mediare” ma anche di “anticipare” l’esperienza cognitiva futura del discente. Talvolta, però, l’alunno può mettere in atto una “chiusura della mente” nei confronti della lezione frontale, in quanto può considerare il contenuto presentato come “noioso” oppure di “difficile comprensione”. In questi casi non si realizza alcuna mediazione. Tale funzione di mediazione si osserva quando la lezione frontale è coinvolgente e presenta contenuti in modo competente e motivante da parte dell’insegnante. La disponibilità all’ascolto è la condizione essenziale perché il discente attivi processi cognitivi di tipo ricettivo. La lezione frontale e la comunicazione espositiva costituiscono modalità deduttive (dal generale al particolare), che si contrappongono a modalità induttive (dal particolare al generale), es. attività laboratoriali. 2. La competenza comunicativa come competenza complessa Competenza comunicativa → capacità di identificare e di mette in atto, in ogni momento, le modalità comunicative più adatte alla propria intenzione, al contesto, allo scopo e ai destinatari. È una competenza complessa, ampia e trasversa che caratterizza un insegnante efficace. Molti ritengono che sia un “istinto”, frutto di un certo “corredo genetico”, tuttavia, per quanto ci possa essere un’attitudine, è una competenza (conoscenze + abilità) che possono essere sviluppate e ampliate. Tale competenza non si lega solo alla dimensione cognitiva, ma anche a quella emotiva, in quanto ad essa si associa una certa intenzionalità che passa non solo attraverso la voce, ma anche attraverso i gesti, la postura, lo sguardo. Fondamentale per un insegnante efficace è saper sostenere il possibile fallimento della propria comunicazione. 3. Una componente emotiva: reggere il rischio del fallimento della comunicazione La capacità di reggere il fallimento comunicativo è connessa alla volontà di comunicare: implicitamente, gli insegnanti efficaci non dubitano della propria possibilità di comunicare, ma assumono la possibilità del fallimento comunicativo come una costante dell’esperienza, la tengono presente come una eventualità, e riprovano a comunicare ogni volta che hanno la certezza, o anche solo il dubbio, che la comunicazione sia fallita. L’insegnante efficace mostra di attendersi la possibilità di fallimento anche con gesti non verbali e interlocuzione quali “avete capito?”, “è tutto chiaro?”, “possiamo andare avanti?”. 4. Componenti emotive del “tenere la scena” La competenza comunicativa del docente potrebbe essere definita come una abilità drammatica, una capacità di “rappresentare” e “mettere in scena”, molto legata alla dimensione narrativa del pensiero. Questa dimensione serve, ad esempio, per cogliere l’attenzione di chi ascolta. Per quanto l’insegnante debba allenarsi a tenere la scena e ad essere esposto ad un pubblico, a differenza dell’attore, egli comunica sempre un “oggetto definito” a un “destinatario designato”. Nella comunicazione didattica, allora, la drammatizzazione è un mezzo e non un fine. Gli insegnanti/attori stimolano le strutture cognitive e motivazionali di chi li ascolta, anche se non sempre è così. 5. Pensare oggetti e trovare parole La competenza comunicativa di un docente efficace può essere riconosciuta come espressione di un “pensiero che pensa l’oggetto definito e il destinatario designato” quasi contemporaneamente. Il primo elemento di questa competenza comunicativa rimane la padronanza dell’oggetto didattico. Da questa deriva, poi, la flessibilità verbale e, soprattutto, la capacità di tradurre i concetti in figure, in esempi, in schemi, disegni, sequenze drammatiche e mimiche. 6. La mediazione didattica fra intelligenza ed emozione nell’ascolto attivo 7 L’ascolto è tanto importante quanto l’espressione verbale e, rappresenta la dimensione essenziale senza la quale all’insegnante non servirebbe saper porre domande precise. In particolar modo, l’ascolto attivo è una strategia comunicativa, generalmente sottovalutata perché identificata con una pura dimensione affettiva ed etica. L’ascolto attivo porta con sé una funzione mediatrice e didattica e, costituisce la pre-condizione interattiva delle abilità diagnostiche e prognostiche dell’insegnante (quelle che permettono la valutazione formativa). L’ascolto suppone la concentrazione di un’attenzione intelligente verso la verbalizzazione e l’espressione dell’altro, la creazione di uno spazio di “silenzio interno” in cui collocare ciò che viene ascoltato. Rogers è stato il primo, negli anni Sessanta, ad evidenziare la potente efficacia dell’ascolto “empatico” nella relazione di aiuto. Dopo un primo momento di ascolto, il secondo momento dell’ascolto attivo, è la riverbalizzazione, cioè a la riformulazione in altre parole del contenuto di una comunicazione verbale ascoltata, chiedendo conferma della nostra interpretazione. In termini emozionali, l’alunno che si sente ascoltato e compreso, si sente anche “contenuto” e “riconosciuto nel suo valore” dal docente. Nel gruppo classe, la prassi dell’ascolto e della riverbalizzazione da parte del docente comporta l’offerta di un modello comunicativo “esemplare”. 7. L’insegnante come “contenitore” L’ascolto contiene una dimensione di “contenitore”, messa in atto inconsciamente da molti insegnanti. L’idea del “contenitore” appartiene agli studi di Winnicott e, fa riferimento all’esperienza infantile precoce di essere “lacerati”, “mandati in pezzi” dalle proprie pulsioni e dalle emozioni negative (paura, collera, risentimento) e di non essere capaci di “contenere” queste energie primitive e irrazionali quando si scatenano dentro di noi. Comprendere che l'ascolto attivo ha una potente funzione di contenimento permette di capire che cosa rende “diversi” certi insegnanti, a parità di efficacia comunicativa con altri colleghi. Si può osservare che alcune condotte, alcune espressioni e dinamiche fra gli allievi, in presenza di alcuni insegnanti non accadono, mentre con altri si; questo avviene semplicemente perché gli allievi si contengono da soli in presenza di alcuni inseganti. La funzione di contenimento non è sufficientemente teorizzata sul piano pedagogico e didattico: si parla in senso generico di “capacità di mantenere la disciplina” e il termine tecnico più diffuso è quello di “gestione d’aula”. Capitolo 5 – Le abilità nascoste degli insegnanti 1. La valutazione diagnostica nell’azione didattica Nella comunicazione didattica efficace emerge costantemente una competenza specifica di tipo diagnostico e prognostico. Una tipologia interessante di insegnamento è quella “tutoriale”, che accompagna, sostiene/contiene e allena, e che suppone nell’insegnante una costante competenza nel valutare e pronosticare il percorso dell'allievo. L'insegnante non deve solo valutare gli errori, ma anche leggere il percorso erroneo individuando la genesi degli errori → in questo senso si può parlare di valutazione formativa. Un elemento di competenza e la capacità prognostica con cui l'insegnante ipotizza lo sviluppo delle competenze di un alunno, stimando le sue capacità potenziali. 2. La capacità diagnostica e il colloquio orale Nella costruzione e somministrazione di una prova, le abilità comunicative, organizzative e valutative di un docente si intrecciano tra loro e, per questo, sono più difficili da osservare. In generale, la qualità di qualsiasi tipo di prova di verifica risulta intrecciata allo stile didattico di un docente. Durante un qualsiasi momento valutativo, un allievo deve capire la domanda, trovare le informazioni necessarie per affrontarla e trovare le parole adeguate per esprimere la sua soluzione al quesito. Ne consegue che un momento valutativo suppone un’attivazione cognitiva da parte dell’alunno, la quale determina 8 sviluppi del suo personale processo di conoscenza. Per quanto la competenza diagnostica di un'insegnante sia inseparabile dal suo stile didattico è possibile osservare l'esistenza di insegnanti più abili nella comunicazione esplicativa ma che sembrano meno capaci di interrogare efficacemente. Tendenzialmente è possibile affermare che la competenza diagnostica e l'organizzazione della valutazione sono inferiori alla competenza didattico esplicativa. Da alcune ricerche, infatti, è emerso come molti docenti riconoscano di avere maggiori difficoltà e senso di inadeguatezza rispetto alla valutazione. Nel caso del colloquio orale l’allievo attiva strategie cognitive, ma anche strategie comunicative e di tipo emozionale. Egli si sente messo alla prova sotto diversi aspetti: L’allievo mette alla prova se stesso, la propria tenuta emotiva e l'abilità espositiva L’allievo comunica per ottenere consenso, approvazione e apprezzamento L'allievo si mette alla prova davanti al gruppo classe Solo al termine del momento valutativo l'allievo riceve un feedback → il voto diventa segno tangibile della risposta che l'insegnante avrà fornito a tutte le dimensioni della messa in prova dell'allievo → ecco perché l'allievo tende sempre a interpretare il voto come giudizio globale della sua persona e non come l'esito valutativo di una specifica prestazione. Per interrogare efficacemente l'insegnante deve mettere in campo alcune abilità specifiche in quanto l'interrogazione è una forma specifica di comunicazione frontale interattiva in cui l’allievo gioca strategie di persuasione, convinzione e, talvolta, di falsificazione. Un insegnante efficace può effettuare una forma di valutazione diagnostica mentre conduce l’interrogazione. In questo caso, l’elemento strategico essenziale nella comunicazione del docente che interroga è costituito ancora dall’ascolto attivo. 3. Insegnamento nella formazione adulta Anche in contesti di formazione degli adulti è possibile osservare un certo tipo di insegnamento come nel caso di un insegnante di canto, di un tenente degli alpini di un formatore in generale. Si tratta però di un insegnamento differente da quello destinato ai bambini e alle bambine delle scuole, anche se in entrambi i casi sono presenti alcune competenze specifiche, tra cui quelle prese in esame fino ad ora (es. ascolto attivo…). 4. L’insegnamento: un quadro di sintesi Insegnamento → coincide con un intervento sull'esperienza in duplice direzione: per un verso subisce una modifica all'esperienza di colui che insegna; per l'altro verso, l'esperienza di colui che riceve l'insegnamento subisce una forma di controllo, sia nel senso di una riduzione e semplificazione, sia nel senso di una anticipazione, stimolo, canalizzazione della stessa, sia nel senso più complesso e articolato di una mediazione. Nella mediazione didattica si verifica sempre la tipica scomposizione e ricomposizione artificiale di una abilità complessa, e/o di una conoscenza, nelle sue parti elementari. Un insegnamento efficace è tale perché è in grado di provocare delle risposte attive in colui che apprende e di controllare queste risposte, anche se non sempre è possibile a causa della natura auto-espansiva dei processi cognitivi umani. Anche l'educazione è un processo interattivo di autocostruzione dell'Io: l'educandato vi partecipa con responsabilità crescente e con progressiva autonomia, mentre al tempo stesso, la responsabilità degli adulti educatori decresce. Il vero educatore è sempre “uno che lavora per rendersi superfluo”, e ciò si può affermare anche di ogni buon insegnante: l'esito di pratiche didattiche positive viene rivelato proprio dalla posteriore autonomia ed espansione, in termini di efficacia personale dei processi di apprendimento intenzionali negli allievi. TERZA PARTE: LA SCUOLA E LA RAZIONALITA’ DIDATTICA Capitolo 6 – Fenomenologia della scuola 9 1. Una prima definizione La scuola costituisce una “forma” strutturale dell'esperienza educativa. Si costituisce una scuola ogni volta che un gruppo di soggetti in età evolutiva si raccoglie intorno ad uno o più maestri, in uno “spazio”, fisico e simbolico, con lo scopo di acquisire conoscenze e abilità specifiche, attraverso un lungo itinerario formativo. Nel corso della storia si sono susseguite diverse idee di scuola e con il tempo si è consolidata l’idea di scuola centrata su alcune conoscenze e abilità relative alla scrittura, lettura e calcolo. Bruner ha proposto una teoria della scuola secondo cui questa non dovrebbe limitarsi ad assicurare una certa continuità con la società e la quotidianità. La scuola, infatti, rappresenta una comunità in cui si fa esperienza per mezzo dell’intelligenza e si scoprono nuovi campi del sapere. L’idea di Bruner si contrappone all’attivismo di Dewey → il cognitivismo usa un diverso modello di analisi della scuola e del suo funzionamento. Bruner distingue la dimensione vitale della scuola e la dimensione strutturale e funzionale. Nella sua fenomenologia, la scuola sebbene si presenti come il luogo in cui si concentra l’azione dell’insegnare, rappresenta anche un luogo di socializzazione. La scuola costituisce il luogo della consapevolezza, individuale e collettiva, dell’insegnare → la teoria pedagogica ha ridefinito costantemente la ragione d’essere e il dover essere della scuola. 2. Il paradigma progressista della scuola universale Il bersaglio di Bruner era il paradigma pedagogico progressista, accusato della perdita di qualità e di efficacia del sistema scolastico americano. Un primo legame costitutivo, nella fenomenologia della scuola, si può individuare tra lo sviluppo delle conoscenze umane e la nascita e lo sviluppo di scuole. Dewey aveva riconosciuto come la necessità dell'istruzione scolastica e formale fosse correlata allo sviluppo e all'accumulo delle conoscenze scientifiche; tuttavia, egli sottolineava come il compito prioritario della scuola fosse la necessità di provvedere al fatto che ogni individuo aveva le possibilità di sfuggire alle limitazioni del gruppo sociale nel quale era nato. Per Dewey la scuola nella società moderna ha una duplice valenza:  Accesso alla conoscenza scientifica  offerta generalizzata di opportunità di sfuggire alle limitazioni del proprio gruppo sociale Il suo è un'ideale scolastico universalistico in chiave scientista e democratica. Quello di Dewey, allora, è un evoluzionismo “migliorista” perché l'educazione diventa il mezzo che l'uomo ha per controllare intenzionalmente e orientare in senso desiderabile l'evoluzione della propria specie. In Italia, a partire dalla riforma della scuola media del 1962, si sono dibattuti alcuni temi: la centralità e il primato del bisogno educativo dell'allievo; il riconoscimento delle differenze personali; il valore pratico e strumentale delle conoscenze; una didattica fondata sulle leggi dello sviluppo psicologico anziché sui fondamenti epistemologici di una disciplina → temi ripresi nella mancata riforma Berlinguer e nella riforma Moratti. In Europa le implicazioni pedagogico-didattiche dell’Attivismo giungono solo a partire dalla seconda metà del Novecento. 3. Critica storiografica Con la diffusione dell’attivismo progressista, in Europa permase la critica della scuola tradizionale, critica che classificava come tradizionale non solo la scuola caratteristica del mondo antico e dei secoli precedenti ma anche quella realizzata nella prima metà del Novecento. Questa critica in Italia costituisce una costante per i riformatori scolastici degli anni ’50 e ’60, ma anche per i critici radicali degli anni ’70. In particolare, la scuola “da cancellare” fu quella scaturita dalla riforma gentile del 1923. La scuola tradizionale appariva segnata da una serie di “peccati d’origine”: selettività, meritocrazia, conservatorismo politico. Ciò era supportato da una pedagogia autoritaria e repressiva, sia sul piano metodologico sia sul piano contenutistico, una pedagogia statica e non scientifica. 10 La storiografia distingue le società statiche dalle società progressiste e le conseguenti idee educative. L’implicazione della prospettiva universalista è che l'istruzione costituisca un dovere, oltre che un diritto, per ciascun uomo e, nel costruire sistemi scolastici, le società contemporanee estendono e prolungano anche l'obbligo di frequenza scolastica per tutti i loro membri. Si genera così una vera e propria ideologia della scolarizzazione universale obbligatoria, in cui l'idea egalitaria si traduce in un livellamento di contenuti, di percorsi e di finalità e, la cui dimensione costrittiva traspare nella tendenza omologante, riduttiva, sancita dalle leggi sull'obbligo di frequenza scolastica. A ciò si contrappongono i descolarizzatori, quali ad esempio, Don Milani. Nei critici degli anni 70 permane la distinzione antico-moderno e conservatore-progressista, con un'accentuazione nell'etichettare come “classista” e “selettiva” la scuola per pochi degli antichi e come “democratica” la contemporanea scuola universale obbligatoria. 4. Simbolismo e scrittura nella genesi della scuola Il rapporto fra lo sviluppo di scuole e la nascita della scrittura sembra oggi un dato acquisito. Bruner definisce “teoria della mente” riferendosi ad un soggetto degno di insegnamento e, “teoria della cultura” riferendosi ad un oggetto degno di essere insegnato. Da queste due teorie derivano sia il modello di una scuola aristocratica, sia il modello di una scuola universale. Nessuna cultura potete mai fare a meno di processi di distruzione intenzionale e sistematica, per tramandare rinnovare le proprie conoscenze e competenze specifiche. Erikson sosteneva proprio che l’uomo ha bisogno di insegnare, non solo per beneficiare dell’insegnamento, ma anche per venga tramandato il ricordo di fatti e tradizioni. 5. Cultura “formale” e tradizione: la “fiaccola” e la “cassetta degli attrezzi” Il rapporto fra scrittura e scuola mette in luce il concetto di “cultura formale” o “formalizzata”. Affermare che oggetto dell'insegnamento di tipo scolastico sia la cultura formale, equivale a identificare un contenuto sempre inseparabile dalla “cassetta degli attrezzi” di cui parla metaforicamente Bruner: la scuola non trasmette solo la scrittura o attrezzi simbolici che costituiscono i suoi strumenti privilegiati, bensì opera per la rigenerazione complessiva di tutta la cassetta degli attrezzi che caratterizzano la cultura formalizzata di una data epoca storica. Tale “cassetta degli attrezzi” viene arricchita di generazione in generazione. Questa metafora evidenzia la non staticità della trasmissione culturale, in quanto grazie agli “attrezzi” è possibile costruire e ricostruire contenuti culturali di ogni genere. L'istruzione formale (o scolastica) costituisce il luogo ideale di costanti processi di “formalizzazione” della cultura, cioè il luogo dove una cultura storica si riproduce riflettendo su se stessa. Il primato della conoscenza della sua continua rigenerazione rimane un implicito importante nelle rappresentazioni archetipiche della scuola e dell'insegnamento. 6. La “virtù” e il patto di cittadinanza: la scuola della città Fra docenti e discenti si stipula una forma di solidarietà umana, definita all’interno di un “patto” reciproco. Esso si stipula nell’ottica di un orizzonte culturale condiviso, in quanto non può esistere una “scuola” che non trasmetta il complesso di norme etiche e il mondo di significati culturali socialmente condivisi. È inevitabile che la scuola intervenga sulla formazione etico-politica, agendo di conseguenza anche su aspetti psichici ed emotivi dell’allievo in crescita. Lo scopo finale è quello di sviluppare una virtù nell’alunno e in base ad essa il maestro regola le proprie azioni. Questo concetto di “virtù” era già presente nelle scuole filosofiche dell’antica Grecia. Capitolo 7 - La razionalità didattica 1. Il costruirsi di una tradizione didattica 11 Lo sviluppo di modelli metodologico-didattici avviene in primo luogo in relazione alle generali teorie della conoscenza umana e non hanno uno sviluppo storico lineare. Essi si sono formati e continuano ad evolversi per stratificazione successiva, per stratificazione e per osmosi. Inoltre, i modelli metodologici vengono vissuti e “respirati” dai futuri insegnanti quando loro sono ancora degli alunni in quanto sono esposti loro stesi a metodi e strategie didattiche → più lungo è il periodo d’istruzione, maggiore sarà l’incidenza. Anche i libri letti e utilizzati nello studio sono una fonte di modello, in quanto implicano uno stile comunicativo, un’articolazione dei contenuti e una serie di categorizzazioni concettuali. Nelle prime esperienze didattiche, il nuovo insegnante opererà delle sistemazioni delle conoscenze, sviluppando una “competenza in situazione” (verificata in termini di successo/insuccesso). Per la formazione professionale, è utile partire dai modelli teorici che gli aspiranti insegnanti hanno già conosciuto, evitando lo schematismo astratto. → La storia delle idee educative e didattiche esplicite si riconosce solo in un secondo livello di stratificazione, poiché spesso influiscono sulla vita dei secoli successivi e diventano oggetto di una letteratura specializzata. Le teorie della conoscenza influenzano sempre, in modo diretto o indiretto, la riflessione e la prassi educativa! Perciò, la crisi della didattica è avvenuta con la rottura della continuità dei presupposti gnoseologici nella seconda metà del ‘900 e si è percepita a partire dagli anni ’70. Tuttavia, tra Ottocento e Novecento, vi era stato un periodo di significativo per la riflessione pedagogico-didattica grazie allo sviluppo e al consolidamento dei sistemi scolastici nazionali → obbligatorietà della frequenza, esigenza di formare e reclutare nuovi insegnanti = crescita di specifiche istituzioni accademiche, ricerche, studi e letteratura specialistica. → Le idee e le teorie entrano nella prassi solo grazie alla mediazione degli insegnanti che compiono integrazioni e selezioni. Dal momento che sono persone diverse è impossibile che i modelli didattici si riproducano in maniera standardizzata! Infine, anche il fattore tempo gioca un ruolo fondamentale nell’introduzione delle pratiche all’interno del sistema scuola. 2. Due famiglie metodologiche Tutti i modelli didattici sono riconducibili a due grandi “famiglie metodologiche”: 1. Modelli “trasmissivi”: azioni di didattica frontale, comunicazione diretta, azioni che possono stimolare e pilotare le strutture cognitive dell’ipotetico discente con la proposta di un certo numero di oggetti simbolici pre-selezionati a. Insegnamento sistematico Vengono definiti anche “deduttivi” perché hanno la pretesa di costruire un percorso logico a priori un cui i contenuti vengono scanditi e articolati secondo criteri non casuali → la logica del programma dell’insegnante coincide con quella dei contenuti 2. Modelli “induttivi” e “attivi”: l’insegnamento di materializza in “situazione”, gli allievi sono coinvolti e implicati attivamente (logica del laboratorio, caso concreto, problema, materiale predefinito, esperienza) → si inducono percorsi cognitivi per cercare soluzioni spostando ad un momento successivo la generalizzazione degli esiti. L’insegnamento efficace non può fare a meno di nessuna di queste due famiglie, altrimenti sarebbe un errore didattico. 3. L’insegnamento sistematico L’insegnamento sistematico è il risultato del razionalismo antico e moderno. Nel corso dell’800 si sviluppo una letteratura pedagogica di livello accademico che coincideva con dei manuali per gli insegnanti elementari → la matrice era attribuita a Pestalozzi, anche se il sapere pedagogico-didattico fa riferimento alla pedagogia di Herbart (il movimento si farà comunque al primo). Affinché un modello possa affermarsi, deve riuscire a far corrispondere la teoria della mente e quella della cultura = Herbartismo è riuscito ad unire la filosofia dell’insegnamento alla professione perché offriva una base filosofico-scientifica e un certo grado di riscontro empirico. 12 In cosa consiste l’Herbartismo? → Costituisce una sorta di realismo oggettivistico → La sua teoria della mente vede nell’Io un centro di energia che ingloba progressivamente le rappresentazioni che ricava dalla realtà circostante → alla mente in formazione di devono proporre idee chiare e distinte, così da creare una struttura di basa dotata di capacità logiche e razionali che si svilupperà in termini autoespansivi ma in maniera coerente all’imprinting iniziale → È l’oggetto didattico che deve disciplinare la mente, perciò la loro scelta e organizzazione sequenziale è fondamentale Nell’herbartismo, la ricerca sulle strutture della mente coincide con l’analisi della disciplina che hanno valore formativo intrinseco. Questo termine porta con sé un’ambivalenza (riferimento all’oggetto della conoscenza e alla regolamentazione della condotta del soggetto) che evidenzia la rappresentazione fra l’unità e l’armonia del sistema di conoscenza e l’unità della persona che si forma. → Perciò, l’insegnamento sistematico lega l conoscenza di tipo realistico e oggettivistico alla “malleabilità precoce” della mente infantile. Lo scopo dell’azione educativa è lo sviluppo della ragione adulta, di una mente critica e autonoma. L’oggetto dell’insegnamento viene dato all’alunno, ogni nucleo di conoscenza viene scomposto in sequenze successive = si ricapitola la conoscenza passata e la si propone agli alunni semplificandola e procedendo con ciclicità. In questo contesto, la differenziazione e il medium utilizzato divengono secondari. Perciò, nell’insegnamento sistematico il primato è dell’oggetto che disciplina la mente del bambino; inoltre, richiede disponibilità di tempo e si focalizza sulle conoscenze dotate di valore intrinseco (spesso non applicabili nella pratica). Il rischio più grande con questa metodologia, è quello di rendere l’alunno passivo, spingerlo verso l’omologazione e al conformismo intellettuale; inoltre, può essere un impianto astratto. 4. Il concetto di obiettivo didattico e il modello della programmazione All’inizio degli anni ’80, i concetti di obiettivo e di programmazione vengono posti come novità assoluta all’interno della scuola italiana. Sembra che i due concetti volessero correggere la tendenza all’astrattismo del modello sistematico. Il termine obiettivo può essere visto come sinonimo di fine/scopo, ma in ambito scolastico, si applica a parti di un curriculum in relazione a specifiche conoscenze ed abilità, e a singole attività didattiche → può riferirsi sia all’insegnante che all’allievo: → Pdv dell’insegnante: richiama l’attenzione sugli esiti che si attende rispetto a ciascun intervento didattico. Sembra che possa limitare il rischio di una trasmissività meccanica = il contenuto deve essere considerato in relazione alle menti a cui viene proposto. Così facendo si ricollega anche ai concetti di selezione /semplificazione dei contenuti → Pdv dell’allievo: suppone la possibilità che l’insegnamento/apprendimento si trasformi in comportamenti osservabili direttamente o indirettamente e che essi siano verificabili. In questo modo, l’azione didattica è più concreta e induce ad una continua riprogettazione. Già dagli anni Venti si parlava di obiettivi, quando, in presenza dell’obbligo scolastico, si ricercavano obiettivi didattici comuni per unificare qualitativamente gli esiti dei processi didattici → si ricercano livelli minimi perseguibili da tutti gli allievi anche se difficili da definire con chiarezza. Questo modello di programmazione curricolare si è affermato con il supporto delle indicazioni ministeriali. Si sono affermati due modelli prevalenti: uno di ispirazione comportamentista e uno di matrice cognitivista. Il primo sottolinea la natura rigorosamente verificabile dell’obiettivo inteso sempre e solo come descrittore di un comportamento dell’allievo e la costruzione di itinerari in piccoli passi → variante del modello sistematico e ha contribuito all’operazionalizzazione degli obiettivi (comportamenti manifesti osservabili e misurabili). 13 Il modello cognitivista (didattica per concetti e mappe concettuali), invece, permette una maggiore flessibilità progettuale. Infine, gli obiettivi servono per razionalizzare i processi di insegnamento/apprendimento e per aiutare gli insegnanti a basarsi sui propri allievi → devono essere verificabili per indicatori. In realtà la prassi didattica è molto diversa da questo modello. 5. Le competenze Nell’ultimo decennio il concetto di competenza ha acquisito notevole importanza ed essendo incluse nelle Raccomandazioni della Commissione europea, hanno sviluppato un forte valore d’uso all’interno della progettazione didattica. Il termine è stato utilizzato anche in documenti precedenti (es.: proposte del ministro Berlinguer, riforma 53/2003, …) ma con 3 versioni differenti: 1. Matrice comportamentista: un soggetto competente è un soggetto addestrato, ovvero ripetutamente esposto a stimoli condizionanti che lo portano ad acquisire determinati comportamenti misurabili ed osservabili, ritenuti validi per la soluzione di particolari problemi. Questi comportamenti competenti derivano dalla scomposizione dei comportamenti esperti che sono il paradigma di riferimento; alcuni sono definiti di base e, perciò, fondamentali (competenze trasversali di base), altri sono specifici, utili e funzionali (competenze specifiche o di indirizzo). Competenza vista come comportamento competente, come un’abilità 2. Lettura analitico-cognitivista: le competenze sono un insieme predeterminato di proprietà razionali, operative, motivazionali, emotive, relazionali ed espressive, interne al soggetto, che egli mostra di possedere indipendentemente della natura del compito specifico chiamato ad affrontare e dalle caratteristiche del contesto/situazione. In questo caso di parla di metacompetenze o competenze generali, perciò valide in tutte le circostanze → dovrebbero essere applicabili a qualsiasi situazione nuova. L’identificazione delle proprietà soggettive trasferibili è riconducibile alle caratteristiche dell’individuo. Con quest’accezione, la competenza è utile per analizzare l strategie osservabili che i soggetti mettono in atto ma non riconosce il ruolo che l’ambiente, l’insegnamento e l’esperienza personale giocano nello sviluppo. 3. Bertagna: la competenza è qualcosa di contestuale, ecologico, concreto e anche etnografico e relazionale, ovvero il risultato di un’interazione sistemica fra soggetto, oggetti materiali, significati sociali impliciti ed espliciti, azioni di altri soggetti e setting ambientale. Perciò, le competenze si dimostrerebbero ogni volta, con originalità ed adattamento → “inesauribile conversazione riflessiva come la situazione (knowledge in action) e come un continuo lavoro di riscrittura autopoietica. Secondo tale visione, si è competenti quando si decidono le azioni mentre si compiono, si correggono e si esplorano gli elementi impliciti nelle azioni stesse per tenerne conto in quelle successive → sono competenze indeterminate perché in situazione, non traducibili in schemi o trasferibili in altri contesti (cosa che in realtà accade a dei soggetti competenti). Perciò, serve una definizione che includa il versante interno e quello esterno. → Per quello esterno una competenza è la capacità di rispondere a bisogni, individuali o sociali, e di sviluppare un’attività o assolvere un compito con successo ed efficacia → possono essere individuate solo nei contesti concreti in cui vengono agite. → Per quanto concerne il versante interno, sono atteggiamenti, capacità o disposizioni inerenti al soggetto che si innestano su una combinazione di atteggiamenti pratici e cognitivi, di conoscenze, di motivazioni, di orientamenti valoriali, di emozioni e di altri elementi sociali e comportamentali. Le conseguenze pedagogiche sono che il contesto permette di individuare le competenze ma anche di favorirne lo sviluppo per tutta la vita della persona; aiuta a superare le concezioni della mente di tipo meccanicistico per abbracciare una visione cognitivista e culturalista. Inoltre, le competenze seguono uno sviluppo di tipo auto-espansivo con possibilità di processi involutivi e che si destrutturino nel tempo → non si può assumere la verifica quantitativa come certificazione di esse. 14 Questo approccio rivela il limite della didattica scolastica, anche le tassonomie rischiano di divenire elenchi di buone intenzioni. È significativo che nei documenti europei aggiungano gli atteggiamenti in quanto ribadisce la visione della scuola come soggetto educativo e non solo didattico. Capitolo 8 – I metodi induttivi attivi 1. Soggettività della conoscenza e attivismo I termini chiave per la famiglia dei metodi induttivi e attivi sono: progetto, modulo, caso concreto e laboratorio; tali metodi partono sempre da un’esperienza diretta e concreta. L’Attivismo di Dewey è ancora oggi modello emblematico, seguito dal principio della prospettiva di Bruner. Parlare di un “soggetto della conoscenza in azione” non equivale alla “centralità dell’allievo”, in quanto il soggetto è la mente umana nel processo di conoscenza perciò messa in relazione ad un oggetto da conoscere, in un ambiente materiale e simbolico di apprendimento. In questo contesto, l’attivismo previlegia la scoperta e l’interesse a partire dalle difficoltà suscitate dai problemi; gli alunni dovranno trovare risposte attive e vitali, in un ambiente scolastico che deve proporsi come un laboratorio. La teoria pedagogico-didattica di Dewey afferma che l’allievo può apprendere solo se è attivo, ovvero in una dimensione del “fare”. Tuttavia, questo approccio è inadeguato per la fascia d’età superiore alla scuola primaria. Le premesse teoriche dell’approccio sono: a. È un modello evoluzionista: la razionalità scientista appare dinamica, l’umanità deve assumersi la responsabilità attraverso l’educazione delle nuove generazioni = educazione come impresa politica ed etica. b. La mente umana ha origine sociale e vive in una dimensione sociale → focus su gruppo classe e attività di gruppo come metodo migliore dell’apprendimento. c. Concezione spontaneista e naturalistica della mente umana che si traduce nella bontà e positività naturale della mente di cui occorre rispettare la spontaneità. Lo spartiacque che segna l’ingresso nella didattica contemporanea è l’intervento pubblico di Dewey contro la psicologia di Herbarts con questa fondamentale obiezione: l’inadeguatezza della teoria della mente infantile. Per Dewey la mente individuale scaturisce dall’azione e dall’esperienza di una difficoltà = serie infinita di adattamenti che cambiano e rimodellano l’ambiente. Inoltre, l’intelligenza umana è la risposta attiva e vitale di un organismo in cui mente e mano di integrano continuamente; perciò, per una didattica efficace servono la manualità, l’operatività, la partecipazione, la socialità le motivazioni e gli scopi personali. Partecipazione attiva della mente dell’allievo alla costruzione della conoscenza L’apprendimento è un processo attivo, l’allievo apprende se, e quando, è attivo nella situazione didattica Il fare non è legato necessariamente alla “mano”, sono come intelligenze che si integrano, ovvero che interagiscono e si potenziano a vicenda → ci sono manualità per cui serve un addestramento specifico, altre che interagiscono a livello cognitivo = competenze senso-motorie e manuali che agiranno sulla progressiva sicurezza dell’Io adolescente. 2. La “concretezza” come principio di metodo Il principio di concretezza è stato riformulato da Bruner in direzione didattica distinguendo tre principali modalità di conoscenza: attiva, iconica e simbolica (fra loro interagenti ma non necessariamente interconnesse). All’inizio di ogni nuovo apprendimento, la struttura cognitiva individuale utilizza delle modalità di apprendimento iniziali (apprendimento per scoperta, conoscenza attiva e iconica), al posto di quelle posteriori e più sofisticate (apprendimento per acquisizione, conoscenza simbolica) → questo comporta l’utilizzo di strategie attive e concrete. 15 La concretezza consiste nel rendere possibili singole esperienze diversificate, ma anche il riferimento alle esperienze storico- sociali che si compiono nel mondo circostante = esperienze in laboratorio, uscite al museo, escursioni, testi da produrre, ecc. Perciò, ad oggi, il concetto di competenza esige una riconsiderazione e un riconoscimento pedagogico-didattico della presenza di diverse modalità e qualità di apprendimento e di conoscenza. 3. Il laboratorio come modello didattico Un laboratorio è uno spazio didattico la cui struttura risponde al principio di concretezza, di operatività e di attivismo, e che può rivolgersi indifferentemente a competenze motorie, sociali, intellettuali, estetico-espressive; può valersi di diversi contenuti e partire da esperienze programmate o informali. Affinché si realizzi, è fondamentale che vi sia l’attivazione degli allievi e la possibilità di sperimentare attivamente, produrre o confrontarsi in termini operativi. Inoltre, ha una logica modulare non in successione/sequenza logica. Questa pratica esprime due consapevolezze: a. L’ordine epistemologico di presentazione delle conoscenze e abilità non va confuso con l’ordine di svolgimento psicologico e didattico b. È caratterizzato da uno spessore interdisciplinare ed integrale Il laboratorio deve essere pensato all’interno di una prospettiva sociale dell’apprendimento perché gli alunni apprendono assieme anche in termini di dissonanza e conflitto. Esso si deve rivolgere ad un piccolo gruppo (non più di 15 membri, sarebbero ottimali 10-12 componenti); l’insegnante lavora come facilitatore/animatore della comunicazione e come tutor. La valutazione è sempre formativa e tende a divenire auto-valutazione dell’allievo (es.: per valutare la partecipazione). Inoltre, questa metodologia aiuta a far emergere competenze già presenti e richiamarne altre per agire sulla motivazione ad apprendere, favorendo l’estensione dell’offerta formativa. Il laboratorio deve essere dotato di un’unità di senso compiuto, non troppo piccola o frammentata. Infine, anche l’età degli alunni determina esiti formativi più o meno profondi. 4. Moduli e modularità A partire dalla metà degli anni ’90, la proposta del Ministro Berlinguer ha introdotto la proposta di una modularità come nuovo modello per la scuola dell’autonomia. Questo approccio, in realtà, nasce dalla formazione adulta ed è caratterizzato da una logica di approfondimento tematico e compattazione del tempo utilizzato. Perciò il modulo predilige la profondità e la specificità didattica rispetto all’ampiezza e alla sistematicità comportando uno svolgimento non lineare ed organico; inoltre, non sfrutta nemmeno la valutazione inziale, in itinere e finale. È un approccio valido solo se stimola esperienze dirette e gli vengono associate metodologie induttive e partecipate. Come funziona? Si definisce una tematica, si presentano criticamente i problemi metodologici, si confrontano gli esiti, si individuano i risultati problematici e le difficoltà interpretative e si anticipano le implicazioni operative. L’efficacia del modulo dipende dall’alta specializzazione del docente. In ambito scolastico, il modulo è un tempo di lavoro compattato, con obiettivi e contenuti specifici, che possono prescindere dai contenuti disciplinari sistematici svolti in parallelo dalla classe. 5. I progetti La logica del progetto risponde ai presupposti di attività dell’alunno e della dimensione sociale dell’apprendimento = l’attivazione cognitiva e la socializzazione sono essenziali. Un progetto deve avere contenuti, obiettivi, esperienze da stimolare e monitorare, strumenti di valutazione, produzioni di oggetti esponibili e può coinvolger più classi ed insegnanti. Inoltre, un progetto può far riorganizzare una parte del tempo compattandolo oppure allungandolo. È importante: - non escludere l’insegnamento sistematico ma affiancarlo - coinvolgere i ragazzi nella fase di ideazione per la loro partecipazione attiva 16 - l’esperienza di comunicazione diretta e del conflitto - l’insegnante deve “stare” all’interno dei lavori dei gruppi per poterli valutare 6. La tutorship nella conduzione dei gruppi La tutorship si riferisce ad una forma di assistenza con cui l’insegnante “accompagna” un allievo che compie un percorso di sviluppo, lo verifica, lo corregge, lo sostiene e lo “allena” = forma diretta di tutorato anche quella dell’insegnante di sostegno. Perciò è una relazione didattica faccia a faccia con lo studente, realizzata anche nella scuola secondaria di secondo grado per ridurre l’insuccesso e la dispersione scolastica. È una funzione didattica che si assolve all’interno la mediazione di un contenuto, perciò passa attraverso l’insegnamento. È diverso il discorso in riferimento alle attività di gruppo perché comporta competenze specifiche nel tutor riaspetto a contenuti, abilità e competenze oggetto del lavoro del gruppo → non è stabile, ma funzionale ai compiti di apprendimento e limitata al percorso di riferimento. Spesso gli insegnanti sono stati sollecitati ad essere facilitatori e animatori delle interazioni del gruppo e di avere la funzione di stimolo, più che di sostegno. Una strategia importante per l’insegnante è l’ascolto attivo, perciò quest’intelligenza nell’ascolto non può prescindere dalla conoscenza dei contenuti e dei percorsi cognitivi specifici. Un momento fondamentale è la riverbalizzazione che presenta una forte dimensione di contenimento = rende la leadership dell’insegnante effettivamente tutoriale all’interno del gruppo. Per una classe che lavora con questo approccio, il docente dovrà attuare una conduzione che dall’animazione/facilitazione, si trasformi in piena tutorialità entrando in merito di scelte, contenuti, percorsi, valutando in itinere, rilanciando ipotesi, sostenendo e accompagnando l’intero percorso. CAPITOLO 9 - Ri-progettare la scuola? 1. La scuola universale, le scienze e i curricoli Le scuole non sono rimaste invariate nel tempo, ma rispecchiano le peculiarità storiche delle società che le esprimono, rielaborano e rigenerano cultura, scienza e tecnologia. Nel ‘900 si è vista l’espansione quantitativa dei sistemi scolastici e del tempo dilatato della frequenza → i giovani frequentano istituzioni accademiche = l’educazione scolastica assume sempre maggiore importanza nei processi educativi. Tuttavia, le forme di insuccesso e abbandono scolastico fanno comprendere che la scuola non riesce ad assolvere alla sua funzione specifica. Nel corso del secolo, la scuola universale si è posta come luogo d’accesso, uno spazio di messa a disposizione dei beni intellettuali, perciò la scuola contemporanea è stata scientista, universale e laica. Dal momento che ciò che caratterizza alcuni gruppi potrebbe generare o rinforzare distinzioni, il principio scientista ha svolto un lavoro di razionalizzazione in nome dell’universalismo della ragione. Quest’orizzonte, però, comporta riduzionismi su diversi livelli e “giustifica” gli esiti scadenti e il basso livello dell’istruzione scolastica di base. La componente economica-finanziaria non è escludere, ma l’elemento decisivo è il modello della scolarizzazione universale obbligatoria. Il riduzionismo scientista, nella didattica, comporta un impoverimento dei contenuti del curricolo attraverso tre operazioni di riduzione: 1. riduzionismo complessivo per un’unificazione del metodo per i diversi settori; estensione della metodologia scientifica a tutti i campi di conoscenza e la centralità del metodo scientifico come contenuto della scolarizzazione = riduzione delle componenti narrative 2. riduzione nel passaggio dal contenuto scientifico a quello didattico perché la didattica si fonda sul principio della semplificazione del contenuto = taglio selettivo 17 3. riduzione data dal valore d’uso, rivendicato e assegnato alla selezione dei contenuti del curricolo della scuola universale Negli anni ’70 si identificava la scuola classista con una scuola fondata sui contenuti operando così una concatenazione di riduzionismi. 2. Emergenze e prospettive del presente Ogni generazione deve ri-progettare la propria scuola attorno al dibattito politico e culturale. Questo processo incontra alcune difficoltà di tipo pedagogico: - globalizzazione e multiculturalismo: hanno scardinato il presupposto delle cittadinanze nazionali ovvero l’ideale unità di memorie e intenti che costruiscono le diverse patrie, oltre agli orizzonti ideologici (religiosi e politici) - accentuato pluralismo: si supponeva che ogni prospettiva avesse un margine di errore e restava sottintesa la possibilità della ragione scientifica universale si sviluppare un processo perenne di comprensione questi fattori attaccano dall’interno i fondamenti della razionalità didattica - esplosione dei mondi virtuali - nuove tecniche di comunicazione A questi fattori si sommano elementi socio-culturali e costumi sociali: - dilazione degli spazi e dei tempi di frequenza e parallela riduzione del riconoscimento sociale e del prestigio delle istituzioni scolastiche = perde desiderabilità sociale - ricerca di nuovi e ulteriori titoli academici = difficoltà occupazionali - la scuola è divenuta troppo vecchia e anacronistica per la società - insufficiente qualificazione culturale e scientifica degli insegnanti e loro inadeguatezza etica 3. Problematicità della prospettiva interculturale Dal pdv socio-antropologico, viviamo in un contesto socio-culturale composito con gruppi connotati da identità diverse e localismi di vario genere. Dagli anni ’70 le nazioni del Nord Europa hanno visto come “emergenze sociali” i molteplici gruppi di immigrati. La risposta dal pdv didattico è stata di tipo integrativo per una convivenza fra diversi che garantisse democrazia presente e futura. L’elemento più critico è stata la scoperta di altre culture e della loro presenza nella soggettività universale della ragione umana e la soggettività esistenziale del singolo → il problema sta nella scoperta di una capacità mediatrice con cui le culture umane si frappongono fra la natura umana universale 3 l’individualità dei soggetti. Nella filosofia occidentale esistevano due ordini di soggettività: a. ragione umana universale, condizione della pensabilità e conoscibilità dei suoi oggetti, ragione illuminista e scientista → ogni differenza storica fra i soggetti si sarebbe nl tempo livellata b. riconosciuta soggettività del singolo legata alla sua storia → la natura umana è considerata razionale quanto la ragione è considerata naturale Nonostante l’impianto laico della cultura del Novecento, la fede e la filosofia si concepivano come garantite dalla razionalità universale. L’universalismo costituiva la premessa tranquillizzante per affrontare il problema dei valori e della loro pluralità → le diversità erano errori o colpe che, una volta riconosciute, avrebbero riconciliato e riunificato anche le posizioni contrapposte. La scoperta della cultura in senso antropologico esige di riconoscere una diversità e il diritto alla diversità (diritto umano inalienabile). 18 Le antropologie universalistiche e le concezioni marxiste resistono agli scenari introdotti dalla multicultura per negano il valore rilevante alle differenze culturali. 4. L’educazione interculturale e la scuola A partire dagli anni Ottanta, la letteratura pedagogico-didattica si è focalizzata su due modalità di affronto della situazione: 1. educazione interculturale come metodologia di comunicazione fra autoctoni stranieri per mezzo di atteggiamenti empatici, di analisi e comprensione critica delle rappresentazioni sociali pregiudiziali → esperienze e riflessioni sulla comunicazione, sull’ascolto empatico e sulle modalità di accoglienza e integrazione in piccolo gruppo. C’è stata una progressiva attenzione ai materiali didattici per ridurre il pregiudizio attraverso una maggiore conoscenza dei mondi culturali degli altri e delle esperienze umane di migrazione a. materiali di mediazione b. inserimento iniziale in classi di introduzione alla lingua c. corsi paralleli di alfabetizzazione linguistica 2. una didattica autenticamente interculturale presenta dei limiti perciò non vi è ancora una concreta traduzione metodologico-didattica. La scuola può lavorare per integrare i soggetti diversi compiendo una relativa omologazione culturale, e anche le forme della socialità determineranno la prevalenza e la condivisione di progressiva di alcuni modelli di condotta, stili relazionali ed esperienze affettive. 5. Bruner: il principio della prospettiva Questo principio deriva dalla concezione di una psicologia culturale, ed afferma che nelle azioni di insegnamento occorrerebbe presentare qualsiasi contenuto conoscitivo precisando il punto di vista che lo produce. Al contrario, la didattica scolastica tende a proporre i contenuti come “oggettivi” e a collocarli in una dimensione astratta dal tempo e dallo spazio → anche cambiando il medium, lo studente perde la percezione della soggettività che si esprime. Perciò, il principio della prospettiva potrebbe includere anche il problema della “fonte” del contenuto permettendo di analizzare la soggettività del punto di vista e la legittimità razionale della sua formulazione = trasformazione della didattica. Questa prospettiva non esclude però la condivisione, il rispetto delle regole, il procedere scientifico, la concordanza e la coerenza. Il principio della prospettiva appare trasposto in didattica in un libro dedicato alla primaria del 1989 e dedicato al lavoro didattico per temi (Antonouris e Wilson): - approccio della somiglianza (ovvero un approccio da villaggio globale): tematiche relative alla casa, cibo, abbigliamento per mettere in evidenza le esperienze somiglianti nei diversi gruppi etnici. Può essere formulato come principio della categorizzazione concettuale in chiave interculturale e risponde a due esigenze pedagogico didattiche: la rassicurazione e il riconoscimento della comune umanità. - l’offerta di una rete di categorizzazioni pre-concettuali in cui inserire i contenuti sembra essere un correttivo per la frammentazione. Sono più funzionali proposte comparative perché permettono di fare un percorso “a spirale” di tipo bruneriano perché il bambino approda ad idee guida sempre più generali partendo dall’esame di dati e fatti concreti come agire? La categoria iniziale deve essere generica, così l’adolescente può riconoscere i fenomeni sempre più complessi che vi rientrano. L’insegnante deve preparare il materiale con una corretta problematizzazione dei dati presentati, molte domande aperte e ipotetiche. Questo approccio è funzionale perché valorizza le differenze, relativizza i contenuti e permette la percezione di elementi funzionali constanti e ricorrenti = bambini riconoscono permanenze universali. 6. Il principio “narrativo” 19 Il principio della prospettiva quindi orienta le menti alla consapevolezza della soggettività culturale e linguistica che caratterizza le visioni del mondo, per una continua negoziazione dei significati nella costruzione della conoscenza. A tale principio, Bruner aggiunge quello “narrativo” che deriva dalla scoperta che la mente umana struttura la propria esperienza immediata, la organizza e la gestisce secondo due modalità universali: - il pensiero logico-scientifico - pensiero narrativo: decisiva per la coesione di una cultura come per la strutturazione della vita individuale; permette al singolo di crescere dentro una cultura e di trovare il proprio posto simbolico. Entrambe fondano le radici nel genoma umano e sono espresse e coltivate da tutte le culture. Le implicazioni didattiche sono che il bambino deve entrare in rapporto con il patrimonio narrativo di una cultura, perché le storie strutturano e nutrono un’identità e stimolano l’immaginazione. Ad oggi questo approccio è caratterizzato dalla frammentazione delle proposte (brevi testi nell’eserciziario) per fornire gli strumenti e non per stimolare la modalità narrativa del pensiero = non si sviluppa la competenza narrativa. Quest’importante funzione emerge anche dal concetto di archetipo o figura archetipica → la loro permanenza può sussistere solo se le opere vengono decodificate lentamente e in maniera consapevole. Secondo Bruner, vi è un’universale disposizione alla cultura della mente umana che costruisce una pre-condizione essenziale nell’organizzazione di una didattica interculturale. Oltre a questi principi, si può aggiungere l’esigenza di stimolare la competenza comunicativa. 7. Esperienze vitali e virtuali nell’età evolutiva La scuola è per eccellenza il luogo dell’esperienza riflessa e indiretta. Dewey esprimeva con i termini scuola/laboratorio il luogo di razionalizzazione dell’esperienza individuale e collettiva e luogo di socialità positiva progettata. Per il pedagogo e Pestalozzi il problema principale era di un’esperienza iniziale concreta, ancorata ad uno spazio tempo storico, a norme sociali e pregiudizi. I due pedagogisti non si sarebbero immaginati l’esperienza iniziale dei bambini su mondi virtuali, perché fino a mezzo secolo fa veniva a scuola con un bagaglio ricco di esperienze date dalla partecipazione alla vita domestica. L’intelligenza manuale si sviluppava grazie agli arnesi, l’occhio misurava distanze, spazi, il coordinamento motorio si sviluppava camminando su diversi terreni → l’apprendimento motorio accompagnava a lungo la crescita dei bambini. Il problema della scolarizzazione precoce era quello di impedire l’apertura verso conoscenze e competenze di tipo simbolico ed analitico deduttivo se l’attenzione era incanalata esclusivamente verso l’apprendimento attivo e iconico = protezione attiva dell’età evolutiva grazie al divieto del lavoro minorile e l’obbligo della frequenza scolastica. Ad oggi, con i mondi virtuali la conoscenza dilaga e si diluisce, perciò la riduzione dell’esperienza diretta spontanea costituisce un rischio educativo sia a livello cognitivo, sia su quello emotivo e sociale. Tuttavia, con i mondi digitali si sviluppano precocemente altre abilità e coordinamenti che portano ad avere una percezione di maturità cognitiva all’infanzia e ai primi anni della primaria, ma si rallenta l’apprendimento prima della fine della primaria. Gli insegnanti della secondaria registrano una generale immaturità sociale e cognitiva, un ritardo nello sviluppo complessivo, povertà linguistica e insufficiente autonomia nell’apprendimento seguita da fragilità emotiva. Alcuni docenti ottimisti, affermano che si tratta di mutazioni generazionali e di un nuovo realismo nella percezione dello spazio-tempo. Anche gli spazi sociali sono modificati, gli adolescenti vivono in case in cui i genitori non ci sono, vi sono pochi figli o assenza di figure di riferimento (zii, cugini, ecc.). Influisce anche il numero crescente di crisi e separazioni coniugali che comporta disorientamento materiale e relazionale (case e condotte da seguire diverse). Con la “comunicazione di massa” i bambini possono entrare in rapporto con un mondo culturale senza la mediazione degli adulti comportando conseguenze sui processi educativi. Oggi si teme che sia l’universo virtuale a conferire senso alla vita 20 materiale, familiare e scolastica = vero termine di mediazione ed interpretazione. Ma questi mondi presentano modelli di umanità/disumanità con cui non si può competere, perciò non possono insegnare la condizione umana e farla sperimentare. Inoltre, l’esperienza virtuale fornisce un falso senso di attività e partecipazione → l’assenza di mediazione umana personale che crea un contesto anomico in cui non si chiedono giudizi e decisioni. 8. Insegnanti o educatori Le società contemporanee dovrebbero progettare spazi educativi diversi e ulteriori per rispondere ai bisogni educativi delle giovani generazioni → spazi vitali in cui si offrano attività educative anche in forma ludica e sportiva, relazioni umane positive, riferimenti stabili. Serve una scuola più consapevole, efficace ed articolata che sostenga lo sviluppo delle persone in età evolutiva. Il tema della formazione dei docenti ha guadagnato il giusto spazio all’interno della legislazione ma vi sono conflitti fra i modelli e il concetto di “unicità della funzione docente” (manca una concezione condivisa dell’insegnamento nella sua essenza). Le rappresentazioni e le concezioni che convergono nella professione docente sono molte, vi sono differenze e sfumature. Inoltre, si chiede agli insegnanti di essere educatori in termini di riduzione dello svantaggio e integrazione dell’handicap → porta a pensare l’educazione come forma di assistenza, un intervento compensativo destinato a gruppi “diversi”. Dall’altra parte, l’educazione è la cura che l’adulto offre alla condizione umana nell’età evolutiva = l’ambiguità sta nel fatto che la tradizione scolastica ha sempre distinto l’educare dall’istruire, diversamente dalla legislazione moderna che dichiara competenza scolastica “educazione, istruzione e formazione” degli allievi. Uno stesso insegnante può assumere funzioni diverse all’interno della scuola che rientrano nel quando delle responsabilità educative e didattiche. Alcuni si vedono prevalentemente insegnanti, altri educatori, tuttavia occorre una riprogettazione degli spazi formali ed informali perché, spesso, i ragazzi hanno un bisogno maggiore della relazione umana. Questo deve avvenire anche a scuola per la sua frequenza universale e diffusione capillare, ricordandosi che un luogo educativo istituzionale deve essere pensato come “uno spazio, fisico e simbolico, in cui il potenziale cognitivo e sociale di soggetti in età evolutiva viene accolto e curato, sostenuto, stimolato, orientato, canalizzato, addestrato ed esercitato da un gruppo di soggetti adulti, nella prospettiva intenzionale di assisterne la crescita in termini il più possibile armonici ed integrali. Tutte le esperienze e le attività offerte rispondono a criteri di progressività e rispettano le fasi evolutive dei soggetti in crescita, ma seguono anche criteri di opportunità, desiderabilità e legittimità sociale.” Nel caso della scuola si devono aggiungere due elementi specifici ed essenziali: 1. selezione dei contenuti culturali e scientifici per stimolare, orientare ed esercitare il potenziale cognitivo dei soggetti. I criteri della scelta sono elemento importante nella progettazione scolastica e determinano i principi metodologici e didattici 2. dimensione sociale dell’esperienza scolastica e delle finalità intenzionali di educazione sociale e politica. La scuola orienta deliberatamente il potenziale emotivo e socioaffettivo dei bambini Gli insegnanti condividono obiettivi educativi anche con altre figure pedagogiche, essi possono avere anche impegni extra- curricolari ma la funzione deve sempre essere ri-compresa alla luce del fatto che la scuola rimane l’unico luogo in cui formalizzare l’esperienza e generare cultura. Per questo i docenti hanno il problema del metodo più efficace e dei contenuti → la scuola deve raggiungere gli scopi dell’educazione universale alla cittadinanza ma anche la continua rigenerazione delle conoscenze per raggiungere livelli e strumenti elevati. In questo senso, è importante la personalizzazione dei percorsi formativi che comporterebbe anche la riorganizzazione del materiale e del lavoro. È necessario che la società occidentale riprenda consapevolezza dell’importanza dell’educazione e dei suoi spazi per ri- legittimarla come terza forma dell’educazione → fin dall’infanzia le nuove generazioni sono esposte a diverse figure che formano l’educatore collettivo. Secondo Morin, è proprio il corpo docente che ha il compito etico-politico di riformare l’insegnamento e la cultura poche è la classe professionale direttamente più coinvolta → formazione degli insegnanti come formazione continua di cittadini adulti. 21

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