Libro Antro Visuale '24 PDF
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Summary
Introduzione all'antropologia visiva. L'autore espone l'importanza dell'immagine nella cultura e la prospettiva della semiotica dell'immagine e della cultura. Analisi approfondita dei concetti di visione, percezione visiva e loro connessione con la cultura di appartenenza.
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**[FILMARE LE CULTURE, UN'INTRODUZIONE ALL'ANTROPOLOGIA VISIVA]** ***[Introduzione]*** La parola *immagine* porta il pensiero ad una serie di fenomeni che la coinvolgono: primo fra tutti quello della *percezione visiva*, secondo l'*immagazzinamento* da parte della memoria, terzo la *riproduzione*...
**[FILMARE LE CULTURE, UN'INTRODUZIONE ALL'ANTROPOLOGIA VISIVA]** ***[Introduzione]*** La parola *immagine* porta il pensiero ad una serie di fenomeni che la coinvolgono: primo fra tutti quello della *percezione visiva*, secondo l'*immagazzinamento* da parte della memoria, terzo la *riproduzione* usando le varie tecniche e infine l'*immissione* all'interno del circuito della comunicazione visiva. Così descritte assolvono tutte una funzione diversa, ma è importante sottolineare che sono tutte strettamente intrecciate. L'immagine è frutto di scelte, di uno specifico punto di vista che produce, quindi, una visione particolare di ciò che viene raffigurato; questo dipende principalmente dal nostro modo di percepire il mondo esterno tramite input. Le immagini sono dei segni di una visione particolare e per questo ambito d'interesse dell'antropologia. Il livello della percezione e della produzione sono due elementi che fanno parte della cultura di provenienza di una persona; la selettività della percezione dipende in primis dalla dimensione culturale che è per lo più inconscia e sottoposta a processi di naturalizzazione. Il termine *semiotica dell'immagine* (e della cultura) è una prospettiva piuttosto recente dell'antropologia e dell'antropologia visiva. Quest'ultima, in particolare, sostiene che le immagini fotografiche e cinematografiche sono prove documentarie inconfutabili di altre società e sono strumenti utili per convalidare scientificamente questo metodo d'indagine. Oggi possiamo dire che questa idea è superata, dando spazio a molte riflessioni sul modo in cui le immagini comunicano e sull\'importanza di interpretarle. In questo nuovo approccio, dobbiamo leggere e capire le immagini usando strumenti e concetti appropriati. L'attività dell'antropologia visiva viene analizzata in questo libro da un punto di vista semiotico. L'antropologia viene spesso vista come un sapere semiotico e addirittura un'attività letteraria e così "filmare le culture" costituisce allo stesso modo una forma di rappresentazione della diversità culturale fondata sulle capacità comunicative delle immagini. Le immagini, come già è stato detto in precedenza, sono dei segni: costituite da emissioni di onde luminose e di suoni, danno vita a tecniche comunicative diverse. Charles Sanders S. Pierce, semiologo, per mettere a punto una distinzione chiara tra comunicazione verbale e comunicazione visiva, parlava di: 1) *icone*, che mostravano una somiglianza con l'oggetto 2) di *simboli*, ovvero segni arbitrari il cui significato derivava da un'operazione di attribuzione convenzionale 3) di *indici* che sono rappresentazioni che intrattengono con l'oggetto una relazione di contiguità spaziale, come quando si indica qualcosa con la mano. Le immagini hanno sempre un alto grado di indessicalità (indicano sempre qualche aspetto di ciò che rappresentano) ed è quello che le differisce dalle parole. I segni visivi presentano un grado di selettività, di arbitrarietà e di indessicalità; quest'ultimo aspetto permette il riconoscimento del referente (oggetto concreto rappresentato dal simbolo) di un'immagine anche senza che lo spettatore appartenga alla medesima comunità linguistica dell'autore. I segni visivi hanno un potenziale comunicativo transculturale elevato, il che li rende interessanti per l'antropologia. Christian Metz riteneva che il cinema fosse dotato di una certa universalità e che per questo potesse diventare un *esperanto visivo*. Il mondo attuale è sempre più caratterizzato da nuove tecniche comunicative e trasmissione dei saperi, da una serie di trasformazioni che devono essere valutate antropologicamente. Le immagini, come oggetti di studio che, come linguaggi dotati di un potenziale transculturale, possono offrire molto all'antropologia. ***[CAPITOLO UNO: VISIONE E CULTURA]*** *[1.1 Il campo dell'antropologia visiva]* L'antropologia visuale è un settore dell'antropologia culturale che prende forma nella storia del pensiero antropologico. Fin dalle origini il cinema e la fotografia venivano utilizzate dall'antropologia per raccogliere documenti visivi delle realtà etnologiche, ma a partire dagli anni '30 si iniziò a sviluppare una vera e propria *antropologia visiva*. Gregory Bateson e Margaret Mead sono stati i primi a sviluppare un lavoro di antropologia-visuale, con lo scopo di studiare i comportamenti non verbali tramite una registrazione audio-visiva. Da questa prima ricerca si intensificano le riflessioni e i film, ma si dovrà aspettare fino al 1970 prima che il termine *antropologia visiva* inizi ad essere utilizzato in maniera consapevole. L'evoluzione dell'uso del termine è parallela ad uno sviluppo interno della disciplina, soprattutto per quanto riguarda l'ambito di interesse. Anna Grimshaw aveva rilevato che una prima definizione era stata formulata nel corso di un convegno a Chicago del 1973 (da cui verrà poi tratto il volume *Principles of Visual Anthropology, Paul Hawkings*), con uno stampo prettamente metodologico: era un modo, una tecnica che poteva utilizzare l'antropologia nella raccolta e nella presentazione dei dati a prescindere dai contenuti specifici della ricerca. Il metodo prevedeva un utilizzo ampio degli strumenti di registrazione audiovisiva (es. filmare le interviste durante il lavoro; documentare con fotografie o videocamere rituali, eventi, cerimonie), un'analisi dei materiali, il montaggio di un prodotto audiovisivo utilizzabile per la comunicazione, didattica o divulgazione dei risultati. Secondo questa definizione, l'uso di strumenti audiovisivi poteva essere applicato a qualsiasi ricerca, senza contare che alcuni temi possono essere più adatti di altri. Circa un ventennio dopo, a seguito della pubblicazione di *Rethinking Visual Antropology* (Banks e Morphy) del '97 il termine *antropologia visuale* viene concettualizzato come un *ambito tematico* e non più metodologico: viene definita come "*antropologia dei sistemi visivi o di qualunque altra forma culturale visibile*" e si riconosce alla disciplina l'obiettivo primario di studiare gli aspetti visibili delle culture e in particolare quelli che sfuggono alla descrizione verbale. L'uso di strumenti quali fotografia e cinema consentono di valorizzare determinati aspetti che vengono spesso trascurati dalle tecniche di ricerca più tradizionali. Autori come Mac Dougall, Ruby, Banks utilizzavano l'espressione "*cultura visiva*" per esprimere quegli aspetti non verbali che difficilmente potevano essere espressi a parole. Esistono molte culture visive, almeno tante quante sono le culture. Ogni cultura visiva dà vita all'ambiente in cui una determinata società vive, prendendo in analisi simboli, segni, significati, paesaggi. Le culture trasformano l'ambiente in cui vivono, formano/deformano paesaggi, corpi, oggetti dandogli colori, segni, tatuaggi, immagini e aspetti che si stratificano nel tempo e nello spazio. Questa definizione rispecchia in parte quella che Geertz aveva fornito per il termine "cultura" e unendola a quella data da Taylor, le culture visive assumono questa definizione: *sono dei sistemi di segni immediatamente percepibili alla vista* (sono segni perché hanno una valenza comunicativa) *costruite dall'uomo e che hanno un significato ampiamente condiviso.* Robert Thompson ha studiato la cultura visiva degli *Yoruba* della Nigeria. Egli riteneva che in quella cultura i concetti principali fossero: visibilità, luminosità, forma e linea. Gli Yoruba definiscono la civilizzazione con il termine *ilaju* "un volto segnato da linee". La cultura per questo popolo era strettamente legata all'intervento estetico sulla natura. Francesco Remotti riteneva che il popolo sottoponesse il corpo e il territorio a operazioni estetiche (linee sul terreno per coltivarli, linee sul corpo per renderli parte del paesaggio culturale). Affermiamo in ultima analisi, facendo un riepilogo: le culture visive sono delle rappresentazioni visive e sono oggetto di studio dell'antropologia visiva. Questa propone delle rappresentazioni visive antropologiche di rappresentazioni visive culturali, su cui costruisce riflessioni e teorie su meccanismi culturali e cognitivi. In questo processo sembra che si siano unite due concezioni dell'antropologia visiva: quella tecnico-metodologica e della contenutistica. Nelle culture visive non si pone un confine tra ciò che è forma e ciò che è contenuto. *[1.2 Definire la visione ]* È bene ora definire che cosa si intende con "visivo". Alcuni autori hanno dato una definizione scontata, dicendo che è *tutto ciò che abbiamo di fronte al nostro sguardo*, ma in realtà si tratta di un termine molto più complesso e che ha attirato l'attenzione di filosofi, psicologi, antropologi. L'interessamento per questo tema da parte di così tante varie discipline mostra come sia necessario rivalutare la definizione di ciò che è visivo alla luce delle teorie filosofiche e psicologiche, oltre che di quelle antropologiche (dei sensi, dei media). Il primo problema si pone, come già detto, nella definizione di che cos'è la visione (quali fenomeni e quali processi si riferiscono ad esso, quali sono gli organi e le funzioni implicate in esso). Il secondo riguarda lo spazio che la visione occupa nell'ambito degli altri sensi, delle relazioni tra questi e le gerarchie. In merito a questo, il pensiero sarà condotto all'importanza che il senso della vista acquista nelle culture occidentali e in particolare di come perfino nell'antropologia culturale questo sia centrale; infatti, si parla di *osservazione partecipante*. Il terzo problema prende in analisi come il termine possa essere utilizzato in alcune culture per fare riferimento alla visione extrasensoriale, come capita in varie culture africane. La definizione di \"visione\" resta sorprendentemente poco chiara nella maggior parte degli studi di antropologia visiva, rendendo difficile sviluppare una teoria adeguata. Il problema principale è che spesso non si sottolinea abbastanza come il mondo visibile non sia un fenomeno puramente oggettivo o una caratteristica indipendente della realtà esterna. Il mondo e le culture diventano visibili solo perché esistono esseri con sensi capaci di percepirli. La visibilità è quindi una qualità che nasce dalla relazione tra il mondo fisico, con le sue caratteristiche percepibili, e chi osserva. Le culture visive sono, dunque, fenomeni dinamici che cambiano continuamente sotto gli occhi di chi le guarda, sia che si tratti di membri della stessa cultura, sia di osservatori appartenenti a contesti culturali e percettivi diversi. La possibilità di dare una definizione chiara si complica maggiormente considerando che da alcuni la cultura è vista come qualcosa di "innaturale, di soggettivo e individuale". L'antropologia dei sensi ha contribuito a rivalutare la concezione, tipica della cultura occidentale, che i sensi fossero qualcosa di naturale. È tipico di molte posizioni filosofiche e del senso comune, inoltre, ritenere che le percezioni visive descrivano una realtà oggettiva e inconfutabile, che il sistema percettivo stesso sia qualcosa di innato e universale. Questo punto di vista, chiamato *assolutismo fenomenologico* accetta senza critiche ciò che vediamo, ignorando che la percezione è influenzata da esperienze individuali e culturali. Di conseguenza, si presume che persone diverse, davanti allo stesso stimolo, vedano esattamente la stessa cosa. La fiducia ingenua nel realismo e nell'universalità delle percezioni visive ha influenzato il metodo scientifico e il positivismo dell'antropologia. Johannes Fabian tratta di questo tema nel libro "*Il tempo e gli altri*", grande classico dell'epistemologia antropologica. Fabian denuncia la tendenza "*visualista*" del pensiero occidentale che sembra essersi rafforzata con la diffusione della scrittura e della stampa e con l\'uso di simboli grafici per organizzare i concetti. Per Fabian il *visualismo* è una parte fondamentale del pensiero occidentale, che crea uno stile di pensiero specifico. Al contrario, secondo Goody, molte culture non occidentali continuano a dare importanza alla comunicazione orale, all\'ascolto e al dialogo, che non si adattano facilmente a schemi visivi. La centralità e l\'apparente oggettività della percezione visiva sono temi importanti nel metodo etnografico. Non è un caso che i primi esperimenti con strumenti di registrazione audiovisiva in antropologia siano avvenuti in un contesto dominato dal positivismo e dalla fiducia nella scienza. La fotografia e i filmati, usati già nelle prime spedizioni etnologiche della fine dell\'Ottocento, erano visti come prove neutre e inconfutabili dei costumi osservati, documenti oggettivi da usare per supportare teorie antropologiche più ampie. L\'antropologia ha quindi abbracciato l\'idea che la percezione visiva sia centrale e naturale. Malinowski ha formalizzato questo concetto nel suo metodo di \"osservazione partecipante\". Anche se usa la parola *osservazione* per riferirsi alla conoscenza che deriva dai sensi in generale, il tema della visione è presente nei suoi scritti, che spesso includono fotografie; per Malinowski, l\'obiettivo della ricerca sul campo è «catturare il punto di vista dell\'indigeno e la sua visione del mondo». L'obiettivo che pone M. per l'antropologo è affascinante, ma raggiungibile solo una volta riconosciuta l'influenza della cultura sulla visione e delle barriere che possono ostacolare il raggiungimento di uno sguardo transculturale. Queste barriere possono essere oltrepassate dotandosi di strumenti concettuali idonei ad analizzare la visione e le influenze culturali che la modellano inconsapevolmente. In questo modo è possibile superare l'etnocentrismo e l'universalismo che caratterizza ogni cultura. La percezione visiva assume un ruolo centrale all'interno della ricerca etnografica e implicazioni alla teoria antropologica. La formulazione di una teoria delle culture visive richiede una revisione del ruolo svolto dalla visione nella percezione, il che è utile a equilibrare l'oculo centrismo occidentale, riconoscendo la relatività della visione e delle gerarchie sensoriale a seconda della cultura. Studiare le culture visive significa spostare l'attenzione sulle modalità di costruzione culturale dello sguardo e dei suoi prodotti. Psicologi e neuroscienziati si trovano concordi nell'affermare che la percezione sensoriale sia data da un complesso di funzioni biologiche e culturali. La cultura svolge un ruolo fondamentale e primario nella fase della percezione, della successiva interpretazione e del valore che gli viene dato. Oggi si studiano le percezioni visive e le rappresentazioni, perché sono punti di incontro tra i nostri modi di vedere e gli ambienti naturali e culturali che le circondano. Ogni immagine muta nello sguardo di chi la osserva. Le qualità visive dipendono sia da come guardiamo che dagli oggetti che vediamo. In altre parole, nascono da questo incontro. Negli ultimi decenni, la neuropsicologia ha studiato come biologia, psicologia e cultura interagiscono nella nostra percezione visiva. Analizziamo ora le caratteristiche di questo processo. *[1.3 Cosa vediamo? ]* La visione è data da un insieme di processi fisiologici e culturali, che permettono di registrare, elaborare e interpretare gli stimoli luminosi che provengono dall'ambiente esterno. In modo schematico possiamo dire che il sistema visivo è composto dagli occhi (sistemi periferici), da connessioni nervose e dalle funzioni cerebrali deputate alla percezione visiva. Gli occhi, inoltre, indirizzano le onde luminose attraverso la cornea, la pupilla e il cristallino verso la retina. Al centro della retina si trova la fovea, dove si incontrano la maggior parte dei circa 250 milioni di recettori (bastoncelli/coni) che hanno la funzione di trasformare le onde luminose in impulsi elettrici, che verranno trasmessi al cervello e poi alla corteccia visiva attraverso i nervi ottici. I coni reagiscono alla seconda della lunghezza d'onda degli impulsi, rendendo possibile la percezione dei tre colori primari (rosso, blu, verde) e dei loro composti. Il sistema visivo permette di cogliere alcune caratteristiche del mondo fisico, in particolare le onde elettromagnetiche dotate di una frequenza compresa in una porzione limitata dello spettro. Ciò che abbiamo appena descritto è tipico dell'uomo, ma anche di tante forme animali, le quali però selezionano solo alcune frequenze d'onda nella formazione della propria visione. Da questo è chiaro come il processo visivo sia selettivo partendo dagli organi di senso predisposti a cogliere gli stimoli visivi, i quali diventano percepibili solo a determinate frequenze e quando superano una certa intensità. La vista, sia per l'uomo che per gli animali è un'esigenza biologica fondamentale nel processo di adattamento dell'ambiente; inoltre, consente di entrare in contatto con esso e interagire. Gibson ha ridefinito l'intero problema della percezione visiva e delle sue implicazioni cognitive in una prospettiva chiamata "ecologica", che ha permesso il superamento di molti problemi psicologici e filosofici legati alla percezione. Secondo Gibson, il nostro modo di vedere e di percepire è comprensibile solo in relazione all\'ambiente in cui ci troviamo. Quando parla di ambiente o habitat, intende qualcosa di relazionale, non un concetto fisso. L\'ambiente non esiste da solo, ma è definito dalla relazione tra chi osserva e ciò che viene osservato. In questo modo, soggetto e realtà formano un sistema complesso: l\'animale e l\'ambiente sono inseparabili e si influenzano a vicenda attraverso i processi percettivi. Partendo dalla teoria dell\'evoluzione, Gibson vede la percezione come un processo chiave per adattarsi all\'ambiente. Questo processo è complesso e coinvolge i cinque sensi che lavorano insieme. Gibson afferma che la visione non dipende solo dagli occhi e dal cervello, ma anche dal corpo che sta in contatto con il terreno. Questo sistema aiuta gli esseri viventi a interagire con l\'ambiente che li circonda, che chiama \"layout\". In termini evolutivi, questo significa che gli organi sensoriali si modificano per adattarsi meglio. A livello individuale e culturale, porta a diverse modalità di percezione e comprensione. Gibson sottolinea che l\'ambiente umano è soprattutto culturale, il che suggerisce che la sua teoria può offrire spunti interessanti per studiare la visione e la cultura in antropologia. Gibson si concentra principalmente sulla percezione naturale, cioè su come gli animali e gli esseri umani interagiscono direttamente con l\'ambiente. Tuttavia, identifica anche caratteristiche uniche degli esseri umani, come la capacità di usare il linguaggio e di creare rappresentazioni visive. Queste rappresentazioni, che possono essere grafiche, fotografiche o cinematografiche, offrono \"percezioni di seconda mano\". Sono importanti per educare i bambini e i giovani e per trasmettere conoscenze, un processo che gli antropologi chiamano inculturazione. Perciò, nell\'uomo, l\'apprendimento percettivo è spesso influenzato da queste rappresentazioni che ricreano e modificano l\'ambiente naturale, creando una particolare cultura visiva. G. include nelle rappresentazioni grafiche anche la scrittura, che ha la funzione di registrare visivamente la parola. La scrittura, sottolinea lo studioso, è frutto di un processo avuto inizio da disegni di migliaia di anni fa, che poi si sono evoluti in ideogrammi, sillabari e alfabeti. La percezione visiva, diretta e attraverso rappresentazioni (primaria e secondaria), è fondamentale nei processi adattivi e di conoscenza del mondo, sia a livello evolutivo che nello sviluppo individuale, un'idea che aveva già proposto André Gourhan nel '65. L'uomo per sopravvivere ha bisogno di raccogliere quante più informazioni dall'ambiente che lo circonda; infatti, il sistema nervoso non potrebbe lavorare correttamente se non esposto agli stimoli esterni. Le informazioni che provengono dal mondo riguardano soprattutto i cambiamenti, che devono essere registrati e interpretati. Il sistema percettivo, quindi, è più attento a ciò che cambia che alla presenza di elementi costanti e fissi. L'assenza di cambiamenti, a livello visivo, genera una sorta di "abituazione" che rende invisibili le cose che non cambiano; il sistema nervoso, però, contrasta questo fenomeno attraverso continui movimenti degli occhi, della testa e del corpo. Il processo della visione nell'uomo è particolarmente complesso a causa della consapevolezza, della memoria e della cultura. Nell'atto della visione il nostro cervello effettua una selezione, per cui ci vengono trasmessi solo alcuni elementi dell'ambiente; il processo selettivo è determinato da funzioni biologiche e culturali. Per G. la percezione è un atto non mentale e nemmeno corporeo, ma psicosomatico; per cui, è frutto di una continua interazione dinamica tra ambiente e soggetto, tra natura e cultura. Accettando questa teoria interattiva, ecologica e psicosomatica della percezione, possiamo superare le difficoltà concettuali che hanno a lungo bloccato il dibattito su come percepiamo, comprendiamo e ci relazioniamo con la realtà. *[1.4 L'immagine come selezione e rappresentazione]* La teoria tradizionale della percezione, chiamata anche atomistica o percezionistica, la descriveva riprendendo il modello della camera oscura: le immagini si formano a partire da una grande quantità di punti luminosi proiettati sulla retina al cervello, che riassociava gli atomi in immagini con un senso. La percezione è frutto di un processo passivo a cui la mente deve poi dare un significato. Nei primi anni '90 la psicologia della forma (nata a Berlino) affermò che il processo di percezione era costruttivo, così gli psicologi della Gestalt, tramite esperimenti, provarono che la percezione funziona in maniera autonoma dalla conoscenza. Essa si attiva secondo dei meccanismi che le sono propri e che permettono di immagazzinare le forme fondamentali del mondo, il che venne dimostrato dal fatto che stimoli visivi uguali possono dare luogo a percezioni diverse. Per provare ulteriormente che percezione e pensiero sono elementi slegati, i gestaltisti proposero degli esperimenti da cui risultava che siamo portati a percepire elementi che non sono presenti nell'immagine; ne deriva che il mondo fisico non è tutto fedelmente percepito, ma che in parte sembra costruirsi autonomamente rispetto agli stimoli esterni. Secondo la Gestalt il processo costruttivo segue delle regole, una "*grammatica del vedere*". Gli studiosi ritenevano che le regole fossero date da una razionalità fondamentale comune al genere umano, oppure che fossero qualcosa di innato e universale; tuttavia, questa ipotesi è in contrasto con la maggior parte delle teorie antropologiche della percezione. Kanizsa per spiegare le illusioni ottiche, parla di *unità primarie* che fanno riferimento a figure percepite che non sono completamente delineate, ma che il nostro cervello completa tramite il processo di attribuzione di contorni e forme. La mente deve riconoscere gli stimoli per poterli immettere in una rete di significati socialmente condivisi. Faeta riteneva che il riconoscimento avvenisse tramite due meccanismi fondamentali: 1\) posizionando l\'oggetto in uno spazio in cui possiamo vedere le relazioni con altri elementi, così da dargli un significato, 2) inserendo l\'oggetto in una sequenza temporale, dove la memoria ci aiuta a collegarlo a schemi ed esperienze che abbiamo già vissuto in passato. Così la psicologia cognitiva sottolinea l'unione di informazioni contenute nella memoria con quelle che arrivano dall'esterno, spiegano che la mente non vede tutto ma solo alcune aree significative, all'interno delle quali è solita cercare significati generali appresi da schemi automatizzati. Le selezioni fatte durante la percezione sono in parte il risultato di come attribuiamo significato agli oggetti che vediamo. Questi significati si basano sulle nostre esperienze personali e sui simboli condivisi dalla nostra cultura. Così, le culture influenzano attivamente come percepiamo il mondo. L\'ambiente che conosciamo, essenziale per la nostra sopravvivenza, ci arriva filtrato da una percezione selettiva, che ci offre solo una rappresentazione parziale e significativa. Tuttavia, resta irrisolto il problema di come si formano le percezioni primarie. Secondo Gibson, sia le teorie associazionistiche che quelle della Gestalt rischiano di essere troppo rigide e unidirezionali. Separando artificialmente percezione e pensiero, queste teorie non riescono a spiegare completamente il ruolo fondamentale della percezione nella nostra vita quotidiana. Quindi, separare percezione e pensiero può essere fuorviante: \"conoscere è un\'estensione del percepire\". Solo attraverso la nostra percezione complessa dell\'ambiente possiamo avviare processi di pensiero e interagire con il mondo, che continuiamo a cambiare e che ci cambia a sua volta. Per spiegare meglio questo meccanismo, Gibson introduce il concetto di \"affordance\". Questo termine, che deriva dal verbo inglese \"to afford\", significa sia \"fornire\" che \"essere in grado di fare\" qualcosa. L\'affordance collega ciò che percepiamo nell\'ambiente con come possiamo usarlo. Ad esempio, una strada offre un\'affordance per camminare, ed è percepita in base alla sua funzione e al suo valore per chi la usa. Gibson collega il concetto di \"affordance\" a quello di \"nicchia\" ambientale, che è uno spazio che l\'uomo modifica per i propri scopi, basandosi sulle percezioni funzionali. Questo processo avviene in un contesto sociale: i bambini maturano la loro percezione solo quando riconoscono significati condivisi. La percezione è quindi fondamentale per la comunicazione. Insieme al linguaggio, che fornisce informazioni indirette, la percezione funzionale è essenziale per la vita sociale. Per essere più facilmente condivisa, la percezione visiva si traduce in diverse rappresentazioni, che modificano l\'ambiente per soddisfare funzioni sociali. Infine, linguaggio e la produzione di rappresentazioni percettive si sviluppano insieme, offrendo importanti funzioni adattative interconnesse. *[1.5 Un esempio classico: la percezione dei colori]* Il tema della percezione e della cognizione verrà approfondito in questo paragrafo con un esempio concreto: la percezione dei colori, per illustrare il legame tra percezione, linguaggio e cultura. Gli uomini hanno una percezione raffinata di un'area limitata dello spettro e sono in grado di discriminare migliaia di colori al suo interno; però, l'identificazione sembra essere data da categorie linguistiche e associazioni culturali di ciascuna cultura. A studi filosofici, psicologici si è unita anche l'antropologia, per provare come la cultura fungesse un ruolo fondamentale in questo campo. Rivers durante la spedizione allo Stretto di Torres nel 1901 formulò l'ipotesi che gli abitanti delle isole Murray fossero insensibili a certe gradazioni cromatiche (blu) a causa di una mancanza di interesse culturale nei confronti di questo colore; inoltre, riteneva che la povertà linguistica relativa al colore fosse una conseguenza della specializzazione percettiva di questo gruppo. Una cinquantina di anni dopo il lavoro di Rivers, Conklin studiò il caso degli Hanunòo delle Filippine; questi presentavano una serie di termini per i colori che si basavano su quattro categorie fisiche (luminoso, non luminoso) e culturali (intensi, sbiaditi). Conklin mostra come le pratiche culturali influenzino la classificazione dei colori; infatti, sembra influenzare anche la percezione: uomini e donne tendono a riconoscere più facilmente i colori legati al loro lavoro, che è spesso diviso per sesso. Gli uomini, per esempio, riconoscono più rapidamente i grigi e i rossi, legati alla caccia, mentre le donne tendono a riconoscere meglio i blu, usati per tingere i tessuti. La tesi di Conklin venne ripresa in seguito in un esperimento relativo all'influenza della cultura sulla percezione visiva; i testi vennero somministrati in tredici gruppi localizzati in Africa, Europa, Nord America e filippine e ne risultò che la percezione di alcune famose illusioni ottiche è condizionata dal tipo di ambiente in cui le culture sono immerse, come: 1) gli ambienti tipici dell'occidente sono come dei mondi fabbricati con il legno in cui prevalgono linee rette e si fa uso della prospettiva lineare, il che porta all'abitudine della percezione a linee rette e alla profondità di campo creando un certo tipo di illusione, 2) le persone che vivono in ambienti aperti, in case di forma circolare (Zulu in Sud Africa) riconoscono e percepiscono con maggiore fatica la prospettiva lineare e le linee di fuga e non incorrono nelle medesime illusioni. Tra il 1967 e il 1968, B. Berlin e P. Kay condussero una famosa ricerca per capire se la percezione dei colori dipenda dalla cultura o da caratteristiche universali. Studiarono i termini base per i colori in venti lingue (cioè, i nomi fondamentali usati per descrivere i colori) e scoprirono tre regole universali: \- Anche se gli esseri umani possono distinguere migliaia di colori, le lingue usano da un minimo di due a un massimo di undici termini base. \- Questi sistemi di termini seguono un ordine evolutivo comune. \- I colori indicati da questi termini sono simili in tutte le culture studiate. Berlin e Kay propongono che la percezione dei colori sia in gran parte innata, contrastando le teorie relativistiche che attribuiscono un ruolo dominante alla cultura. Marshall Sahlins cercò di conciliare queste due posizioni nel 1976. Riconobbe l\'universalità delle regole di Berlin e Kay, ma le collegò a una \"logica percettiva naturale\" che organizza gli stimoli visivi in categorie semplici, il cui significato dipende però dalla cultura. Usando le idee di Saussure, Sahlins sottolinea che i termini dei colori non descrivono solo una sensazione visiva, ma funzionano in relazione agli altri termini del sistema linguistico di una cultura. La cultura, dunque, media tra la percezione naturale e il linguaggio, assegnando a ogni colore un significato specifico nel sistema simbolico. Come afferma Sahlins, citando Boas: «L\'occhio che vede è sempre un organo della tradizione». Questo significa che ciò che percepiamo viene filtrato e interpretato attraverso il contesto culturale. Tuttavia, a differenza del linguaggio, la percezione visiva ha una base naturale che influenza il modo in cui le culture la utilizzano. Per esempio, i sistemi di termini base per i colori, nella loro semplicità universale, riflettono le predisposizioni percettive comuni alla nostra specie. In conclusione, ciò che vediamo è il risultato di un processo complesso, in cui selezioniamo le informazioni visive dall'ambiente. Questo ambiente, a sua volta, è influenzato dalla cultura. La percezione visiva è quindi un continuo dialogo tra natura e cultura, essenziale per il nostro adattamento biologico e culturale. *[1.6 Excursus evolutivo: estetica e linguaggio]* Nel suo libro fondamentale \"Il gesto e la parola\", il paleontologo francese Leroi-Gourhan ha ricostruito le tappe dello sviluppo dell\'estetica e del simbolismo nell\'evoluzione umana. Secondo la sua teoria, la cultura emerge grazie alla \"liberazione della mano\", che avviene con l\'evoluzione verso la stazione eretta. Questo processo permette agli ominidi di sviluppare una presa più precisa, liberando la bocca per permettere lo sviluppo della fonazione. Tale evoluzione è strettamente legata ai cambiamenti cerebrali e alla funzionalizzazione della corteccia cerebrale. Questo lungo processo, durato circa un milione di anni, ha portato a notevoli mutamenti anatomici e funzionali, consentendo la nascita di Homo sapiens. La creazione di utensili, simboli visivi e parole sono i frutti principali di questa evoluzione. Il secondo volume dell\'opera di Gourhan, \"La memoria e i ritmi\", si concentra in particolare sull\'evoluzione delle funzioni simboliche ed estetiche. Gourhan intende l\'estetica in modo ampio, non limitandosi al concetto di bellezza legato alle percezioni uditive e visive di Homo sapiens, ma esplorando come nel tempo e nello spazio si sviluppi un \"codice delle emozioni\" che consente al gruppo umano di inserirsi emotivamente nella propria società. Le sensazioni vengono progressivamente intellettualizzate e trasformate in percezioni, un processo che diventa \"etnico\" poiché ogni gruppo umano sviluppa modi di percepire e rappresentare la realtà che si adattano al proprio ambiente e alla propria cultura. Intorno a 30.000-35.000 anni fa, con la comparsa di Homo sapiens, appaiono i primi segni di questa \"etnicizzazione\" attraverso utensili e simboli visivi che cominciano a seguire modelli distintivi, specifici per ogni cultura. L\'evoluzione sensoriale e percettiva porta alla produzione di immagini e suoni, che riflettono le percezioni umane in modo sempre più complesso. Sebbene i sensi \"inferiori\" come olfatto, tatto e gusto non siano utilizzabili per rappresentazioni esterne, la vista e l\'udito diventano fondamentali per la comunicazione. Il linguaggio verbale e, in seguito, la scrittura, sono i frutti finali di questa evoluzione. Leroi-Gourhan sottolinea che l\'utensile e il linguaggio non sono gli unici aspetti dell\'evoluzione umana: l\'estetica ha avuto un ruolo altrettanto importante. Percezione estetica e linguaggio si sviluppano parallelamente, e l\'estetica può essere vista come un aspetto complementare di questa evoluzione, poiché sia l\'utensile che la parola si sono liberati in direzione della macchina e della scrittura. L\'estetica, intesa come scienza delle percezioni e delle loro rappresentazioni visive e sonore, è quindi una componente essenziale dell\'antropologia, in quanto aiuta a comprendere come le culture si sviluppano e si adattano ai propri ambienti. Leroi-Gourhan suggerisce che per capire la realtà culturale di un gruppo umano, è necessario considerare anche le sue rappresentazioni non verbali. Sebbene gran parte dello stile etnico rimanga inconscio, in ogni cultura esiste anche una componente di libertà e creatività che genera innovazioni. Le prime espressioni visive, come quelle rinvenute nelle caverne preistoriche, sono principalmente astratte. Solo più tardi, intorno al 10.000 a.C., le raffigurazioni diventano più realistiche. L\'arte, quindi, non nasce come una riproduzione della realtà, ma come una trasposizione simbolica. L\'arte, il linguaggio e gli utensili sono strettamente legati: l\'Homo sapiens è caratterizzato da un \"binomio fonazione-grafia\", in cui le funzioni grafiche e verbali mirano entrambe a rappresentare il pensiero per scopi comunicativi. In questo modo, le funzioni visive, esprimibili attraverso l\'uso della mano e degli utensili, si intrecciano con quelle uditive, legate alla fonazione e al linguaggio. Questa evoluzione culturale culmina nella scrittura e nei moderni sistemi di comunicazione audiovisiva, che uniscono parole e immagini, linguaggio ed estetica, in un unico prodotto che ha un\'enorme capacità espressiva e di cui facciamo uso quotidianamente. ***[CAPITOLO 2: ]*** ***[LA FOTOGRAFIA ANTROPOLOGICA E LA NASCITA DELLA RICERCA ETNOVISIVA]*** *[2.1 Dalla percezione visiva alla raffigurazione fotografica]* Le diverse prospettive scientifiche che hanno studiato la visione si sono poi accordate nel descriverla come un processo selettivo. Il pensiero occidentale, che ripone grande fiducia nel realismo e nell'oggettiva della visione, tiene poco in considerazione la grande influenza da parte della cultura e dei meccanismi di adattamento all'ambiente, che portano ad una *relativizzazione* della visione. Ci sono, quindi, delle operazioni di selezione (delle scelte, anche in merito agli strumenti utilizzati per riprodurre le percezioni) che creano delle rappresentazioni particolari e soggettive del mondo. La tecnica più antica è sicuramente la fotografia. Questa si sviluppa a partire da due procedimenti tecnici: 1\) *camera obscura*, un piccolo ambiente oscurato con un piccolo foro, attraverso il quale la luce esterna proietta sulla parete un'immagine capovolta. Questa era già nota ad Aristotele, ma venne utilizzata soprattutto durante il Rinascimento, periodo durante il quale la visione artistica e quella matematica coincidevano (spazio geometrico, regolato da leggi di prospettiva lineare, che permette di tradurre la percezione di uno spazio tridimensionale in uno bidimensionale). 2\) *procedimento chimico*, messo a punto nel XIX secolo e permette di fissare su un supporto (lastre di vetro impressionabili in un primo momento e poi in seguito su pellicole trasparenti e carta fotosensibile) l'immagine ottenuta nella camera. Gibson riteneva che le "figure" (immagini) fossero delle rappresentazioni che potessero essere riprodotte tramite due tecniche fondamentali: a\) tecniche chirografiche (pittoriche o grafiche), ovvero "raffigurazioni eseguite con le mani". b\) tecniche fotografiche, ossia "raffigurazioni ottenute con la luce" e che si sono sviluppate anche nella rappresentazione delle immagini in movimento (tecniche cinematografiche). c\) una terza tecnica, più recente data dalla scansione elettronica tramite le videocamere analogiche, videocamere, fotografie digitali. La percezione visiva è data da un processo di selezione di alcuni elementi dell'ambiente per creare delle immagini influenzate da cultura e dalla psicologia dell'individuo; così, le raffigurazioni fotografiche ed elettroniche ricorrono ad ulteriori processi di selezione sia per quanto riguarda il tipo di tecnologia usata (inchiostro, colori, reagenti chimici, numero di pixel) sia dalle scelte e dagli interessi di chi realizza le raffigurazioni. Si può parlare, quindi, di "rappresentazione di rappresentazioni". La fotografia permette di fissare le percezioni fuggevoli su di un supporto duraturo. La fotografia viene spesso paragonata all'occhio umano e viceversa; infatti, le teorie associazionistiche le mettono a confronto sia per studiare la struttura dell'occhio, sia per analizzare le modalità di costruzione dell'immagine. Ci sono una serie di scelte che riguardano lo scatto fotografico, tra cui: \- delimitazione del campo visivo secondo un formato prestabilito (più stretto e geometrico rispetto al campo percepito dall'occhio umano) \- compositive (angolazioni, punti di vista, relazioni tra le posizioni degli oggetti, focali differenti, tipo e intensità di illuminazione, etc. Queste variabili costruiscono l'immagine; la fotografia è una rappresentazione selettiva e soggettiva di una porzione di realtà percepita da un particolare osservatore. Ci sono vari elementi di scelta che allontanano la ripresa fotografica dalla percezione visiva: a\) la fotografia è un particolare sguardo sul mondo, il quale può essere rappresentato al meglio tanto più il fotografo è in grado di dominare lo strumento tecnicamente ed esteticamente; questa capacità conferirà agli oggetti ripresi un significato e un senso alla scena in virtù delle molteplici scelte a cui prima si è fatto cenno. Decodificare un'immagine significa essere in grado di raccontare il processo di selezione e costruzione del significato che ne sta alla base, ripercorrendolo a ritroso per comprendere le intenzioni comunicative dell'autore. b\) un altro elemento che allontana ulteriormente la ripresa fotografica dalla percezione visiva, è la staticità della fotografia, che cristallizza un evento, sottraendolo al flusso percettivo cui siamo sottoposti. La visione naturale non è mai statica, coglie il dinamismo dell'ambiente. Roland Barthes, nel suo libro del 1980, tratta di questo tema facendo un'associazione tra staticità e morte, ricordando come inizialmente l'uso più comune della fotografia era quello di fare una foto ai defunti e poi appenderla in casa, sostituendo così gli altari degli antenati di altre culture. La fotografia offre una vasta gamma di scelte e selezioni che permettono al fotografo di costruire la propria percezione del mondo con particolari intenzioni comunicative. *[2.2 Collezionare immagini]* La fotografia e il cinema e il video permettono di fissare le osservazioni etnografiche; possono essere delle specie di ritratti e rappresentazioni della percezione, che hanno la caratteristica di riuscire a comunicare una dimensione inafferrabile. Le prime impressioni sono in prevalenza visive. Rimangono fisse e stampate nella memoria in modo vivido, intenso e denso; inoltre, sono caratterizzate da un alto livello di alterità. Le prime impressioni etnografiche è importante che vengano ricordate, soprattutto per lo shock causato dalla distanza culturale; Margaret Mead considerava la distanza come uno spaesamento e il motore fondamentale per avviare il processo di conoscenza antropologica. Le fotografie di campo colgono le prime impressioni. Si tratta di immagini che travolgono l'etnografo che viene proiettato in una realtà distante e non conosciuta, anche se questo gli offre la possibilità di avviare un processo di visione interna (insight). Le fotografie e gli strumenti audiovisivi permettono di registrare e tematizzare (ovvero trattare in modo più diffuso) elementi significativi per l'analisi culturale. Leroi-Gourhan parlava di "stile etnico" riferendosi alla capacità che i mezzi hanno di rappresentare la dimensione ineffabile che spesso non viene colta dall'estetica e dall'etnologia. L'esigenza di cogliere questa dimensione si presenta fin dalle origini, anche se in un primo momento il troppo entusiasmo per le nuove tecnologie opacizzò la capacità critica di un utilizzo ragionato dei mezzi. Inizialmente si utilizzava lo strumento quasi come a voler catturare e "portare a casa" i frammenti delle vite e delle culture "primitive". Si creò una documentazione delle popolazioni esotiche, che veniva conservata nei musei etnografici i quali all'epoca venivano considerati come dei laboratori dove poter studiare le "culture in vitro". John Stocking definisce questa prima fase come "*epoca dei musei*" (libro *Object and Others*, 1985). Prima che l'antropologia facesse il suo ingresso nelle accademie e nelle università, lo spazio istituzionale era fornito dai musei naturalistici ed etnografici. In essi si conservavano esempi osservabili e concreti delle differenze culturali. Nelle spedizioni etnografiche si procedeva con la raccolta di fotografie e documenti cinematografici dei fatti che era possibile osservare sul campo, come avvenne durante la prima spedizione allo Stretto di Torres nel 1898-99 (tra Australia e Nuova Guinea). La riflessione teorica sui fenomeni visivi si sviluppò più tardi e per un lungo periodo le fotografie avevano l'esigenza di raccogliere *specimina* a supporto delle teorie che si stavano elaborando a quei tempi. *[2.3 La fotografia come prova nell'antropologia positivista]* La fotografia si iniziò ad utilizzare nel clima positivista dell'Ottocento; inoltre, l'antropologia si considerava una scienza naturale. Le nuove tecnologie e l'entusiasmo generato dalle nuove innovazioni portavano a vedere la fotografia e il cinema come dei mezzi utili a voler convalidare la verità delle affermazioni antropologiche. Le fotografie erano delle prove della realtà, documenti neutrali la cui oggettività era garantita dall'occhio meccanico che le produceva. Le fotografie erano come dei dati grezzi che potevano successivamente essere sottoposte a vari tipi di analisi. In questo contesto si teneva poco conto delle operazioni di selezione. Charles Darwin (1872) utilizzò la fotografia per uno studio di interesse antropologico. Egli voleva provare le diverse espressioni delle emozioni, fotografie che poi vennero sottoposte a un numero di osservatori che dovevano poi interpretarle. Il metodo utilizzato da D. anticipa le tecniche di elicitazione fotografica e cinematografica (si trattava di tecniche di ricerca derivato dalla sociolinguistica che consentiva di inferire informazioni non direttamente all'interno di un contesto naturale di comunicazione, ma per mezzo di stimoli introdotti dal ricercatore), il che avrebbe permesso di valutare l'interpretazione delle espressioni facciali come reazioni somatiche (ovvero fisiche) a un particolare sentimento o emozione. Darwin sosteneva che le espressioni delle emozioni erano universali e che rappresentassero una traccia evolutiva, in grado di mostrare le connessioni tra la nostra specie di esseri umani e le altre. Le fotografie erano essenziali per provare questa teoria e l'idea di utilizzare la fotografia gli venne probabilmente suggerita a seguito della lettura di un libro di Guillaume Benjamin Duchenne de Bologne (1862), in cui egli aveva presentato al pubblico i suoi esperimenti fatti in un ospizio dei poveri e dei malati di mente situato alla periferia di Parigi. Duchenne aveva elaborato successivamente una sua teoria sulle espressioni facciali delle emozioni, basandosi su immagini che rappresentavano l'applicazione di elettrodi su di un paziente, la cui scossa provocava spasmi simili a determinate espressioni facciali. Darwin applicò un metodo simile senza far corso agli elettrodi, ma limitandosi a riprodurre naturalmente le espressioni facciali umane più comuni. Per fare ciò, raccolse un certo numero di fotografie disponibili sul mercato per costruire un corpus di espressioni emotive. Si accorse, poi, che avrebbe dovuto scattare lui stesso le fotografie per ottenere un corpus adeguato. Si mise in contatto con un pioniere della fotografia vittoriana, Oscar Rejlander, che si era specializzato in fotografie artistiche e manipolazioni fotografiche. Seguendo le richieste di Darwin, fece posare amici, parenti e a volte fece degli scatti anche a se stesso. Si ottennero delle fotografie con un sapore teatrale, dalle quali si evinceva che i soggetti fotografati simulavano le espressioni facciali più comuni; inoltre, in alcune incisioni vennero ritoccate con incisioni al tratto. Le fotografie di Darwin sembravano contribuire a rendere maggiormente fruibile il volume, assumendo una funzione di tipo retorico piuttosto che garantendo oggettività e scientificità al metodo utilizzato. Da questo esperimento si possono riconoscere alcune funzioni della fotografia: a) grazie alla fotografia fu possibile catturare un elemento appartenente alla sfera estetica nella sua ineffabilità ovvero le espressioni facciali. Le immagini vennero poi mostrare un pubblico, che doveva interpretarle per dimostrare la tesi dell'universalità dei significati attribuiti alle espressioni; b) l'artificiosità della messa in scena mostra un altro obiettivo perseguito da Darwin, ovvero quello di persuadere i lettori della veridicità delle sue affermazioni facendo leva sull'effetto convalidante che la tecnica fotografica sembrava garantire. L'interesse antropologico si spostò poi verso lo studio anatomico del volto, del corpo e del suo movimento. Su di questo argomento vennero fatti esperimenti da parte di Etienne Jules Marey e Edgar Muybridge, i quali utilizzarono specifiche apparecchiature che permettevano di effettuare scatti in tempi molto ravvicinati. Gli strumenti (cronofotografo, fucile fotografico) sfociarono poi nella nascita del cinematografo. In questo modo le tecniche fotografiche e cinematografiche entrarono a far parte delle nascenti scienze umane, rispondendo al bisogno di cogliere la dimensione estetica e visiva. L'utilizzo a-critico portò questo metodo ad essere ridotto ad una collezione di rappresentazioni visive, destinate a rimanere mute nei magazzini e negli archivi dei musei. Ci fu un grande impegno in un primo momento a collezionare documenti visivi al fine di provare l'esistenza di diversi tipi di umani (ci si riferisce alle razze) e arrivare ad una musealizzazione delle culture umane. Università prestigiose come Harvard istituirono progetti con questo scopo, il quale riecheggerà fino al 1850. Nei progetti venivano studiate anche le proporzioni somatiche delle persone appartenenti alle varie culture, il che aveva come obiettivo quello di arrivare a formulare una teoria evolutiva delle "razze" e delle caratteristiche culturali e intellettive di cui le fotografie dovevano fornire un'evidenza sperimentale. *[2.4 Il "campo" visivo]* La fotografia etnografica si sviluppò principalmente con le spedizioni sul campo, che produssero una gran quantità di documenti visivi. La prima spedizione fu quella già precedentemente anticipata, allo Stretto di Torres nel 1898-99. Si trattò di una spedizione interdisciplinare, di cui fecero parte studiosi di varia formazione, tra cui Haddon (biologo convertito all'antropologia). L'obiettivo della spedizione era la raccolta di dati e la costruzione di uno studio sulla vita dei nativi prendendo in analisi vari punti di visti. Tra i metodi utilizzati: raccolta di interviste, raccolta di genealogie, informazioni etnografiche, specimina, fotografie e riprese cinematografiche relative a rituali o a usanze locali. Haddon ebbe un ruolo primario nella nascita dell'antropologia moderna e nel suo sviluppo; egli ebbe infatti l'ideazione e l'organizzazione della spedizione. Ebbe un ruolo anche nella nascita dell'interesse per la dimensione visiva e ciò si tradusse nella presentazione di raffigurazioni chirografiche e fotografiche. Quali erano le finalità e i metodi con cui Haddon e i collaboratori utilizzavano la fotografia e la cinematografia? Innanzitutto, la problematica tipicamente positivista dell'oggettività; per potersi inserire tra le scienze naturali, l'antropologia doveva seguire un metodo scientifico che si basava sull'osservazione e sulla raccolta di campioni tangibili e classificabili. Il mezzo tecnico, considerato neutrale, sembrava garantire queste condizioni e veniva utilizzato come una prova di verità. Il fotografo doveva evitare ogni intervento soggettivo, standardizzando quanto più poteva le scelte raffigurative. A partire da questa prima spedizione e all'attività di Haddon, la fotografia inizierà ad essere sempre più utilizzata nelle ricerche sul campo. Malinowski, teorico dell'osservazione partecipante, realizzerà un numero di fotografie su vari aspetti della cultura delle isole Trobriand (Nuova Guinea). Malinowski nell'agenda Argonauti del Pacifico Occidentale (1922) espresse l'esigenza di studiare e documentare visivamente gli "*imponderabilia*" della vita, ovvero quelle azioni che rimangono verbalmente inespresse e ineffabili ma che sono una parte importante della reale sostanza della vita sociale. Questo tema apre altre strade alla fotografia e alla cinematografia, che verranno sviluppare da G. Bateson e da R. Flaherty. L'obiettivo centrale del nuovo metodo consisteva nell'osservazione e nella documentazione della vita quotidiana e quindi di quelle azioni che raramente sono oggetto di pensieri consapevoli; così si sviluppò l'impulso a fotografare portando all'enucleazione di tempi "imponderabili". Da qui, una serie di antropologi iniziarono ad utilizzare la fotografia come principale strumento. *[2.5 Gregory Bateson e Margaret Mead: una ricerca etnovisiva]* Cinema e fotografia sono stati due metodi ampiamente utilizzati, ma non sufficienti poiché mancava una teoria della visione e delle sue riproduzioni tecniche. Bateson e Mead si impegnarono nello stabilire l'uso che l'antropologia può fare delle immagini applicandolo ad una vera e propria ricerca etnovisiva. Il loro sodalizio professionale e personale si articolò come segue: a) nell'arco di un decennio (1929-1936) metteranno insieme un corpus di varie migliaia di fotografie su Bali, che verranno presentate nel volume *Balinese Character* (1942); b) produrranno una serie di riprese cinematografiche tra Bali e la Nuova Guinea, successivamente montate e sonorizzate dalla Mead in 6 brevi film (1950). Da quest'insieme di esperienza nacque il progetto di antropologia visiva, che diverrà poi una disciplina relativamente autonoma. Prima di conoscersi e sposarsi, entrambi avevano già fatto delle importanti ricerche sul campo: la Mead nelle isole Samoa e in Nuova Guinea, mentre Bateson fece uno studio sul rituale del travestimento degli Iatmul (*Naven*) sempre in Nuova Guinea. Il libro sul Naven portò alla scoperta da parte di entrambi dell'antropologia visiva. George Marcus (1985) definì il libro di Bateson come un saggio mancato, poiché caratterizzato fin dalle prime pagine da una tensione epistemologica e anti-riflessiva. Bateson secondo Marcus appare diviso da un doppio vincolo, dato dalla tradizione empirista inglese in cui si era formato e dai profondi interessi epistemologici che lo muovevano. Nel primo capitolo Bateson tratta dei problemi teorici e di metodo. In questo vengono subito rilevate delle difficoltà in merito al lavoro etnografico: la descrizione strutturale di una società non può esaurire il compito dell'antropologia, perché le culture devono essere comprese anche alla base di quelle che l'autore battezzò come il loro *ethos*, ovvero il retroterra emotivo. L'ethos secondo Bateson è il sistema standardizzato di organizzazione di istinti ed emozioni. Si osserva in una molteplicità di fatti e azioni culturali: nel portamento con cui le persone camminano o si muovono, nello stile e nell'atteggiamento corporeo durante il lavoro o le cerimonie, dalle decorazioni sul corpo, dalle maschere e dalle danze; ossia, tutti quegli aspetti della vita che sono in grado di veicolare sentimenti ed emozioni. Si intravede nel concetto di ethos l'influenza che l'antropologia statunitense ha esercitato su Bateson e sulla Mead. Come unire l'approccio struttural-funzionalistico (della ricerca di stabilità, ordine, base su dati empirici) con l'esigenza di cogliere e presentare le caratteristiche intangibili dell'ethos Iatmul? I caratteri di emotività e delle espressioni erano argomenti nuovi per l'antropologia, perché le scienze sociali tralasciavano tutto quello che si riconnetteva all'emotività. Le emozioni erano problematiche di cui si erano occupati gli artisti principalmente, che le esprimevano tramite le tecniche impressionistiche. Bateson affermava comunque che l'ethos era una causa attiva della cultura. Bateson riteneva necessario trovare un nuovo approccio, che fosse in grado di unire l'aspetto strutturale con quello emotivo, unendo così le due culture: scientifica e umanistica. Il tentativo di cogliere la dimensione emotiva della cultura è infatti affidato alla fotografia, poiché è in grado di cogliere gli aspetti emotivi che tendono a sfuggire nella descrizione verbale. La fotografia è una sorta di chiave di accesso a un aspetto della cultura che altrimenti rimarrebbe oscuro. Bateson, ritornando al concetto di doppio vincolo proposto da Marcus, sembra essere legato alla concezione empirista secondo la quale le immagini dovrebbero funzionare come prove neutre dell'esistenza di una realtà etnografica. Bateson ritiene che le immagini siano prove più convincenti che possono essere portate e sono superiori alle descrizioni verbali, che subentrano nel testo esattamente nel punto in cui le descrizioni verbali diventano problematiche. A Bali, Bateson e la Mead, realizzeranno una ricerca sull'ethos balinese tramite fotografie e riprese cinematografiche. La ricerca venne finanziata dal comitato per lo studio della *dementia precox;* l'importanza della *transe* e di comportamenti dissociativi suggeriva uno studio transculturale di tale patologia. A questo tema i due ricercatori aggiunsero quelli dei processi di inculturazione, problematiche di genere, allevamento dei bambini. A Bali lavorarono intensamente per afferrare quei concetti che così bene venivano presi dagli artisti, ma mai registrati con successo dagli scienziati; questo obiettivo verrà poi più concretamente perseguito tramite un grande numero di fotografie che ritraevano vari momenti della vita. Il progetto si concretizzò nel volume Balinese Character (1942) e le tavole che lo compongono presentano da cinque a nove fotografie, che verranno considerate dagli autori come "dati grezzi". Si trattava di un metodo comparativo ma non statistico, pensato per mostrare le interconnessioni tra i vari comportamenti che danno vita alla cultura libanese. Ragionare prima su quello che le fotografie mostravano, permise di capire che i gesti, rituali, abiti, segni non sono altro che le vitali incarnazioni di quel concetto chiamato "cultura", complete di tutto il contenuto emotivo. Oltre alle fotografie si occuperanno anche delle riprese cinematografiche; inizialmente la ripresa doveva essere utilizzata come una fotocamera e solo molti anni dopo la Mead decise di editare quel materiale cinematografico creando sei brevi film, ognuno dei quali affrontava un tema specifico in termini semplici e divulgativi. La Mead li montò, li post-sonorizzò e li accompagnò con un commento esplicativo fatto da lei stessa che aveva come obiettivo quello di fornire un'interpretazione esplicita delle immagini. Così, ancora una volta, le immagini vennero utilizzate come mero materiale grezzo. Durante la Seconda Guerra Mondiale, Bateson intraprese un tentativo di etnografia a distanza tramite l'osservazione di un film di propaganda nazista; questo studio rientrava in un progetto ampio sullo studio delle culture a distanza coordinato dalla Mead e da Rhoda Metraux. Bateson visionò il film *Hitlerjunge Quex* dalla cui vista egli poté mettere in luce alcune equazioni di base prodotte dal film che rinviano all'ideologia e al "modo di vita" nazista. Appaiono delle divisioni precise in categorie: nazismo-comunismo, maschi-femmine, fasce d'età e queste opposizioni vengono rafforzate visivamente da analoghe contrapposizioni di forme e di illuminazione. A seguito di questo studio approda ad una concezione mitica dell'immagine. Sono miti potenti in grado di veicolare una simbologia visiva (come valori ed emozioni). Dal lavoro di Bateson si aprono prospettive nuove e stimolanti per l'analisi di forme visive attuali (immagini pubbliche e mediatiche). La Mead anche dopo la separazione da Bateson continuerà ad occuparsi di questi temi, partecipando anche ad un convegno in cui si soffermò sull'importanza del metodo visivo, soprattutto a causa dei rapidi cambiamenti che stavano avvenendo (la globalizzazione che portava al rischio di vitalità delle culture). In un mondo destinato ad una rapida omologazione, l'antropologia visiva veniva vista come un'ancora di salvezza. *[2.6 Fotografie per la ricerca]* Nonostante gli studi di Bateson e Mead, le potenzialità della fotografia non furono pienamente sfruttate; essa, infatti, veniva sottoutilizzata dagli antropologi anche a causa del crescente interesse per il cinema etnografico e per l'antropologia dei media. Le immagini possono essere utilizzate in varie fasi della ricerca: a) possono costituire delle fonti di informazioni che l'antropologo raccoglie e che permette di avvicinarsi al campo tramite la mediazione del mezzo fotografico; b) permette di lavorare su fotografie altrui per ricavare altri dati e significati. In questo secondo caso l'antropologo può disporre di un grande numero di album, immagini di giornali, riviste, archivi che permettono di accedere a universi culturali particolari, alcuni del passato e per questo inaccessibili senza documentazione. Analizzare le fotografie scattate in prima persona oppure analizzare quelle di altri appartengono a due metodi totalmente diversi, ma ciò che li accomuna è la necessità di strumenti teorici che possano interpretare e valorizzare le scelte visive degli autori. Nel caso delle proprie foto, si fa riferimento ad un processo più semplice, mentre nel caso delle foto di altri, è necessario attuare un processo di decodifica dell'immagine. Quest'ultimo processo risulta essere più complesso, poiché non sempre si dispone delle informazioni sul contesto, anche se il corpus utilizzato e la relativa autonomia comunicativa possono garantire risultati interessanti. Oltre all'analisi di fotografie già esistite, l'antropologia visiva ha da sempre insistito sull'uso diretto della fotografia; tra quelli che si sono basati principalmente su questo metodo ci sono John Collier jr. e Malcom Collier (1967). Essi descrivono in un volume del '67 la ricerca etnografica come divisa in tre fasi: 1) fase preliminare di avvicinamento e familiarizzazione con il terreno, 2) tema specifico della ricerca viene prescelto, 3) sintesi e presentazione dei risultati. È un metodo che valorizza al massimo lo strumento fotografico. Gli studiosi ritenevano che fosse importante fissare le prime impressioni antropologiche avute sul campo, perché nel corso del tempo e della ricerca le distanze culturali iniziano ad essere sempre meno vivide fino a quasi a scomparire. Si fa fatica a mantenere l'attenzione sulle differenze culturali che si vorrebbero interpretare e così provare. Durante la prima fase è possibile fare vari tipi di rilevamento, il che permette di fissare i vari momenti di riflessione antropologica, come: lo studio dell'organizzazione spaziale del territorio che permette di avvicinarsi alla cultura (si possono usare sistematicamente le fotografie scattate da posizioni elevate per rilevare gli aspetti dei modelli insediativi, delle pratiche economiche e degli interventi sull'ambiente), rilevando aspetti sociali e culturali, di creare una mappa visiva che permette di fare una prima perlustrazione di ciò che i Collier chiamavano "superficie esterna della comunità", riferendosi alla forma che la cultura ha imposto al paesaggio in cui vive. Questo tipo di fotografie sono una base di partenza per delle interviste mirate ad ottenere informazioni aggiuntive e ulteriori (tecniche di elicitazione). Non sempre è facile far comprendere l'obiettivo della ricerca e il metodo utilizzato, sebbene si sia riuscito a superare il problema della lingua. La fotografia può diventare, come la chiamavano i Collier, una sorta di "apriscatole" poiché costituisce una tecnica ormai universalmente conosciuta in grado di costruire una base di dialogo che supera alcune difficoltà linguistiche e culturali. Nella seconda fase i Collier utilizzavano la tecnica di "inventario culturale": i beni contenuti in una casa e perfino la loro disposizione sono indici dello stile di vita familiare ed economico, oltre che essere codici estetici e simbolici, indicando una scala di valori. L'organizzazione spaziale della casa e del villaggio invia a sistemi simbolici più ampi come le cosmologie o gli universi mitologici. Le fotografie, oltre a rispondere a delle esigenze analitiche e di documentazione, sono in grado di cogliere anche l'ergonomia (studio che la posizione del corpo assume nel lavoro). Le fotografie di attività sociali collettive permettono di ricavare delle informazioni su componenti non verbali. Quando si fotografano delle interazioni sociali è importante tener conto della successione cronologica degli eventi, dell'organizzazione spaziale, così da cogliere il tono emotivo. È importante anche sottolineare che, quando le immagini sono scattate con il consenso del soggetto, si crea come un'autorappresentazione tramite cui il soggetto fotografato si presenta conformemente ad un modello che ha in mente. Questo è un aspetto su cui insiste Faeta nelle cui ricerche usa il metodo del ritratto; il soggetto nel ritratto riproduce l'atteggiamento corporeo che ritiene ci si aspetti mettendo così in scena la sua posizione sociale per restituire un'immagine che potrebbe essere definita come "teorizzata". Il soggetto ha il controllo sul messaggio della fotografia. Da parte del fotografo e da parte dei soggetti è importante fare uno sforzo di astrazione, in modo da fissare non tanto la realtà, ma la meta-realtà che rinvia alla struttura sociale. *[2.7 Interpretazione, elicitazione e restituzione]* Descriviamo ora la terza fase, che è importante per non ridurre le fotografie a oggetti di collezione ma per far sì che queste possano "parlare" tramite i metodi e gli strumenti di decodificazione visiva. Le immagini vengono costruire per orientare la percezione dello spettatore in una direzione precisa. Le immagini comunicano oltre le intenzioni dei loro autori e delle convenzioni culturali cui sono sottoposte. Si parla di *multi-vocalità* e *polisemicità*. Con questi due termini si fa riferimento ai vari livelli di comunicazione che coesistono: quello dell'autore, coloro che guarderanno l'immagine e che metterà in moto una serie di selezioni partendo dai propri interessi e inclinazioni. Le diverse interpretazioni sono date dalle diverse convenzioni culturali, dalle proiezioni soggettive, dall'attenzione posta su alcuni elementi piuttosto che su altri, etc. Per entrare in contatto con la visione altrui è necessario registrare e mettere a confronto le diverse interpretazioni delle immagini raccolte; dalle varie interpretazioni possono nascere delle discussioni, dei commenti, dei ricordi. La tecnica di foto-elicitazione mette il fotografo di fronte al problema della multi-vocalità. L'interpretazione antropologica si pone come una tra le tante spiegazioni scientifiche; Geertz parlava di "interpretazione di interpretazioni". L'antropologia si pone il problema della condivisione e del confronto dei vari punti di vista nelle rappresentazioni visive. Oggi si pone come obiettivo quello di negoziare dei significati all'interno di un circuito di *reciprocità interpretativa*. Si apre così la strada all'analisi transculturale della visione. Si è, inoltre, aperto un dibattito sul restituire le immagini antropologiche ai soggetti fotografati, i quali diventano spettatori di se stessi e così possono dare un'opinione sull'operazione antropologica, correggendo o modificandola per arrivare ad una rappresentazione che potessi efficacemente rispecchiarli. Così, l'antropologia non può sottrarsi al confronto con i soggetti locali. ***[CAPITOLO 3: LA NASCITA DEL CINEMA ETNOGRAFICO]*** *[3.1 Le esposizioni universali]* Le prime riprese cinematografiche antropologiche avvennero poco prima della data considerata come la nascita del cinematografo, 28 dicembre 1895 (Lumiére). Nella primavera di quello stesso anno, Felix L. Regnault (medico con interesse per antropologia, anatomia e medicina) fece alcune riprese con uno strumento cronofotografico, che fu inventato da Etienne J. Marey, invenzione che avviò una trasformazione della tecnica fotografica nella cinematografia. Regnault utilizzò l'apparecchio cronofotografico, il quale permetteva di scattare una sequenza di immagini in tempi ridotti, per documentare visivamente e dissezionare i movimenti corporei di alcuni abitanti dell'Africa occidentale e del Madagascar, che erano stati portati a Parigi per essere mostrati al pubblico. Le sequenze di immagini rappresentavano uomini, donne e bambini nell'atto di camminare, saltare, accovacciarsi di fronte allo strumento; vennero mostrate anche immagini in cui venivano compiute delle azioni più complesse, come quella di fabbricare un vaso in terracotta. I personaggi venivano ripresi a figura intera sullo sfondo dei padiglioni o su sfondi neutri con un cronometro posto di fronte al quadro per indicare il passaggio del tempo. La tesi che Regnault voleva provare era quella secondo la quale l'evoluzione delle "razze" è percepibile e visibile nel linguaggio dei gesti, i quale nelle "società inferiori", precederebbe il pieno sviluppo del linguaggio verbale. Così pensata, l'evoluzione umana veniva letta nei movimenti del corpo, idea che verrà ripresa dieci anni dopo da M. Mauss nel saggio *Tecniche del corpo* (1950). Nei filmati di Regnault i soggetti sono ridotti a "tipi" umani, rappresentativi del loro gruppo di appartenenza riprendendo tratti somatici (volti di fronte e di profilo, sguardi assenti che non puntano mai sull'obiettivo. L'ossessione di misurare i corpi degli Altri pervase tutta l'antropologia di fine Ottocento. Ad ogni modo, l'attività di Regnault non convalidò mai scientificamente l'esistenza delle razze, anche se darà luogo ad una reificazione (ovvero far accadere qualcosa) nella percezione umana. Persone di altre culture giunsero in Europa per essere esposte al pubblico, con abiti tradizionali e con sfondo luoghi che ricordavano quelli esotici. Regnault si basava su fondamenti scientifici o pseudoscientifici per provare la tesi dell'esistenza di "razze", unendoli a quelli dell'intrattenimento popolare. Regnault viene considerato come un precursore del cinema etnografico anche perché autore di scritti teorici sull'idea dell'archivio cinematografico. Il cinema permise, secondo R., la possibilità di catturare la vita anche di altre culture, per poi poterla analizzare standosene comodamente seduti in poltrona, il che era un atteggiamento che si iniziò a perdere a seguito degli studi di Malinowski sulla ricerca sul campo e l'osservazione partecipante. Le sequenze realizzate da R. così come quelle in loco e quelle dei primi ricercatori di campo, avrebbero costituito un archivio antropologico che avrebbe potuto essere utilizzato come laboratorio antropologico. L'eredità di R. fu una musealizzazione visiva delle culture, di stampo positivista che continuerà fino agli anni '60 del 900. *[3.2 Primi filmati dal campo]* Le cronofotografie di R. erano state fatte per essere studiate dai ricercatori. Il cinema delle origini non si poneva questa finalità. I fratelli Lumiére avevano iniziato a proiettare al pubblico francese e in contemporanea alcune case cinematografiche americane stavano sviluppando un interesse per gli strumenti inventati da Edison. I primi film si caratterizzarono per una ricerca dell'identità, esplorando vari temi e linguaggi, tentando di tener unite o legate le dimensioni dell'informazioni e dell'intrattenimento. Da qui nasce il film-documentario, in cui ci sono frammenti di vita mischiati a elementi di comicità. Come è stato detto precedentemente, la prima spedizione etnografica verrà fatta nello Stretto di Torres, dove sarà Hadden a occuparsi delle riprese, anche se il processo era difficoltoso e impegnativo a causa delle dimensioni e del peso degli strumenti. Spinto da Hadden, in seguito Rudolph Poch fece delle riprese durante le spedizioni in Nuova Guinea e in Africa Australe, con l'ausilio di un fonografo Edison. Le riprese di Poch vennero fatte senza aiuto umano e la cinepresa girava autonomamente riprendendo sprazzi di vita quotidiana e domestica. A volte nelle riprese c'è anche Poch. Anche in questo caso l'uso del cinema parte dall'obiettivo di collezionare oggetti umani. L'antropologia visiva nasce in un clima culturale controverso, lo stesso in cui ha avuto origine l'antropologia generale. Nasce dall'esigenza politica e storica di affrontare e controllare la diversità culturale, partendo dall'idea di una linearità nell'evoluzione delle culture. Questa idea spiegava le diversità e giustificava la "missione civilizzatrice" dell'Occidente e la tendenza a "biologizzare" le differenze sviluppando una teoria sull'esistenza delle razze. Quest'insieme di interessi furono propri delle fotografie e della cinematografia etnografica, che vennero utilizzate tramite una reificazione l'esistenza di una differenza tra culture e l'esistenza razze. In seguito, la disciplina si orientò verso altri interessi, che andavano oltre l'evoluzione culturale e il razzismo. Negli Stati Uniti, Franz Boas che era un sostenitore del metodo storico, contribuì alla nascita di un nuovo sguardo e interesse dell'antropologia americana. Egli aveva come intenzione quella di catturare le concrete espressioni della vita culturale delle singole comunità (Kwakiutl della Columbia britannica). Egli stesso fece alcune riprese e trasmise ad alcune delle sue allieve (Mead, K. Dunham, Zora N. Hurston) l'impegno per creare una cinematografia che permetteva di tradurre in immagini l'attenzione alla particolarità culturale. L'allontanamento dal paradigma evoluzionista avvenne in America grazie a Boas, mentre in Inghilterra s verificò con l'intensificarsi della ricerca sul campo, il che venne favorito a causa della grandezza dell'impero coloniale britannico. Con le spedizioni sul campo si creò una nuova figura dell'etnografo, generando un nuovo paradigma teorico. Le spedizioni vennero fatte in diversi parti del mondo e il metodo dell'osservazione partecipante verrà formulato esplicitamente solo in seguito alla Prima Guerra Mondiale. Questa pratica venne sviluppata da Malinowski nel 1922, il quale dichiarava in un suo testo che solo un soggiorno intenso e prolungato presso la popolazione nativa poteva rendere possibile tale pratica. L'anno 1922 viene simbolicamente riconosciuto come l'anno di nascita dell'antropologia moderna. La ricerca di Malinowski si volte in una dimensione spazio-temporale innovativa: la pratica si sviluppò in un tempo decisamente lungo, che l'antropologo passò in un'unica località dell'arcipelago delle isole Trobriand. La spedizione fatta allo Stretto di Torres ebbe un'impostazione diversa: l'equipe multidisciplinare poteva spostarsi in un'area ampia, passando poco tempo nei vari contesti culturali e per questo le osservazioni vennero fatte con una "distanza" dai nativi a causa del breve periodo che potevano passare in ogni luogo. La distanza venne ulteriormente amplificata dalle differenze linguistiche. Le ricerche di quel periodo erano ricerche estensive (breve lasso di tempo, territorio geografico ampio). Malinowski visse nelle isole Trobriand per due anni circa (1916-18) mentre impazzava la Prima Guerra Mondiale, riuscendo comunque a portare a termine le ricerche a sviluppare un nuovo metodo. Il 1922 fu anche l'anno in cui si realizzò il primo documentario della storia del cinema: *Nanook of the North* realizzato da Flaherty. Egli realizzò in termini cinematografici delle innovazioni più generali ma comunque simili a quelle che portò Malinowski; inoltre, come lui sviluppò un film presso gli Inuit della Baia dell'Hudson. *[3.3 L'etno-cinematografia empatica di Robert Flaherty]* Flaherty nacque nel Michigan nel 1884, da una famiglia irlandese. Il padre era un geologo dal quale ereditò l'interesse per la geologia e per la mineralogia, oltre che per le esplorazioni. Fin dalle sue prime realizzò delle sequenze cinematografiche, anche se in seguito in cinema diverrà l'obiettivo principe del suo lavoro. Il documentario del 1922 venne finanziato dalla casa di produzione di pellicce Revillon Freres di Parigi. La ricerca si sviluppò in vari mesi passati nel luogo degli Inuit. La qualità della relazione, fatta di fiducia e collaborazione permise la ripresa di scena con un grande valore. Venne ripresa la loro vita quotidiana in loco, il che rappresentava un esperimento nuovo e ancora incompiuto, che avrà poi grande successo per il pubblico e per la storia del cinema. Mostrare la vita quotidiana in un ambiente così avverso richiese l'uso di tecniche e soluzioni espressive nuove. A quel tempo l'attrezzatura per la ripresa era ingombrante e difficilmente trasportabile, il che portò Flaherty a inventarsi una serie di trucchi cinematografici per ovviare ai numerosi problemi. Il film di Flaherty riporta al problema dell'oggettività e della soggettività, al quale sarà in grado di dare una soluzione nuova: nelle registrazioni precedenti la realtà veniva messa di fronte all'obiettivo, sfruttando la meccanicità (sinonimo si pensava di neutralità) per riprendere costumi e tratti somatici; Flaherty tentò di restituire al pubblico la propria visione della realtà tramite linguaggi e tecniche cinematografiche nuove, *Nanook of the North* presenta innovazioni tecniche e nei temi delle riprese. Racconta di persone reali, nel luogo in cui vivono. Per comprendere realmente il senso dell'esperimento di Flaherty è importante acquisire alcuni elementi generali del linguaggio cinematografico. RIQUADRO 3.1 Metz, riprendendo una nozione antropologica di Mauss, suggerì che il cinema fosse un fatto sociale totale. Il cinema coinvolge aspetti produttivi, economici, sociali e comunicativi molto ampi. Nell'antropologia l'aspetto che più interessa è quello del linguaggio cinematografico. La produzione e l'utilizzo dei film antropologici sono aspetti influenzati dal contesto istituzionale dell'antropologia stessa. Nel cinema antropologico questioni come mercato, finanziamenti, organizzazione delle riprese e distribuzione dei film spesso rimanevano legate alla ricerca e alla divulgazione accademica, lontano dai circuiti tradizionali di diffusione audiovisiva. Alcuni film etnografici più riusciti riuscivano a superare questi limiti raggiungendo un pubblico più ampio. Aspetti distributivi e produttivi che appartenevano alla sociologia del cinema non sono centrali nel dibattito sul cinema antropologico. La riflessione si concentrava più sulla teoria dei film, sull'analisi dei singoli prodotti e della loro struttura testuale (ambito della semiologia del cinema). La semiologia ritiene che il cinema sia un linguaggio, che opera con regole e convenzioni. La semiologia del cinema attinge a strumenti concettuali e alla sua prospettiva di base della linguistica. Ci sono alcune cose che differiscono dal linguaggio visivo e del cinema da quello verbale: il cinema ha un linguaggio pluricodicale (formato da diversi codici) alcuni specifici altri no. Il cinema usa codici che si sono sviluppati in altri ambiti comunicativi ma che sono fondamentali per comprendere le immagini cinematografiche. Il codice prospettico, per esempio, si basa sulle percezioni convenzionali della tridimensionalità. Le competenze linguistiche, letterarie e iconografiche sono utili per comprendere il significato del film, che può anche essere complesso. I codici specifici, ovvero dei sistemi di significazione esclusivamente utilizzati nel cinema, sono quelli all'interno dei quali l'autore compie le sue scelte espressive (tipi di inquadrature e le loro connessioni sintattiche). Le inquadrature sono fotogrammi che si succedono dall'accensione allo spegnimento del dispositivo; nelle sequenze c'è una continuità spazio temporale che si tende a rispettare. Le sequenze creano il testo filmico. I principali codici specifici sono: 1) *tecnologici di base* come il tipo di supporto, la velocità di scorrimento, lo schermo; 2) *visivi*, ovvero iconografici, fotografici, mobilità del punto di vista e del soggetto ripreso; 3) *grafici*, come didascalie, titoli, sottotitoli; 4) *sonori*, come voci, rumori, musica, la loro collocazione; 5) *sintattici/di montaggio*, come i tipi di raccordi o le associazioni con le inquadrature. Il processo parte dalle inquadrature, che poi generano le sequenze e poi si procede con il montaggio. Quest'ultimo permette la strutturazione del discorso filmico. Nel documentario questa fase viene descritta come "opera di testualizzazione", ovvero di strutturazione spazio-temporale. Il discorso filmico si genera temporalmente, tempo in cui si crea il significato del film. Il montaggio è molto complesso, soprattutto a causa della compresenza di più codici. La costruzione del senso nel film viene fatta tramite due piani: filmico e diegetico (dal greco, significa "esporre dettagliatamente", "descrivere"). Quest'ultimo ha una derivazione aristotelica e definisce il racconto (che è l'insieme dei contenuti narrativi di un discorso). Nel caso di un testo cinematografico, il film rappresenta una diegesi, ovvero una narrazione. Il ricorso a questi due livelli permette di tenere separato il piano del significato e quello del significante (modo in cui rappresenti). *[3.4 Definire il documentario]* Ci soffermiamo ora sulle specifiche del linguaggio documentaristico, così da individuare le differenze tra cinema narrativo e documentario. Il documentario ha delle modalità produttive, canali di comunicazione in cui si inserisce, porzione del mercato cinematografico e televisivo che occupa sono totalmente differenti da quelli del cinema. Nichols nel 1991, disse che il documentario era un modo per rappresentare la realtà; infatti, permette di riprendere dei frammenti di situazioni reali colte sul fatto, selezionandole e ricomponendole. La distanza tra la realtà e la rappresentazione è certamente minore nel documentario, mentre nel cinema è più ampia. Il cinema, a differenza del documentario, fa ricorso ad attori e scenografie ricostruite. Il documentario permette di instaurare un rapporto stretto con la realtà storica e culturale. Lo spettatore si aspetta che ciò che vede nel documentario rappresenti in maniera fedele i fatti e a questo proposito Geertz sottolinea che "i fatti non parlano mai da soli". Nel film documentario già la rappresentazione dei fatti implica un processo di interpretazione e per questo la rappresentazione della realtà in un film etnografico implica una particolare interpretazione. Il cinema narrativo crea una realtà da capo (ex novo) in cui lo spettatore prova ad immedesimarsi e così anche il documentario crea una realtà soggettiva e particolare (crea un testo filmico). Il film, dunque, non rappresenta semplicemente uno spazio e un tempo così come sono, ma li costruisce attraverso un montaggio di immagini pensate con precisi obiettivi comunicativi. Non si può pensare che un film solo perché realizzato con una macchina da presa possa offrire un'immagine perfettamente fedele della realtà e che questa possa arrivare allo spettatore in modo puro e senza essere filtrata. Nel cinema-documentario e nel cinema di finzione non c'è alcuna netta separazione, ma piuttosto un continuum di modalità narrative, alcune si limitano a intervenire poco sulla realtà ripresa (profilmico), altre creano mondi totalmente immaginari. La differenza sta nel tipo di adattamento della realtà, che ogni rappresentazione propone. Per definire i tipi di adattamento alla realtà i teorici fanno riferimento al coefficiente di indessicalità (riferimento al contesto e quanto varia al suo variare). Nel documentario è più alto. Il segno visivo e l'immagine documentaristica hanno un alto livello di incontrollabilità. Ci sono alcuni frammenti di realtà sono ancora carichi di una loro autonoma realtà e così giungono allo spettatore, rendendosi disponibili a interpretazioni diverse da quelle date da chi film. Il documentario è una narrazione da leggere e interpretare, ma allo stesso tempo si tratta di un deposito delle tracce di una realtà che può essere interpretata e letta in vari modi. *[3.5 Analisi testuale di Nanook of the North]* La tecnica del decoupage permette di decostruire un testo filmico (che ricordiamo essere costituito da più codici) nelle varie composizioni. Questo avviene con una segmentazione del testo filmico nelle unità significative, che verranno descritte verbalmente (la descrizione verrà fatta tramite una scelta di parametri presi a seconda dell'analisi che si vuole fare). La descrizione verbale non permette di cogliere in maniera esaustiva i significati contenuti in esse, poiché tende a ridurli ad alcuni ambiti semantici che il film privilegia. L'analisi testuale permette di ridurre la complessità del discorso filmico, permettendo di evidenziare la struttura e il funzionamento. Come abbiamo visto il film si compone di inquadrature che vengono montate in sequenze. La prima operazione di analisi del testo filmico è la segmentazione/suddivisione in sequenze il che rende possibile cogliere la struttura generale del film. La seconda operazione di analisi è l'analizzazione delle sequenze, descrivendo ciascuna inquadratura sulla base dei parametri prescelti. In entrambe le fasi, la segmentazione permette di arrestarsi su ciascuna immagine per consentirne un'analisi puntuale. Nanook of the North \- costituisce l'archetipo stesso del documentario. \- le sequenze cinematografiche sono grandi unità sintagmatiche dotate di una certa autonomia nell'economia del discorso filmico. Le sequenze si conformano alla regola aristotelica dell'unità di tempo, di luogo e di azione: una sequenza presenta una certa azione che si svolge in un tempo e in uno spazio. I passaggi tra una sequenza e un'altra comportano un cambiamento, che può essere marcato da un indicatore esplicito (dissolvenza), oppure può non essere marcato e le due sequenze sono direttamente concatenate. \- Nanook si compone di 12 sequenze (separate in modo marcato da un inter-titolo) \- 79 minuti \- sequenza 1: lunga presentazione contesto di produzione del film, vicende che lo hanno preceduto. I testi delle didascalie scritti utilizzando la prima persona singolare (percepiti i ricercatori come protagonisti invisibili dell'intero lavoro). \- sequenza 2: mistero delle "terre sterili" del circolo polare artico il che fornisce una breve introduzione all'ambiente che farà da sfondo alle vicende dei personaggi. \- sequenza 3: presentazione dei personaggi della storia "capo degli Itivimuits" (Nanook), moglie Nyla, sequenza kayak con intera famiglia di Nanook; a questo punto gli elementi fondamentali e lo stile della narrazione sono già stati introdotti. \- sequenza 4: Nanook e famiglia vanno presso la casa di un commerciante di pellicce ("il grande igloo dell'uomo bianco"); avviene un incontro di culture N. mostra i figli e i cuccioli di cane orgogliosamente, mentre l'uomo occidentale propone cibi esotici. Nanook vive in un mondo che sta per scomparire, dove la "civiltà" è giunta con i suoi beni consumistici. Gli Inuit, comunque, combattono ancora contro le avversità della natura, alle quali spesso soccombono (come succerà a Nanook dopo due anni dalla produzione del film). \- sequenza 5 alla 12: serie di attività quotidiane pesca al salmone sulla banchisa, pesca al tricheco, spostamenti necessari al reperimento del cibo, costruzione di un igloo provvisorio necessario durante lo spostamento, scene di vita familiare, viaggi sulla banchisa, caccia alla foca, notte polare che scende sulla storia di Nanook e della famiglia. Il film è stato progettato per mettere in scena la storia di Nanook. La particolarità di questo film-documentario sta nel fatto che i personaggi non sono impegnati a recitare, ma conducono semplicemente la loro vita quotidiana davanti a una cinepresa. Flaherty, per fare questo, ha trasferito delle conoscenze elementari di cosa fosse il film-etnografico spiegandone strumenti, obiettivi, finalità. Portava il materiale sul campo, così da poterlo mostrare agli Inuit. Questo processo e la collaborazione che gli Inuit diedero alla realizzazione del film dipese anche dalla familiarità che si costruì Flaherty con gli Inuit (conoscendone la lingua). Così facendo, Nanook e i suoi compagni poterono sentire come proprio il progetto del film. La tecnica e il linguaggio utilizzato sono complessi la struttura della narrazione procede articolando numerosi piani, molti dei quali ripresi in tempi diversi; era una tecnica che richiedeva una scala di montaggio stabilita prima delle riprese. Espediente per filmare all'interno di un igloo prima si pensò a costruire un igloo grande il doppio rispetto al normale, così che potesse ospitare l'ingombrante attrezzatura di ripresa, ma dopo il crollo di due igloo si pensò di "tagliare a metà" un igloo di dimensioni normali per poter avere sufficiente spazio per l'attrezzatura e per poter fare uso dell'illuminazione naturale; si ottenne un "effetto notte". Caccia alla foca si divide in due parti: una che descrive la caccia vera e propria, l'altra che mostra l'arrivo dei componenti della famiglia che vengono ad aiutare Nanook per il recupero della foca, per lo sventramento e per consumarla. La prima parte è composta da 19 inquadrature. La volontà narrativa di Flaherty si esprime chiaramente nel montaggio, che articola inquadrature diverse anche di durata molto breve. Per avere a disposizione materiale sufficiente secondo questo stile, le riprese vennero progettate secondo un piano prestabilito. Il metodo coniuga una grande familiarità con il campo e con la disponibilità degli informatori a collaborare in vista del risultato filmico. *[3.6 Sviluppi del documentario]* Dopo Nanook si iniziarono a produrre più film documentari. Ci fu un'innovazione delle tecniche cinematografiche, infatti vennero utilizzate quelle da 16mm. (1923) Flaherty nel 1926 realizzò Moana, che fu meno felice dal punto di vista commerciale. Successivamente, collaborerà con Murnau per la realizzazione di un film di finzione, Tabu, girato in Polinesia nell'isola di Bora Bora. Nel 1934 Flaherty realizzò Man of Aran, isola del nord dell'Islanda, in cui ritorna il tema della lotta contro l'ambiente ostile. Nel periodo tra il 1920 d il 1930 emersero cineasti orientati al documentario il che permetterà il consolidamento del genere, il quale si articolerà in altri quattro filoni, orientandosi a tematiche differenti. In GB, John Grierson si interessò ai fenomeni sociali contemporanei. Sviluppò una critica al "positivismo" e al "romanticismo", riconoscendo che Flaherty era come indifferente alla contraddizione del mondo moderno e alla ricerca del "buon selvaggio". I temi esotici affascinarono i cineasti: Cooper e Schoedsack (King Kong) realizzarono *Grass*, in cui si illustra una transumanza verso la Turchia; Basil Wright girerà Song of Ceylon; sarà l'opera di Dziga Vertov a stimolare la riflessione per un cinema della realtà. Egli, influenzato dal futurismo, progettò un esperimento insieme ad altri cineasti (kinoki: cinema, occhi). Secondo Vertov la tecnica cinematografica poteva garantire uno sguardo ampio e perfettibile rispetto a quello umano. Nel 1926 realizza un documentario sull'Unione Sovietica in cui vengono presentate le repubbliche socialiste dell'Unione Sovietica, mostrando i vari ambienti naturali e culturali. Con questo, Vertov andò oltre la produzione documentaristica per esplorare le potenzialità di un linguaggio cinematografico contrario alle convenzioni della fiction. Nel 1929 realizzerà il suo capolavoro: *l'uomo con la macchina da presa*, con il quale propose un antidoto alle convenzioni che già stavano nascendo nel cinema \- kinopravda: cinema-verità, con cui il cinema si impegnava a raccogliere frammenti attuali. Il film del 1929 fu un caleidoscopio di immagini di vita quotidiana di Mosca e Unione Sovietica, riprendendo lo stile delle "sinfonie metropolitane" di Pinelli. Il tema centrale è il cinema stesso e il rapporto e l'interazione che esso ha con la realtà. Il cinema verità si trasforma in una realtà puramente cinematografica. Secondo Vertov il cinema è vero quando parla di sé. Il cinema fa un meta discorso autoriflessivo, aumentando la distanza tra vita e mondo vissuto. La ricerca della verità e dell'attualità conducono Vertov all'abbandono dell'istanza realista, a favore di un cinema che sembra essersi come ripiegato su se stesso. Questo sarà un esperimento che rimarrà isolato. Gli anni '20 e '30 del '900 sono l'epoca d'oro del documentarismo, ma comunque la distanza tra cinema e antropologia permane. I tentativi di utilizzare il cinema nella ricerca antropologica appaiono come inconsapevoli delle potenzialità espressive e linguistiche del cinema. I pochi filmati realizzati nel corso delle spedizioni sono improntati all'utilizzo quasi meccanico della cinepresa, ignorandone la sintassi. I film di quegli anni rimangono come documenti grezzi di esperienze di campo, utili alla raccolta di dati, ma con poca autonomia espressiva. In Francia, Marcel Griaule incoraggerà l'utilizzo del film nella raccolta di dati etnografici, considerando il cinema come un mezzo utile per collezionare immagini in movimento. Dopo la II Guerra Mondiale, alcuni antropologi iniziarono a considerare il cinema come un linguaggio da utilizzare per dare luogo a delle particolari rappresentazioni etnografiche, diverse da quelle scritte e altrettanto efficaci nel rendere conto dello sguardo antropologico. È un passaggio, questo, che richiede un'alfabetizzazione cinematografica degli antropologi, con la quale si svilupparono metodi e riflessioni specifiche ai temi della visione. RIQUADRO \- il formato 16 mm permise un trasporto più semplice e porterà all'introduzione del sonoro. \- il primo film sonoro *The jazz singer*, del 1927. \- prima la registrazione dei suoni avveniva sui rulli di cera, la sincronizzazione con le immagini era complessa. \- successivamente venne messa a punto la trascrizione fotoacustica. \- possibilità di rappresentare la realtà \- nel secondo dopoguerra verranno messe a punto delle attrezzature di ripresa leggera del suono direttamente sincronizzabili con la macchina da presa. Solo così il documentario potrà registrare in diretta i suoni sincroni, consentendo di filmare interviste, conversazioni, dialoghi, in uno stile che verrà definito come "cinema diretto". ***[CAPITOLO 4: FILMARE L'INVISIBILE]*** *[4.1 Osservatori osservati]* Tecnica fotografica fotografia etnografica cinema antropologico, fu un'evoluzione che permise la differenziazione globale di immagini che mostravano l'alterità culturale. Furono rappresentazione che rimasero impresse nell'immaginario occidentale. Da una raffigurazione razzista, oggettivante si passò con il progresso della ricerca sul campo, ad una diminuzione delle distanze fino ad arrivare a una rappresentazione visiva dell'altro, mettendo in luce i tratti comuni all'umanità e all'osservatore. Prima i "primitivi" venivano ridotti a oggetti da osservare e a "catturare" con la fotografia, ma solo vent'anni dopo poterono alzare lo sguardo: non erano più oggetti da osservare, ma potevano guardare gli osservatori anche a discapito delle distanze e della lingua. Si parla di sguardi incrociati: l'antropologia riesce a trovare uno scambio e una comprensione permettendo di diminuire le distanze tra osservatori e osservati. Il cinema di finzione si propone di rispondere all'esigenza di trasparenza del mezzo cinematografico: è necessario che lo spettatore si dimentichi di star osservando un film e che si abbandoni all'illusione. Il fatto che il personaggio guardi in camera fa sì che l'illusione si rompa, poiché denuncia l'artificio cinematografico, la finzione del film, mettendo in risalto le due realtà parallele. La trasparenza del mezzo cinematografico si connette con l'obiettivo del cinema di ricreare la realtà nel mondo più credibile e vero somigliante. Bazin in un saggio classico di teoria del cinema scrive che la fotografia e la cinematografia hanno aspirato a imitare la natura, fino a ricrearla idealmente, illusoriamente. Con il cinema e la fotografia, le altre arti figurative si concentrano più sull'astrattismo e abbandonarono il realismo. Il cinema si occuperà di riprodurre illusoriamente la realtà o, meglio, di rappresentare realisticamente le illusioni. Gli anni '20 del '900 videro un grande numero di cineasti reagire al cinema dedicato alla costruzione di mondi fittizi, tramite la sperimentazione di linguaggi cinematografici in grado di raccontare mondi esistenti, situazioni reali. Nasce, così, il documentario, il quale instaura con la realtà un diverso regime di rappresentazione. Il documentario, comunque, rimane un discorso "visivo" sulla realtà, così come il cinema in generale rimane un linguaggio. I film documentari assumono una posizione antiletteraria e anti-teatrale, in opposizione alla posizione di trasparenza dei procedimenti cinematografici. Per essere maggiormente realistico il cinema deve esplicitare la sua natura discorsiva e per fare ciò deve mostrare i propri artifici; deve lasciar percepire la presenza della macchina da presa. L'opacità (la visibilità) del mezzo cinematografico permette al pubblico di tenere a mente la natura testuale del film. La trasparenza induce lo spettatore a illudersi di sprofondare in un mondo fittizio, mentre l'opacità favorisce la consapevolezza di entrare in relazione con una particolare rappresentazione di personaggi e mondi reali. Flaherty spezza la convenzione della trasparenza, poiché Nanook fissa il pubblico stabilendo un rapporto diretto con esso. Flaherty accoglie e sostiene gli sguardi dei suoi personaggi, non impone il proprio punto di vista, non esercita il potere di un'osservazione unilaterale, ma accetta la reciprocità degli sguardi che incrociandosi innescano una comunicazione emotiva. Lo sguardo in camera ha come funzione di "decostruire" la macchina da presa, oltrepassandola per arrivare ad avere un rapporto diretto con gli spettatori e diminuire le distanze tra mondo cinematografico e reale. Con l'avvento del sonoro, gli sguardi in camera si trasformano in dialoghi e interviste. Il cinema in cui i protagonisti parlano direttamente al pubblico sarà realizzato solo verso la fine degli anni Cinquanta, grazie all\'invenzione di apparecchiature leggere per il sonoro sincrono. Tuttavia, anche prima di quel periodo, alcune sperimentazioni cinematografiche iniziano a ridurre la distanza tra spettatori e personaggi, usando tecniche di ripresa e linguaggi diversi da quelli del cinema tradizionale, che cercava di nascondere il punto di vista. Con queste nuove tecniche, il documentario posiziona lo sguardo dell\'osservatore in un punto preciso, evitando di far sembrare il punto di vista universale. L\'osservazione diventa così un\'attività soggettiva e dinamica, riconoscendo che non è possibile rappresentare la realtà in modo oggettivo e univoco. RIQUADRO \- 16 mm permetteva delle riprese dinamiche. \- era una macchina a mano, la quale suggeriva la presenza di un occhio e di un corpo dietro. \- l'occhio meccanico viene ri-umanizzato; si parla di inquadrature in soggettiva. \- ci saranno delle conseguenze epistemologiche sulla costruzione delle rappresentazioni visive: svelato un punto di vista particolare, c'è una relativizzazione dello sguardo. \- "Cavalieri divini" di Maya Deren *[4.2 Maya Deren ]* Eleonora Derenkowski fu una figura fondamentale del panorama dell'avanguardia cinematografica americana. \- famiglia di ebrei russi emigrati negli USA \- il padre fu allievo di Pavlov e uno psichiatra, il quale gli trasmise l'interesse per i fenomeni psichici e parapsicologici. \- si dedicò agli studi di poesia e letteratura, per poi interessarsi alla danza. Collaborerà con Dunham tramite cui conoscerà Boas. \- due eventi importanti che la introdurranno al mondo del cinema: 1) alla morte del padre Maya utilizzerà l'eredità del padre per comprarsi una cinepresa 16 mm; 2) incontro con Sasha Hammid, cineasta cecoslovacco \- realizzò sei film, alcuni dei quali non riuscirà a completare e a montare; il terzo marito della Deren (Tejei ito) monterà il film girato ad Haiti. I film sperimentali di Maya Deren esplorano temi legati al sogno, alla visione trascendentale, all\'esperienza del corpo, alla danza e agli stati di estasi e trance. Questi argomenti, che riflettono gli interessi del padre di Deren, erano già stati trattati da lei in un saggio del 1942, Religious Possession in Dancing, pubblicato sulla rivista Educational Dance. In questi lavori, Deren esplora il corpo, la possessione e la danza, che sono anche i temi centrali delle sue ricerche in Haiti, dove ha realizzato uno studio sui rituali vudù. Nel 1946, dopo aver acquisito una certa notorietà nel mondo del cinema, Deren ottenne finalmente un finanziamento dalla Guggenheim Foundation per intraprendere un progetto antropologico sul vudù haitiano. Prima di partire, incontrò ripetutamente Gregory Bateson e Margaret Mead, noti antropologi, con i quali aveva discusso la funzione sociale della danza, grazie a seminari organizzati da Franziska Boas a New York. Questi incontri riflettono l\'interesse antropologico di Deren, che, pur n