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Questo documento contiene riassunti sui concetti fondamentali della chimica, inclusi la natura atomica della materia, la struttura atomica e le leggi della chimica. Vengono presentati diversi aspetti della chimica. Il documento è un testo di riassunto.

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La natura atomica della materia Per primo Lavoisier nel suo “Trattato elementare di Chimica” dice come la massa totale delle sostanze reagenti sia uguale alla massa totale delle sostanze prodotte da quella trasformazione (massa reagenti = massa prodotti). Proust, invece, dimostrò che un composto è c...

La natura atomica della materia Per primo Lavoisier nel suo “Trattato elementare di Chimica” dice come la massa totale delle sostanze reagenti sia uguale alla massa totale delle sostanze prodotte da quella trasformazione (massa reagenti = massa prodotti). Proust, invece, dimostrò che un composto è caratterizzato dall’avere rapporti ponderali definiti e costanti tra gli elementi componenti. Queste due leggi citate prima permisero a Dalton di proporre un modello della natura che si basasse sui seguenti postulati: → la materia è formata da particelle piccolissime e indivisibili chiamate atomi → gli atomi di uno stesso elemento sono tutti uguali tra loro → gli atomi di elementi differenti hanno masse diverse → le reazioni chimiche consistono nella separazione e ricombinazione degli atomi, ma nessun atomo di un elemento si trasforma nell’atomo di un altro elemento → gli atomi si combinano tra loro secondo rapporti definiti e costanti, espressi da numeri interi. Dalton, inoltre, studiò ed illustrò la legge delle proporzioni multiple che dice che se un elemento A reagisce con un elemento B formando una serie di composti, le masse di A nei vari composti che reagiscono con una massa fissa di B, stanno tra di loro secondo numeri interi, generalmente piccoli. Per Dalton la molecola era l’entità che si formava per reazione di due o più atomi di elementi diversi; nella prima metà del XIX però lo sforzo maggiore degli studiosi fu quello di individuare i pesi atomici degli elementi e le formule dei vari composti. Per quanto riguarda il peso atomico si trattava di trovare un metodo per confrontare la massa di un elevato numero di particelle di un elemento con con lo stesso numero di particelle di un altro elemento. Il problema quindi dei pesi atomici venne risolto grazie agli studi sui rapporti ponderali tra i volumi delle sostanze gassose da Gay-Lussac che, misurando in condizioni di temperatura e pressioni costanti i volumi di gas che reagivano tra oro, trovò che le relazioni tra questi volumi erano analoghe ai rapporti di combinazione tra le sostanze stesse. L’interpretazione corretta degli studi di Gay-Lussac la diede Avogadro nel 1811 quando egli stesso ipotizzò che volumi uguali di gas, misurati nelle stesse condizioni di pressione e temperatura, contengono lo stesso numero di particelle. Questa ipotesi, però, non venne accettata fino al 1858 quando Cannizzaro, avvalendosi della distinzione tra molecole e atomi, riuscì a risolvere la questione sui pesi atomici degli elementi. Quello che fece fu prendere in esame un certo numero di composti puri gassosi e determinare le masse di un determinato volume di ciascuno di questi gas alle stesse condizioni di temperatura e pressione. Dato che secondo l’ipotesi di Avogadro nello stesso volume era contenuto lo stesso numero di molecole, il rapporto tra le masse dei volumi delle diverse sostanze doveva essere uguale al rapporto tra i pesi molecolari. Da questi studi Cannizzaro esprime la sua legge degli atomi: le masse di uno stesso elemento, contenute nelle molecole di sostanze diverse, sono tutte multiple di una stessa quantità, la quale deve ritenersi il peso atomico dell’elemento. I valori dei pesi atomici relativi dipendono dal valore arbitrario attribuito all’elemento scelto come riferimento. Dopo varie ipotesi nel 1961 si è convenuto usare come elemento di riferimento 1/12 della massa dell’isotopo del carbonio 12 e a tale unità è stato attribuito il nome di unità di massa atomica o uma. Il peso molecolare è la somma dei pesi atomici di tutti gli elementi che costituiscono la molecola. Il peso equivalente, invece, è la quantità in grammi di quell’elemento che reagisce con 1 grammo di idrogeno. Un concetto fondamentale è quello di mole, ovvero la quantità in grammi di una determinata sostanza che contiene un numero di particelle uguali al numero degli atomi presenti in 12,0000 g di carbonio 12. Questo numero è nominato Numero di Avogadro ed è uguale a 6,02 x 1023. La struttura dell’atomo Le particelle principali che costituiscono l’atomo sono l’elettrone, il protone e il neutrone. Le conoscenze più importanti sulla natura e il comportamento degli elettroni provengono dagli studi sulla scarica dei gas. Il primo fu Thomson che utilizzò un tubo a raggi catodici, un dispositivo che produce un fascio di particelle cariche (raggi catodici) quando viene applicata una tensione elevata tra due elettrodi in un tubo di vetro parzialmente evacuato. Thomson attraverso questo esperimento scoprì che il rapporto carica/massa delle particelle nei raggi catodici era molto più alto di quello degli ioni conosciuti, suggerendo che queste particelle erano molto più leggere degli atomi. Concluse che queste particelle, che chiamò "corpuscoli" (oggi noti come elettroni), erano componenti fondamentali di tutti gli atomi. Successivamente Millikan con un altro esperimento riuscì a misurare la carica dell’elettrone che risultò essere pari a -1,6 x 10-19 coulomb e la massa pari a 9,1 x 10-31 kg. Dopo la scoperta dell’elettrone Thomson propose un modello per interpretare la costituzione dell’atomo chiamato modello a panettone ideato nel 1904. Thomson immaginava l’atomo come una sfera di carica positiva diffusa, all’interno della quale erano immersi gli elettroni, simili a delle “uvette” all’interno del “panettone”. La carica positiva era distribuita uniformemente in tutto l’atomo mentre gli elettroni erano distribuiti in modo da bilanciare la carica positiva. Questo modello era però limitato e lo dimostrò Rutherford con il suo modello di atomo nel 1911; questo dimostrò che la carica positiva dell’atomo era concentrata in un piccolo nucleo centrale, piuttosto che diffusa in tutto l’atomo. Oggi sappiamo che sia protoni che neutroni si trovano all’interno del nucleo centrale, dove è anche contenuta tutta la massa dell’atomo; all’esterno del nucleo, invece, ci sono gli elettroni che si trovano a distanza di 10000 volte più grande del raggio del nucleo. Il numero di protoni nel nucleo è chiamato numero atomico ed è indicato con la lettera Z. Alla somma del numero di protoni e dei neutroni è dato il nome di numero di massa. Il comportamento chimico di un elemento, invece, è dato dal numero atomico, ovvero dal numero di elettroni e protoni. Nel 1913 si ebbe un’importante svolta nell’ambito chimico dovuto a Bohr e al suo modello atomico. Questo modello è stato sviluppato per spiegare le osservazioni sperimentali che non potevano essere spiegate dal modello di Rutherford. In questo modello gli elettroni orbitano attorno al nucleo in orbite stazionarie con energie definite. Questi livelli energetici sono quantizzati, il che significa che possono occupare solo determinate orbite con energie specifiche. Gli elettroni, inoltre, possono saltare da un livello energetico all’altro assorbendo o emettendo quanti di energia (fotoni). Gli elettroni nelle orbite stazionarie, infine, non emettono radiazione elettromagnetica, quindi non perdono energia e non cadono nel nucleo. Questo risolve il problema del modello di Rutherford. Il modello di Schrodinger, invece, è basato sulla meccanica quantistica e rappresenta un’evoluzione significativa rispetto ai modelli precedenti. La base del modello è l’equazione di Schroedinger, un’equazione differenziale che descrive come cambia la funzione d’onda di un sistema quantistico nel tempo. La funzione d’onda contiene tutte le informazioni sul sistema e permette di calcolare la probabilità di trovare un elettrone in una determinata posizione. Nel modello di Schrodinger gli elettroni non seguono orbite definite come nel modello di Bohr ma si trovano in regioni di spazio chiamate orbitali; questi sono descritti da una funzione d’onda e rappresentano le zone in cui è probabile trovare un elettrone e sono caratterizzati da numeri quantici che descrivono le proprietà degli elettroni: → numero quantico principale (n): indica il livello energetico dell’orbitale → numero quantico angolare (l): indica la forma dell’orbitale → numero quantico magnetico (m): indica l’orientazione dell’orbitale nello spazio → numero quantico di spin (ms): descrive il momento angolare intrinseco nell’elettrone Di orbitali ne esistono principalmente di quattro tipi: → orbitali s: hanno una forma sferica e possono contenere massimo 2 elettroni. Ogni livello energetico principale ha un orbitale s → orbitali p: hanno una forma a doppio lobo e possono contenere un massimo di 6 elettroni (due per ciascuno dei tre orbitali p). Gli orbitali p compaiono a partire dal secondo livello energetico (n=2) → orbitali d: hanno forme più complesse e possono contenere un massimo di 10 elettroni (due per ciascuno dei cinque orbitali d). Inoltre compaiono a partire dal terzo livello energetico (n=3) → orbitali f: hanno forme più complesse e possono contenere un massimo di 14 elettroni (due per ciascuno dei sette orbitali f). Questi, infine, compaiono a partire dal quarto livello energetico (n=4) Il sistema periodico Oggi gli elementi vengono ordinati in quella che viene chiamata tavola periodica. Tutto però iniziò da Dobereiner che sentì l’impulso di ordinare gli elementi allora conosciuti in base alle loro caratteristiche simili; fu così che li divise in parecchi gruppi di tre elementi definite triadi. Successivamente fu il turno di Newlands che nel 1863 espose e divise gli elementi secondo la legge delle ottave e li dispose in base al numero crescente di peso atomico. Alcuni anni dopo Mendeleev e Meyer elaborarono un sistema di classificazione che si basava sulle relazioni tra gli elementi e i rispettivi pesi atomici. Fu Mendeleev a “creare” la tavola periodica allora più completa, inserendo gli elementi allora conosciuti e lasciando spazi per quelli ancora sconosciuti. La tavola periodica ad oggi conosciuta è divisa in 7 file orizzontali chiamate periodi e 18 colonne verticali chiamate gruppi. Le proprietà chimiche e fisiche degli elementi sono determinate dalla loro configurazione elettronica e sono quindi funzione periodica del numero atomico. Tra le proprietà principali troviamo: → dimensioni atomiche: trovare le dimensioni atomiche di un atomo non è un problema di facile risoluzione, questo perché la nube elettronica di un atomo non ha dei contorni esattamente definiti. Inoltre il raggio di un atomo può dipendere dal numero e dal tipo di atomi con cui è legato in un determinato atomo. I raggi atomici dei vari elementi possono essere calcolati misurando sperimentalmente le distanze tra i nuclei di due atomi uguali nei solidi o nelle molecole gassose. I raggi atomici, in ogni caso, per gli elementi dei gruppi principali aumentano procedendo dall’alto verso il basso lungo un gruppo e diminuiscono se ci si sposta da sinistra verso destra lungo un periodo. La perdita o l’acquisto di un elettrone da parte di un atomo lo trasforma in una particella carica positivamente o negativamente che prende il nome di ione (catione se positivo, anione se negativo). → energia di ionizzazione: ovvero l’energia necessaria per allontanare a distanza infinita un elettrone da un atomo isolato che si trova allo stato gassoso trasformandolo in catione. Inoltre l’energia richiesta per allontanare il primo elettrone è chiamata energia di prima ionizzazione, quella per allontanare il secondo elettrone è chiamata energia di seconda ionizzazione e così via. Gli elementi che presentano il più alto valore di energia di ionizzazione sono i gas nobili, quelli con il valore più basso, invece, sono i metalli alcalini. Procedendo dall’alto verso il basso si nota una diminuzione dell’energia di ionizzazione; questo è dovuto all’aumento del numero quantico principale, che corrisponde ad una maggiore distanza dell’elettrone dal nucleo. → affinità elettronica: ovvero la tendenza ad assumere elettroni. Questa aumenta i suoi valori da sinistra verso destra lungo un periodo e dall’alto verso il basso lungo un gruppo. Il legame chimico Se una sostanza è costituita da atomi tutti uguali siamo in presenza di un elemento, in caso contrario parliamo di un composto. Gli atomi degli elementi tendono a raggrupparsi in gruppi chiamati molecole. definiamo , innanzitutto, l’energia di legame come l’energia necessaria per rompere il legame formando i due atomi neutri A e B secondo la reazione: AB → A + B La formazione di un legame chimico può essere giustificata ipotizzando il raggiungimento di una configurazione elettronica esterna simile a quella dei gas inerti. Questa configurazione può essere ottenuta tramite trasferimento o compartecipazione di elettroni tra due o più atomi. Nel primo caso si ha la formazione di un legame ionico, nel secondo caso di un legame covalente. Il legame metallico, invece, si ha quando gli atomi possiedono pochi elettroni nel livello energetico più esterno. Il legame ionico è un tipo di legame che si realizza per trasferimento di uno o più elettroni da un atomo all’altro. Tra questi ioni si stabiliscono delle forti interazioni di natura elettrostatica che portano alla formazione di aggregati solidi di struttura ordinata. La formazione di un legame ionico avviene solo quando il valore dell’energia reticolare (ovvero l’energia rilasciata quando si forma un solido ionico a partire dai suoi ioni isolati allo stato gassoso) è maggiore dell’energia richiesta per formare ioni che costituiranno il reticolo cristallino. Il numero di elettroni che un atomo cede o acquista nella formazione di un composto prende il nome di valenza ionica o elettrovalenza dell’elemento. Langmuir nel 1919 introdusse il termine di legame covalente per spiegare la messa in comune di una o più coppie di elettroni. Questo legame può esistere sia tra atomi uguali (legame covalente omeopolare) ma anche tra atomi diversi (legame covalente eteropolare). Il primo viene anche chiamato legame covalente puro. Quando due atomi condividono una sola coppia di elettroni si dice tra questi esiste un legame singolo o semplice; se condividono due coppie di elettroni viene chiamato legame doppio, se ne condividono tre viene chiamato legame triplo. Nella maggior parte delle sostanze non ioniche sono però presenti atomi diversi legati tra di loro da legami covalenti eteropolari. La lunghezza di legame rappresenta la distanza tra i nuclei dei due atomi che si legano; come regola generale per la stessa coppia di atomi, il legame triplo è più corto di quello doppio, e questo più corto del legame singolo. Le molecole nelle quali si ha una distribuzione asimmetrica degli elettroni di legame sono chiamate molecole polari. Le due cariche di segno contrario costituiscono un dipolo elettrico e il legame tra i due atomi è chiamato legame polare. Si definisce elettronegatività la tendenza di un atomo in una molecola ad attrarre verso di sé gli elettroni di legame; questa dipende dalla configurazione elettronica dell’elemento considerato e dalle sue dimensioni atomiche. Maggiore è la densità elettronica più alta risulta la sua elettronegatività. Un elemento può esistere in due o più forme fisiche che differiscono per la struttura molecolare o per il modo in cui sono legati gli atomi nel reticolo cristallino; questo fenomeno viene chiamato allotropia. Quando si verifica questo fenomeno si dice che le formule equivalenti o formule limiti sono in risonanza tra di loro e la molecola è un ibrido di risonanza. Un legame covalente si forma per condivisione di un elettrone di un atomo con l’elettrone di un secondo atomo; il legame dativo, invece, si forma dalla condivisione di una coppia di elettroni che provengono da uno solo dei due atomi. La teoria del legame di valenza descrive la formazione di molecole in un modo che corrisponde alla rappresentazione chimica convenzionale. Secondo questa teoria il legame covalente tra due atomi di idrogeno consiste nella sovrapposizione dei due orbitali atomici occupati da elettroni singoli aventi spin antiparalleli. Il processo di ibridizzazione consiste nella combinazione lineare delle funzioni d’onda relative ai 4 orbitali atomici per ottenere le funzioni d’onda di 4 orbitali ibridi aventi tutti la stessa forma e la stessa energia. L’energia necessaria per portare un atomo dallo stato eccitato allo stato ibridizzato è chiamata energia di ibridizzazione. Gli orbitali sp3 vengono chiamati anche ibridi tetraedrici, gli orbitali ibridi sp2 vengono chiamati invece ibridi trigonali e, infine, gli orbitali ibridi sp vengono chiamati orbitali digonali. La disposizione spaziale dei vari legami può essere prevista dalla teoria di VSEPR. In base a questa teoria le coppie elettroniche attorno ad un atomo centrale si dispongono sempre nello stesso modo, indipendentemente dal fatto che siano costituite da elettroni di legame o elettroni solitari. La struttura di una molecola è determinata dall’esigenza di rendere minime e repulsioni elettrostatiche tra le nuvole di carica delle coppie elettroniche condivise e non condivise. I metalli possiedono molte proprietà fisiche che sono completamente diverse da quelle di altre sostanze solide. In particolare essi presentano un’elevata conducibilità elettrica e termica, sono opachi e hanno una lucentezza caratteristica. Queste proprietà possono essere spiegate da un tipo particolare di legame: il legame metallico. Le proprietà elettriche e ottiche dei metalli possono essere interpretate ipotizzando la presenza di elettroni mobili all’interno del metallo. Un modello semplice è quello di un reticolo di ioni positivi immersi in un mare di elettroni che sono liberi di muoversi in tutto il cristallo. Questa nube negativa circonda e trattiene gli ioni positivi realizzando il legame tra gli atomi. Gli elettroni mobili sono quelli che occupano gli orbitali di valenza. L’elevata conducibilità termica ed elettrica è dovuta quindi a questi elettroni che possono migrare facilmente da una parte all’altra del solito sotto l’azione di un campo elettrico o di un gradiente di temperatura. I metalli, inoltre, sono opachi perché gli elettroni “liberi” assorbono le radiazioni visibili incidenti ed hanno un alto potere riflettente. Oltre a questi legami “principali” troviamo anche dei legami più deboli; tra questi il legame a idrogeno, ovvero un tipo di interazione intermolecolare che si verifica tra una molecola contenente un atomo di idrogeno legati a un atomo altamente elettronegativo e un’altra molecola contenente un atomo elettronegativo con una coppia di elettroni non condivisa. Questo legame lo troviamo, ad esempio, nell’acqua (H2O) o nel DNA. Un altro legame debole è rappresentato dalle forze di Van der Waals, fondamentali per comprendere proprietà come i punti di ebollizione e fusione. Esistono tre tipi principali di forze di Van der Waals: forze di dispersione (o forze di London) e sono causate da fluttuazioni temporanee nella distribuzione degli elettroni all'interno delle molecole, che creano dipoli istantanei. Questi dipoli temporanei inducono dipoli in molecole vicine, generando un'attrazione tra di esse; successivamente abbiamo le forze dipolo-dipolo e si verificano tra molecole polari, cioè molecole con un dipolo permanente. Le molecole polari hanno una distribuzione asimmetrica delle cariche elettriche, con una parziale carica positiva e una parziale carica negativa. Le forze dipolo-dipolo sono l'attrazione elettrostatica tra il dipolo positivo di una molecola e il dipolo negativo di un'altra molecola. Infine abbiamo le forze dipolo indotto- dipolo che si verificano quando una molecola polare induce un dipolo in una molecola non polare vicina. La molecola polare distorce la distribuzione degli elettroni nella molecola non polare, creando un dipolo indotto. L'attrazione tra il dipolo permanente della molecola polare e il dipolo indotto della molecola non polare genera queste forze. Lo stato gassoso Lo stato gassoso è caratterizzato dal volume, dalla pressione e dalla temperatura. Boyle mise sperimentalmente in evidenza la relazione tra volume e pressione quando la temperatura è mantenuta costante, stabilendo che queste due grandezze sono inversamente proporzionali. La legge di Boyle ha questa espressione: PiVi = PfVf Notiamo poi altre due leggi: la prima legge di Gay-Lussac che dice che il volume di una massa di qualsiasi gas mantenuto a pressione costante, aumenta (o diminuisce) di 1/273,15 del suo valore iniziale Vi in conseguenza dell’aumento (o della diminuizione) di un grado centigrado di temperatura. La seconda legge, analoga alla prima, esprime lo stesso concetto non più sulla base del volume ma sulla base della pressione. La pressione parziale di un componente di una miscela gassosa è quella che questo eserciterebbe se si trovasse, in assenza degli altri componenti, ad occupare, alla stessa temperatura, l’intero volume del recipiente in cui la miscela è contenuta. Un gas si dice ideale quando le sue principali proprietà sono descritte soddisfacentemente dalle leggi dei gas; viene detto un gas reale, invece, quando le sue proprietà non possono essere descritte con sufficiente approssimazione da queste leggi. Per verificare l’idealità di un gas bisogna verificare il fattore di compressibilità o comprimibilità. È evidente comunque che il comportamento dei gas si avvicina al suo modello ideale ad alte temperature e basse pressioni. Quando un gas si trova a basse temperature e alte pressioni le forze intermolecolari non possono essere trascurate. In queste condizioni è probabile che avvenga un cambiamento chiamato liquefazione. Ciascun sistema gassoso si comporta in modo particolare trasformandosi in liquido; esiste una temperatura variabile da gas a gas chiamata temperatura critica sopra il quale un gas non può essere liquefatto. Questo lo si evince dal diagramma di Andrews. Termodinamica Questa si interessa principalmente delle proprietà macroscopiche della materia come la temperatura, il volume, la pressione e la composizione chimica. La termodinamica si basa su tre leggi principali che racchiudono le osservazioni sperimentali del comportamento di due grandezze: entalpia e entropia. Chiamiamo sistema quella parte limitata dell’universo della quale vogliamo studiare le proprietà e intorno del sistema tutto quello che lo circonda. Il sistema può essere isolato, chiuso o aperto. L’insieme delle proprietà che caratterizzano un sistema termodinamico ne definisce lo stato; queste proprietà vengono infatti chiamate variabili di stato e si distinguono in grandezze estensive (come il volume, la massa… e dipendono dalla quantità di massa) e grandezze intensive (come la temperatura, la pressione… e non dipendono dalla quantità di massa). Il primo principio della termodinamica riguarda la relazione che esiste tra energia interna, lavoro e calore. L’energia interna, in particolare, è data dalla somma di energie come quella cinetica, quella potenziale, quella di legame e quella nucleare. Il lavoro, invece, viene definito il prodotto della forza per lo spostamento; infine, il calore è una forma particolare di energia e si osserva per trasformazione di altre forme di energia. Il primo principio, in ogni caso, dice: la variazione di energia interna ΔE è uguale alla differenza tra calore Q e il lavoro W scambiato con esso intorno. Al primo principio è legato anche questo enunciato: il calore assorbito, o ceduto, in una trasformazione che avviene a volume costante è uguale alla variazione di energia interna del sistema. Questo, quando si trattano processi a pressione costante, si conviene usare il concetto di entalpia: il calore assorbito, o ceduto, in una trasformazione che avviene a pressione costante è uguale alla variazione di entalpia del sistema. Una cosa fondamentale all’interno della termochimica è la definizione di stato standard, ovvero quei valori standard di pressione (1 atm) e temperatura (25’C). La termochimica si basa sulla legge di Hess che enuncia “in una reazione chimica l’effetto termico a pressione costante è indipendente dagli stati intermedi attraverso i quali si evolve il sistema e dipende solo dal suo stato finale e iniziale”; questo significa che l’effetto termico, o la variazione di entalpia, di una reazione che può essere scomposta in più reazioni parziali, è pari alla somma degli effetti termici dei singoli stadi. Il primo principio, però, non permette di sapere in che direzione si evolvono i processi (reversibili o irreversibili) fisico-chimici; questi sono spesso regolati da due fattori: il primo è la tendenza a raggiungere lo stato di minima energia, il secondo è la tendenza ad assumere lo stato massimo del grado di disordine (questo dipende dalla temperatura e dallo stato di aggregazione delle specie presenti). Esistono due tipi di processi, come prima accennato: processi reversibili dove la trasformazione procede secondo un susseguirsi di infiniti stati di equilibrio. Per fare ciò le funzioni di stato del sistema devono differire solo di una quantità infinitesima. Successivamente ci sono i processi irreversibili dove l’unica differenza con quelli prima citati è che la reversibilità può avvenire in qualsiasi momento e non all’equilibrio. In un processo reversibile la quantità di lavoro compiuto dal sistema è maggiore rispetto a quello compiuto in un processo irreversibile; questo concetto è analogo quando parliamo del calore Q scambiato. Il secondo principio della termodinamica enuncia che “non è possibile che il calore fluisca spontaneamente da un corpo più freddo a uno più caldo”; questo enunciato introduce il concetto di entropia; la sua variazione può essere calcolata come il rapporto tra il calore reversibile (Qrev) e la temperatura T. Il terzo principio della termodinamica può essere enunciato come segue: in un processo reversibile l’entropia dell’universo resta costante, mentre in un processo irreversibile aumenta. Conoscendo la variazione di entropia di un sistema isolato, a causa di una trasformazione chimica o fisica da uno stato 1 a uno stato 2, è possibile stabilire la direzione verso la quale il sistema evolverà. L’energia libera è una funzione di stato che permette di ricavare il criterio di spontaneità di una reazione; questa viene nominata con G da J.W.Gibbs e lega insieme entalpia ed entropia (G = H - TS). Affinché una reazione avvenga c’è la necessità che le particelle si urtano; quando una reazione avviene con più di tre particelle, allora le fasi della reazione vengono dette fasi elementari, che si svolgono a velocità diverse e gli stadi cosiddetti “lenti” determinano la velocità di reazione. Berzelius nel 1836 coniò il termine di catalisi per indicare il fenomeno di aumento di velocità di formazione dei prodotti ottenuti in una reazione chimica in presenza di un catalizzatore; successivamente fu Ostwald nel 1895 a spiegare che la presenza di un catalizzatore ha l’effetto di aumentare la velocità di reazione. Lo stato solido Quando una sostanza si trova allo stato solido, questa presenta forma e volume propri. L’energia cinetica delle particelle di un solido è solo di tipo vibrazionale, cioè sono possibili solo vibrazioni rispetto ad una posizione di equilibrio dotata di minima energia. Lo stato solido e quello liquido vengono detti condensati; le loro proprietà possono essere spiegate però solo caso per caso tenendo conto dei legami di varia forza esistenti tra le particelle e delle interazioni. Di solidi ne esistono principalmente di due tipi: solidi cristallini, chiamati così in quanto sono caratterizzati dal possedere un reticolo cristallino, e solidi amorfi, dove invece le particelle sono disposte in modo casuale. Questi differenziano anche per le proprietà: i solidi cristallini infatti hanno un punto definito di fusione (o temperatura di fusione), i solidi amorfi, invece, hanno un ampio intervallo dove possono fondersi e viene chiamata temperatura di rammollimento. È importante notare come alcune proprietà fisiche dei solidi sono direzionali, ovvero che cambiano a seconda della direzione considerata. Questa caratteristica viene chiamata anisotropia. Esistono 7 tipi di celle elementari alle quali corrispondono 7 sistemi cristallini: → cubico o monometrico (Cu) → tetragonale (SnO2) → rombico (zolfo rombico) → trigonale o romboedrico (As, Bi, calcite) → esagonale (grafite, quarzo) → monoclino (KClO3) → triclino (CuSO4, H2O, K2Cr2O7) Il concetto di allotropia è quella proprietà per cui un elemento può esistere in diverse forme cristalline che hanno proprietà chimiche e fisiche diverse; questa si distingue in monotropia quando soltanto una di tutte le forme cristalline risulta stabile per qualsiasi valore di pressione e temperatura, ed enantiotropia quando esistono diverse forme cristalline stabili e ciascuna di esse ha un definito campo di esistenza. Il polimorfismo, invece, consiste nella possibilità da parte dei solidi di cristallizzare in forme differenti che presentano proprietà diverse a seconda delle condizioni in cui si effettua la cristallizzazione. L’isomorfismo, invece, è un fenomeno opposto al polimorfismo, esso si ha quando sostanze diverse possono esistere sotto forma di cristalli simili. → solidi ionici: sono caratterizzati da un reticolo in cui le particelle che si trovano nei nodi o siti reticolari sono cationi e anioni che si attraggono con forze non direzionali di natura elettrostatica tipiche del legame ionico. (esempi lo sono NaCL, ZnS, CaF2) → solidi covalenti: possiedono un reticolo cristallino dove i siti reticolari sono occupati da atomi che interagiscono tra loro tramite legami covalenti; l’energia reticolare di questi solidi è molto elevata ed infatti corrisponde all’energia necessaria per spezzare legami covalenti forti. (esempi lo sono il diamante, la grafite, biossido di silicio SiO2). → solidi molecolari: sono caratterizzati da un reticolo in cui i siti reticolari sono occupati da molecole. Le forze di coesione in un cristallo molecolare sono dovute ad interazioni deboli: dipolo-dipolo istantaneo, dipolo-dipolo permanente, legami a idrogeno. (esempi lo sono il ghiaccio e la CO2) → solidi metallici: sono caratterizzati da un reticolo in cui i punti reticolari sono occupati da ioni del corrispondente metallo legati mediante il legame metallico, che non è direzionale. I tipi di struttura più comuni in questi solidi sono quelli cubici e esagonali. Questi inoltre presentano un aspetto brillante e lucente, un’alta conducibilità elettrica e termica e sono malleabili e duttili. I solidi amorfi, infine, presentano proprietà isotrope, in quanto non vi sono direzioni preferenziali nella disposizione delle particelle. I liquidi Sono dotati di volume proprio ma si presentano privi di forma, assumendo quindi la forma del recipiente che li contiene. Molte proprietà dei liquidi sono intermedie tra quelle dei solidi e quelle dei gas. L’evaporazione rappresenta il passaggio dallo stato liquido allo stato vaporoso. Se il liquido si trova in un recipiente chiuso si osserverà che parte di esso passerà alla fase vapore e dopo un certo tempo si stabilirà una situazione di equilibrio dinamico tra il numero di particelle che evapora e il numero di particelle che, invece, si condensa. La pressione che in condizione di equilibrio le molecole di vapore esercitano sul liquido è chiamata tensione o pressione di vapore. Lo stato di aggregazione di una sostanza dipende dai valori di temperatura e pressione considerati. Gli stati di aggregazione sono determinati dal tipo di forze esistenti tra le particelle e si possono modificare queste forze facendo avvenire un cambiamento o passaggio di stato. Nel caso di cambiamenti di stato che avvengono in luoghi chiusi le informazioni sperimentali sono riportate nei cosiddetti diagrammi di stato. Si definisce, infine, fase quella parte di un sistema, separabile con mezzi fisici, che è fisicamente e chimicamente omogenea in tutte le sue parti. Sistemi liquidi a più componenti Un sistema a due o più componenti, detto anche miscela o miscuglio, è una porzione di materia che contiene due o più sostanze. Un sistema può essere omogeneo se le proprietà fisico-chimiche sono identiche in ogni suo punto, o eterogeneo quando invece le proprietà fisico-chimiche sono diverse. In una soluzione la quantità rimasta indisciolta viene chiamata corpo di fondo, quella sovrastante, invece, viene chiamata soluzione satura. La solubilità viene definita come la quantità massima di un soluto che può essere sciolta in una determinata quantità di un solvente a una certa temperatura. La concentrazione, è una grandezza intensiva indipendente quindi dal volume o dalla massa considerata. In una soluzione il componente presente in maggiore quantità viene chiamato solvente, l’altro, invece, soluto. Un altro modo per esprimere la concentrazione, oltre alla molarità, è quello attraverso il peso equivalente, calcolando la cosiddetta normalità; ci sono inoltre degli spunti interessanti sul peso equivalente: → il peso equivalente di un acido è quella quantità in grammi che contiene o che è capace di donare una mole di ioni H+ → il peso equivalente di una base è quella quantità in grammi che può accettare una mole di ioni H+ → il peso equivalente di un sale è quella quantità in grammi che contiene una mole di carica positiva o negativa e si ottiene dividendo la massa della mole del sale per il numero intero b che rappresenta la carica totale in valore assoluto di cationi (o anioni) che si liberano per dissociazione del sale in acqua → per una sostanza ossidante o riducente il peso equivalente è uguale alla massa totale della mole divisa per un numero intero c che rappresenta il numero di elettroni che entrano in gioco nella corrispondente semireazione di riduzione o di ossidazione a cui la sostanza partecipa. La formazione delle soluzioni dipende dalla miscibilità delle componenti e se esse non sono miscibili o lo sono soltanto parzialmente si possono ottenere dei sistemi eterogenei. Al processo di formazione delle soluzioni è spesso accompagnata una variazione di entalpia che viene chiamata entalpia di soluzione: nel caso di soluzioni reali questa può assumere valori positivi o negativi poiché il processo può essere endotermico (ΔHsol maggiore di zero) o esotermico (ΔHsol minore di zero); nel caso in cui ΔHsol=0 ci troviamo di fronte a una soluzione ideale. Il processo di formazione di una soluzione reale può essere suddiviso in 3 stadi: → le particelle di soluto devono separarsi le une dalle altre in modo da poter interagire successivamente con le particelle di solvente → analoghe considerazioni vengono fatte per le particelle di solvente → a questo punto bisogna considerare le interazioni tra le particelle “separate” di soluto e di solvente. Gli acquoioni sono delle specie in cui gli ioni sono legati ad un certo numero di molecole di acqua dette di solvatazione. Nella formazione di una soluzione la forza “guida” è la variazione di energia libera ΔG che risulta sempre essere minore di zero. Oltre alla variazione di entalpia, dobbiamo anche considerare una variazione di entropia ΔS maggiore di zero. La presenza di un soluto è responsabile dell’abbassamento della tensione di vapore del solvente; se si considera una soluzione ideale formata da un solvente A e un soluto B si ha la cosiddetta legge di Raoult, ovvero: p = p°A x XA + p°B x XB Dove p rappresenta la pressione di vapore della soluzione, p°A e p°B rappresentano le tensioni di vapore del solvente e del soluto e, infine Xa e Xb rappresentano le loro frazioni molari. In seguito a calcoli viene fuori che ΔP/p°A prende il nome di abbassamento relativo della tensione di vapore della soluzione; Δtcr e Δteb sono detti rispettivamente abbassamento crioscopico e innalzamento ebullioscopico, dove Δtcr = Kcr x m e Δteb = Keb x m. Le variazioni di temperatura che esprimono l'abbassamento crioscopico e l’innalzamento ebullioscopico, insieme all’abbassamento della tensione di vapore cui esse sono legate, sono proprietà particolari delle soluzioni diluite di soluti non volatili chiamate proprietà colligative. Queste dipendono solo dal numero di particelle del soluto e non dalle caratteristiche chimiche di quest’ultimo. Ad esse bisogna aggiungere la pressione osmotica che si evidenzia quando una soluzione è messa a contatto con un solvente puro attraverso una membrana semipermeabile. Il fenomeno di passaggio dell’acqua attraverso questa membrana è chiamato osmosi; questo fenomeno è un equilibrio dinamico, raggiunto il quale, il numero di molecole d’acqua che attraversano la membrana semipermeabile nei due sensi risulta uguale nello stesso intervallo di tempo. Soluzioni che hanno uguale pressione osmotica sono dette isotoniche. Quanto detto finora vale in maniera rigorosa solo per le soluzioni non elettrolitiche. Esistono due tipi di elettroliti: elettroliti forti e deboli. Ciò che li distingue è che i primi esistono solo sotto forma di ioni poiché la loro dissociazione è completa, i secondi producono ioni anche se una frazione delle molecole da cui originano rimane in soluzione dissociata. Esiste una grandezza che permette di distinguere gli elettroliti forti, deboli e i non elettroliti: questa è il grado di dissociazione; attraverso questo e il binomio di van’t Hoff è possibile calcolare le moli presenti nelle soluzioni di elettroliti. La legge di Raoult ci indica che la tensione di vapore di una soluzione, p, rappresenta anche la pressione totale dei due componenti allo stato gassoso, uguale alla somma delle loro pressioni parziali. Consideriamo una miscela di due liquidi A e B che viene riscaldata. Dalla fase liquida si formerà un vapore che solitamente ha una composizione diversa da quella della fase liquida. Nel caso in cui il vapore che distilla ha la stessa composizione della soluzione da cui proviene, questa prende il nome di soluzione azeotropica o azeotropo. Pertanto se si distilla una soluzione con composizione azeotropica essa distilla inalterata, cioè il distillato (vapore) ha la stessa composizione del residuo liquido (comportamento simile della miscela eutettica ovvero un solido costituito da un’intima mescolanza di cristalli di due o più specie chimiche con una composizione uguale a quella della soluzione da cui si separa). I sistemi a più componenti possono in generale contenere più fasi in equilibrio. Per descrivere la regola delle fasi bisogna definire il concetto di componente indipendente del sistema: ovvero se in un sistema costituito da più fasi è presente un solo elemento o un solo composto, questo costituisce il solo componente del sistema ed è quindi la componente indipendente. Per componenti indipendenti si intende, inoltre, il numero minimo di specie chimiche che è necessario fissare per descrivere la composizione di ciascuna fase del sistema. La regola delle fasi mette in relazione il numero di gradi di libertà o varianza v, con il numero di componenti indipendenti c ed il numero delle fasi f. La varianza di un sistema all’equilibrio è uguale alla differenza tra il numero dei composti indipendenti aumentato di due e il numero delle fasi (v = c + 2 - f). Nel caso di liquidi si può avere miscibilità completa, parziale o immiscibilità. Le differenze di miscibilità tra le varie coppie di liquidi dipendono dalle differenze tra le rispettive forze di attrazione intermolecolari. Generalmente la solubilità reciproca di due sostanze cresce con la temperatura e, al di sopra di un certo valore, la miscibilità parziale dei due componenti diventa completa. La temperatura che corrisponde quindi al massimo della curva è chiamata temperatura critica della soluzione e la regione compresa al di sotto della curva è chiamata lacuna di miscibilità. Le curve di raffreddamento esprimono nelle ascisse la quantità di calore sottratta o il tempo di raffreddamento mentre in ordinata la temperatura. Si osserva che ad una certa temperatura comincia a separarsi ghiaccio solido; questa separazione provoca una graduale variazione della composizione della soluzione fino al raggiungimento di una composizione eutettica che è specifica per ogni tipo di soluzione. Quando la concentrazione della soluzione sarà diventata pari alla concentrazione eutettica, la temperatura avrà raggiunto un particolare valore e un’altra sottrazione di calore porterà alla formazione e separazione dalla soluzione di un sistema solido eterogeneo formato da ghiaccio e soluto. L’eutettico, però, non è costituito da un’unica fase, ma rappresenta un sistema bifasico formato da una miscela di cristalli di ghiaccio e di soluto. Mettendo in un diagramma l’eutettico possiamo notare 4 regioni differenti e, al centro di questo, il cosiddetto punto eutettico, ovvero un punto triplo dove esistono in equilibrio 3 fasi: due solide (ghiaccio e soluto) e una liquida (la soluzione). Equilibri chimici Un sistema fisico può trovarsi in quello che viene definito equilibrio fisico; in un equilibrio liquido-vapore l’equilibrio può essere raggiunto sia a partire dalla fase liquida che da quella vapore, viene definita una grandezza chiamata tensione di vapore che si mantiene costante se la temperatura non cambia e lo stato di equilibrio è dinamico ed è regolato qualitativamente dal principio dell’equilibrio mobile o di le Chatelier. Molte di queste caratteristiche le ritroviamo anche nell’equilibrio chimico. Anche nell’equilibrio chimico, così come nell’equilibrio fisico, esiste un parametro chiamato costante di equilibrio; questa può essere calcolata attraverso la legge di azione di massa. La costante di equilibrio risulta essere uguale al rapporto tra le costante di velocità diretta e la costante di velocità inversa: ovvero il rapporto tra le concentrazioni dei prodotti e quello dei reagenti. Attraverso la legge di van’t Hoff possiamo ricavare la variazione di entalpia standard o possiamo fare utili previsioni, come ad esempio capire se il processo è endotermico o esotermico. Infine possiamo dire che in una reazione endotermica sarà favorita ad un aumento di temperatura, mentre una reazione esotermica sarà favorita da una diminuzione della temperatura. La conoscenza del valore numerico della costante d’equilibrio può fornire informazioni sulle quantità dei reagenti e di prodotti all'equilibrio. Data una reazione di equilibrio ad una certa temperatura, è possibile spostare l’equilibrio in un senso o in un altro senza che il valore della costante vari, modificando parametri come il volume o la pressione, aggiungendo o sottraendo qualche componente. Se si suppone di aumentare il volume di un recipiente, l’applicazione del principio di equilibrio mobile porta alla conclusione qualitativa che, mantenendo la temperatura costante, la reazione si sposta verso i prodotti. La formazione dei prodotti, infatti, cerca di compensare la riduzione della pressione dovuta all’aumento di volume. Questo perché l’aumento del numero di moli provoca un aumento di pressione. Quindi il sistema all’equilibrio reagisce alla sollecitazione esterna cercando di annullare o minimizzare l’effetto di quest’ultima. Ad un aumento del V deve corrispondere, quindi, un aumento del termine nprodotti/nreagenti perché la Kc rimanga costante. La reazione, infine, si sposterà verso i prodotti. Per le reazioni dove Δn = 0 una variazione del volume non influenza l’equilibrio chimico. Analogamente anche nel caso della variazione di pressione, se il numero di moli dei reagenti è uguale a quello dei prodotti, l’equilibrio chimico non varia. Una variazione del numero di moli, invece, produce uno spostamento anche per quelle reazioni che avvengono senza variazione del numero di moli. Infine, la presenza di un catalizzatore non influisce sulla posizione di equilibrio. Equilibri acido-base e di solubilità Il chimico svedese S. Arrhenius come conseguenza dei suoi studi sugli elettroliti, diede la seguente definizione di acido e di base: sono acidi quelle sostanze che in soluzione acquosa liberano ioni idrogeno, H+; definisce basi quelle sostanze che in soluzione acquosa liberano ioni idrossido OH-. Arrhenius osservò anche che, mescolando acidi e basi nelle dovute proporzioni, le proprietà degli uni e delle altre si annullavano a vicenda e si otteneva in soluzione una nuova sostanza che chiamò sale. Successivamente Bronsted e Lowry definirono acido una sostanza capace di donare un protone ad un’altra sostanza detta base B, che era in grado di riceverlo. Notarono che tra le due coppie acido-base il trasferimento protonico può avvenire nei due sensi. Anche per questo tipo di reazione può essere considerata una costante di equilibrio il cui valore numerico dà indicazioni circa la forza relativa delle due coppie coniugate. Esistono sostanze, come l’acqua, che in base alla specie con cui reagiscono, possono comportarsi da acidi o da basi; queste sostanze vengono chiamate anfotere. Si definisce, poi, acido di Lewis una sostanza capace di accettare almeno un "lone pair”, mentre una base di Lewis una sostanza capace di donare almeno un “lone pair”. Il tipo di legame tra acido e base di Lewis è un legame dativo. La teoria degli acidi di Bronsted-Lowry indica che la reazione acido-base è una reazione di trasferimento protonico da un acido a una base. Nella realtà è possibile che un acido possa cedere ad una base più di un protone così come è possibile che una base possa accettare da un acido più di un protone; in questo caso ci troviamo davanti ad un acido (o una base) poliprotica. Esistono in natura delle soluzioni che sono in grado di mantenere il pH quasi costante quando ad esse vengono aggiunte piccole quantità di acidi o di basi. Queste soluzioni sono chiamate tamponi. Vengono preparate molto spesso in modo artificiale in quanto hanno svariate applicazioni nel campo della chimica analitica; vengono ottenute mescolando un acido debole (HA) con la sua base coniugata (A-) o una base debole (B) con il suo acido coniugato (BH+). Esiste, infine, una quantità grande di soluti che possono manifestare proprietà acido-base in acqua. Tra queste i sali che in acqua sono dissociati in ioni che presentano proprietà acide, basiche o neutre a secondo se la loro presenza influenza o no l’equilibrio autoprotolitico dell’acqua. La titolazione è un procedimento che consente di determinare la concentrazione di una soluzione di un acido o di una base aggiungendo gradualmente ad essa un’altra soluzione a concentrazione nota. Ci si basa sul raggiungimento dell’eguaglianza del numero di equivalenti della specie presente nella prima soluzione con quelli della specie presente nella soluzione titolante (la seconda soluzione). Il punto in cui si raggiunge questa eguaglianza viene chiamato punto equivalente. Durante una titolazione acido-base il pH della soluzione va cambiando ed in prossimità del punto equivalente si ha una brusca o meno variazione di esso. Per monitorare il pH si usano i cosiddetti indicatori che hanno la proprietà di cambiare colore a seconda del pH della soluzione. Quando un soluto solido viene aggiunto gradualmente ad un solvente a temperatura costante, ad un certo punto esso si deposita sul fondo senza sciogliersi in quanto è stata raggiunta la saturazione. Se il soluto è non elettrolita, tra il solido separato come corpo di fondo e le sue molecole presenti in soluzione si stabilisce un equilibrio eterogeneo dinamico detto equilibrio di solubilità. La concentrazione del soluto nella soluzione satura rappresenta la massima possibile a quella temperatura ed è definita solubilità s; la costante Kps è invece definita prodotto di solubilità ed indica che all’equilibrio il prodotto della concentrazione degli ioni provenienti dal solido si mantiene costante se la temperatura non cambia. Mescolando due soluzioni acquose contenenti disciolti ioni di elettroliti forti solubili, si può verificare che due di questi appartengano a un solido ionico poco solubile. Quest’ultimo può separarsi sotto forma di precipitato se nella soluzione risultante la concentrazione ionica è in eccesso rispetto alla sua solubilità. Attraverso la legge di Henry è possibile calcolare la quantità massima di un gas che può sciogliersi in un liquido con cui esso non interagisce chimicamente (PG = XG x K ); a temperatura costante, quindi, la solubilità di un gas poco solubile è direttamente proporzionale alla pressione del gas nella fase gassosa sovrastante la soluzione. Celle galvaniche ed elettrolitiche In una reazione redox, se è spontanea, l’energia chimica coinvolta può essere trasformata in energia elettrica tramite un dispositivo chiamato pila o elemento galvanico. Se invece la reazione redox non avviene spontaneamente essa può essere comunque realizzata egualmente dall’energia fornita dall’esterno. La trasformazione di energia elettrica in energia chimica secondo un processo opposto a quello che avviene in una pila viene chiamato elettrolisi. La cosiddetta pila di Daniell è costituita da una barretta di zinco immersa in una soluzione contenente ioni Zn2+ e da una barretta di rame immersa in una soluzione contenente ioni Cu2+. Le due soluzioni sono elettricamente legate tra di loro tramite un ponte salino che ha la funzione di permettere il contatto elettrico tra le soluzioni impedendone il mescolamento. Qui gli elettroni migrano dallo zinco al rame poiché il potenziale dell’elettrodo di rame risulta maggiore di quello dell’elettrodo di zinco. La corrente I è dovuta al flusso di elettroni ma, convenzionalmente, si assume che sia la conseguenza del movimento di ipotetiche cariche positive in direzione opposta; si muove quindi in direzione opposta a quella degli elettroni. Nella pila di Daniell troviamo quindi che l’elettrodo di rame rappresenta il polo positivo (catodo) mentre quello di zinco rappresenta il polo negativo (anodo). Se i due elettrodi vengono collegati ai morsetti di un voltmetro è possibile misurare una differenza di potenziale che viene chiamata forza elettromotrice (f.e.m.). Poiché non è possibile conoscere il potenziale assoluto di un semielemento, si ricorre al semielemento di riferimento a cui si attribuisce un potenziale convenzionale di 0V. Il semielemento di riferimento usato, detto anche elettrodo normale o standard, è l’elettrodo normale ad idrogeno, costituito da una laminetta di platino immersa in una soluzione acquosa a 1,0 M di H+. Attraverso l’equazione di Nernst è possibile ricavare il potenziale di un semielemento quando le attività delle specie che prendono parte alla generica reazione dell’elettrodo non sono unitarie. Questa equazione viene espressa come (quella sotto) dove E° è il potenziale normale del semielemento, R è la costante universale dei gas, T la temperatura assoluta in kelvin, F la costante di Faraday (96485 C), n il numero di elettroni che vengono scambiati nella semireazione. Le pile di concentrazione sono dei sistemi nei quali la f.e.m. non è dovuta all’accoppiamento di due semielementi diversi, ma sono costituiti dalla stessa coppia redox. Il processo di elettrolisi è realizzato all’interno delle celle di elettrolisi, questa è costituita da un recipiente contenente una soluzione elettrolitica nella quale sono immersi due elettrodi metallici. Se si collegano due elettrodi ad un generatore di corrente continua, applicando un’opportuna differenza di potenziale si ha il passaggio di corrente attraverso la soluzione. L’elettrodo collegato con il polo positivo del generatore, dove avviene l’ossidazione, è chiamato anodo, l’altro, dove avviene la reazione di riduzione, è chiamato catodo. A causa del campo elettrico che si stabilisce tra i due elettrodi, si ha migrazione degli ioni positivi verso il catodo e degli ioni negativi verso l’anodo. Considerando una cella di elettrolisi costituita da due elettrodi di platino immersi in una soluzione 1M di acido cloridrico e applicando una d.d.p. Via via crescente si può osservare che la corrente circolante nel circuito è praticamente trascurabile fino a quando non si raggiunge un determinato valore chiamato potenziale di decomposizione, superato il quale si riscontra una proporzionalità diretta tra intensità di corrente e la d.d.p. Applicata. Applicando poi una d.d.p. Di poco superiore a 0V, ioni H+ e Cl- vengono rispettivamente ridotti al catodo e ossidati all’anodo formando H2 e Cl2 gassosi in prossimità dei due elettrodi di platino che vengono così trasformati in un elettrodo a idrogeno e in un elettrodo a cloro, costituendo una pila in cui la fem è in opposizione alla ddp imposta dall’esterno agli elettrodi (questo processo è chiamato polarizzazione chimica).

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