Dispensa di Management della Qualità PDF
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Summary
This document is a course outline on Quality Management. It explores various definitions, models like Kano and GAP, and methods for measuring customer satisfaction, including Net Promoter Score. It discusses different approaches to quality, including objective and subjective aspects, as well as process improvement methodologies. The document covers concepts related to quality of products, processes, and the overall organization.
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Dispensa del corso Management della Qualità Prof.ssa Maria Giovina Pasca Indice Modulo 1 1. Qualità: definizioni 2. Evoluzione della qualità 3. I guru della qualità 4. I principi del Total Quality Management Modulo 2 5. Orientamento al cliente 6. Modello di Kano 7....
Dispensa del corso Management della Qualità Prof.ssa Maria Giovina Pasca Indice Modulo 1 1. Qualità: definizioni 2. Evoluzione della qualità 3. I guru della qualità 4. I principi del Total Quality Management Modulo 2 5. Orientamento al cliente 6. Modello di Kano 7. Modello dei GAP 7.1.Modello dei GAP di Valdani e Busacca 8. Metodi di misurazione della customer satisfaction 8.1.Metodo di Kano 8.2.Metodo Servqual 8.3.Altri metodi di rilevazione della customer satisfaction 9. Il Net Promoter Score 10. Strumenti di ascolto del cliente 10.1. La customer satisfaction 10.2. Progettare un sistema di ascolto 10.3. L’ascolto diretto 10.3.1 L’intervista in profondità 10.3.2 Il focus group 10.3.3 Il questionario 10.3.3 Cassetta dei suggerimenti/reclami 10.4. L’analisi dei dati interni: la gestione dei reclami 10.5. L’osservazione dei clienti 10.5.1 Il cliente misterioso 10.5.2 La fidelity card Modulo 3 11. La gestione per processi 11.1 Definizione di processo 11.2 Distinzione tra gestione per funzione e gestione per processi 11.3 Come si rappresenta un processo 11.4 Indicatori e processi 11.5 Classificazione processi 11.6Mappatura processi 12. Il miglioramento continuo 13. Le metodologie di miglioramento 13.1 La lean 13.2 Il miglioramento su base giornaliera (o DRW) 13.3 Il benchmarking 13.4 Il Quality Function Deployment 13.5 Il Six Sigma Modulo 4 14. Gli strumenti per il miglioramento 15. Il piano di miglioramento 16. La certificazione del Sistema di Gestione Qualità 1.Qualità: definizioni La qualità può essere riferita ad un prodotto o ad un servizio. Un prodotto ha le seguenti caratteristiche: tangibilità (ha una dimensione fisica), non prevede un coinvolgimento con i clienti, ha delle specifiche precise, vi è un gap di tempo tra quando viene prodotto e quando viene utilizzato, prevede un controllo della qualità e la gestione del magazzino e gestione del processo di consegna del prodotto. Mentre, i servizi sono intangibili, prevedono un alto coinvolgimento e interazione con i clienti, simultaneità tra produzione e consumo, variano continuamente, e sono caratterizzati da deteriorabilità e non sono immagazzinabili. Negli ultimi anni, quasi tutte le offerte di prodotto sono costituite da un mix di prodotti e servizi (esempio: servizi di car sharing dove si usufruisce del servizio tramite una piattaforma per utilizzare la macchina). Esistono diverse definizioni sul tema qualità. Qualità può essere intesa come una caratteristica per indicare un livello di soddisfazione; o come una proprietà alla quale si associa un livello di eccellenza. Qualità: 1. qualsiasi caratteristica, proprietà o condizione di una persona o di una cosa che serva a determinarne la natura e a distinguerla dalle altre: qualità positiva, negativa; qualità fisica, morale; le qualità chimiche della materia; una persona con molte buone qualità; merce di prima, di seconda qualità; un prodotto di buona, di cattiva qualità 2. caratteristica o proprietà positiva: non mi interessa la quantità, ma la qualità; una persona piena di qualità, di pregi, di doti 3. specie, varietà (detto di cosa): mele di qualità diverse; fiori di tutte le qualità 4. (filos.) proprietà di un giudizio di essere affermativo o negativo 5. insieme delle caratteristiche che rendono un prodotto o un servizio conforme a determinati requisiti: certificato, garanzia di qualità. La qualità è intesa come ".. il grado con cui un insieme di caratteristiche intrinseche soddisfa i requisiti" Grado: categoria di valori assegnati a prodotti/servizi che svolgono la medesima funzione (hotel, biglietto ferroviario..). Intrinseche: caratteristiche tecniche del prodotto. Requisiti: esigenze espresse, implicite o cogenti. Altre definizioni: “La qualità è conformità ai requisiti” (Crosby) “La qualità è adeguatezza all’uso.”(Juran) “La qualità è la soddisfazione del cliente e dei suoi bisogni” (Deming) Ci sono due aspetti comuni alla Qualità: uno è relativo alla qualità di una cosa (ASPETTI OGGETTIVI), l’altra ha a che fare con ciò che pensiamo, sentiamo come risultato della realtà oggettiva. Ossia esiste un lato SOGGETTIVO della qualità (Shewhart). Sostanzialmente, possiamo individuare due contenitori logici, la “qualità oggettiva” e la “qualità soggettiva”, che esprimono in sintesi i due principali approcci. La qualità oggettiva è un concetto strettamente correlato al prodotto, e si configura come l’insieme di attributi fisici e tecnico-funzionali che lo stesso deve necessariamente possedere affinché possa definirsi di qualità. Essa si determina semplicemente attraverso un’attività di confronto o, per meglio dire di controllo, dell’output di un processo rispetto agli standard di progettazione: la proporzione con la quale i requisiti richiesti sono presenti nel risultato finale rap-presenta il livello di qualità del bene e/o servizio offerto. In tal senso, la qualità è un elemento certamente noto, oggettivo, perfettamente misurabile e conoscibile dall’imprenditore, determinabile a monte del processo produttivo (in fase di design del prodotto) e, pertanto, perfettamente controllabile dal produttore. Se la qualità è data da aspetti tangibili o comunque da caratteristiche misurabili del prodotto (che la stessa impresa stabilisce), ne consegue che l’organizzazione è in grado di definire autonomamente il livello di qualità della propria offerta: è, infatti, lo stesso produttore a stabilire autonomamente i confini entro i quali l’output di un pro-cesso produttivo può essere definito di qualità, secondo una valuta-zione che non scaturisce dal mercato, ma esclusivamente da considerazioni di carattere economico e strategico. È lo stesso produttore, in sostanza, che fissa i parametri e sulla base di questi stabilisce il livello qualitativo del prodotto. In tale ottica, gestire la qualità è un problema tutto interno all’organizzazione, in quanto essa è disposta e verificata esclusivamente da chi la produce (prima ancora che il prodotto arrivi sul mercato): in tal senso, la qualità nasce e muore nell’impresa. Essa va ricercata a valle del processo produttivo, appena prima che il prodotto venga collocato sul mercato: per individuarla l’impresa dovrà operare una semplice attività di controllo. La qualità, pertanto, diventa sino-nimo di conformità del prodotto agli standard definiti. La qualità soggettiva rappresenta, invece, non già una caratteristica intrinseca del prodotto, ma la proiezione, l’immagine dello stesso nella mente del consumatore che egli elabora contestualmente ad una esperienza di consumo. Il confronto, in tal caso, si determina tra le caratteristiche del prodotto così come percepite dal cliente e l’insieme degli attributi attesi che lo stesso matura prima di fruire del bene e/o del servizio: la misura in cui le aspettative risultano verifica-te rappresenta il grado di soddisfazione del cliente, e quindi il livello di qualità dell’output. In tale accezione, quindi, la qualità è intesa come idoneità all’uso, come attitudine del prodotto a suscitare la soddisfazione del cliente. La percezione è un processo estremamente complesso ed artico-lato che tiene conto di una complessa sfera di elementi oggettivi inerenti al bene e/o servizio ricevuto, ma soprattutto di elementi soggettivi (le aspettative, i bisogni, le impressioni derivanti da esperienze pregresse vissute in prima persona o raccontate da altri, il confronto con i prodotti concorrenti, ecc.) e della proporzionalità tra questi elementi ed il prezzo. La qualità soggettiva, pertanto, è un elemento che non è determinabile a priori dall’organizzazione e che può essere solo in parte con-trollato, perché fortemente condizionato da fattori esterni al raggio d’azione dell’impresa; non è neppure un elemento facilmente cono-scibile per il produttore, dipendendo dall’attitudine del bene e/o servi-zio a soddisfare attese e desideri che sono inevitabilmente diversi per ogni singolo individuo. Essa si realizza solo nel mercato, delineando-si successivamente all’esperienza di consumo da parte del cliente, che assume pertanto un ruolo determinante nel processo di progetta-zione e produzione della qualità, condizionando obiettivi ed attività dell’organizzazione. Nella logica della qualità soggettiva, il problema che si pone all’organizzazione, quindi, non è tanto quello di controllare l’aderenza dell’output alle specifiche di progetto, quanto quello di mettere in campo strumenti e tecniche per l’individuazione e l’interpretazione delle aspettative e delle esigenze del cliente da tra-durre in specifiche di progetto. L’impresa, poi, dovrà dotarsi di strumenti per misurare e rilevare la soddisfazione del consumatore al fine di determinare il livello di qualità prodotta. In quest’ottica, la variabile non può essere relegata alla mera fase di produzione, ma deve accompagnare tutto il processo di creazione del valore per il cliente, dalla progettazione, alla realizzazione, alla distribuzione, al consumo. I due differenti approcci – quello soggettivo e quello oggettivo – non si escludono a vicenda ma rappresentano due facce di una stessa medaglia: si configurano, cioè, come due aspetti della qualità che devono convivere ed equilibrarsi nell’offerta dell’organizzazione. La qualità può essere riferita al prodotto, processo e sistema azienda. Relativamente al prodotto la qualità si traduce nell’analisi delle conformità alle specifiche/standard e adeguatezza all’uso. Si parla di controllo di qualità, è un concetto statico e riguarda le caratteristiche tecniche (qualità oggettiva). La qualità del processo si traduce nel generare output conformi nel tempo nel rispetto degli standard. Anche questo è un concetto statico connesso alla qualità di tipo oggettivo. La qualità del sistema azienda è la capacità di gestire l’organizzazione in modo allineato rispetto alle esigenze del mercato ottimizzando le performance aziendali. E’ connesso alla gestione della qualità, è un concetto dinamico ed è connesso alla qualità soggettiva. Il cliente ricerca alta qualità, consegna rapida e affidabile, un ampio range di scelta di prodotti e servizi e prezzi bassi. In questa ottica, le dimensioni organizzative su cui una azienda investe per essere competitivo sono: Prezzo: PRODURRE IN MODO EFFICIENTE per offrire il prodotto o il servizio a un prezzo appropriato che consenta un ritorno finanziario Qualità: realizzare un ottimo prodotto o servizio; FARE LE COSE BENE SENZA ERRORI Velocità di consegna: essere veloci a mettere a disposizione il prodotto o il servizio TRA LA RICHIESTA DEL BENE E LA CONSEGNA Affidabilità di consegna: rispettare i tempi di consegna promessi e le quantità richieste Ampio Range di prodotti/servizi: Flessibilità e velocità di introduzione di nuovi prodotti o di modificare il prodotto o il servizio/o la quantità. Nel complesso, gestire la qualità nel sistema impresa tiene conto degli aspetti oggettivi e soggettivi. In particolare per gli aspetti oggettivi, una azienda considera la qualità tecnica ossia cosa produrre quindi dovrà andare a definire le specifiche del prodotto, i materiali, la tecnologia da implementare; e la qualità organizzativa ossia come gestire i processi, i materiali, le persone, le informazioni. L’insieme della qualità tecnica e organizzativa generano la qualità erogata. L’azienda tramite diversi canali (pubblicità, social network..) crea una immagine intorno a quel prodotto/servizio generato che va a generare un livello di qualità attesa (qualità soggettiva) che si confronta con la qualità che viene percepita dopo l’uso del prodotto/servizio. I risultati che si ottengono dal confronto tra qualità attesa e percepita portano l’azienda a investire nell’innovazione e nel miglioramento continuo e quindi ridefinire la fase di pianificazione (qualità tecnica e organizzativa). 2. Evoluzione della qualità L’evoluzione storica del concetto di qualità si sviluppa nella dialettica tra i due approcci fondamentali, quelli della qualità oggettiva e della qualità soggettiva. A seconda del prevalere nella gestione aziendale dell’uno o dell’altro orientamento, è possibile individuare differenti “epoche” della qualità caratterizzate da diverse forme di governo della variabile, con significative ripercussioni sulle scelte organizzative e produttive delle imprese (Figura 1). Figura 1: Evoluzione storica del concetto di qualità Evoluzione del mercato Modelli organizzativi Modelli gestionali della qualità Personalizzazione di massa: Organizzazione snella: Eccellenza: saturazione dei mercati centralità del cliente autovalutazione EFQM / CAF Dal 2000 af f inamento e ricercatezza delle qualità estesa a tutta l’organizzazione sistemi integrati della qualità esigenze del consumatore (ambiente, etica, sicurezza) marketing one to one TQM: Gestione della qualità: 1980-2000 approccio per processi qualità totale qualità estesa a tutta l’organizzazione soddisf azione del cliente Differenziazione del prodotto: CWQC: coinvolgimento di tutto il personale incremento della ricchezza pro-capite massimizzazione del valore per il gestione della qualità condivisa con i cliente partner apertura dei mercati internazionali qualità estesa a tutti i processi evoluzione delle esigenze dei Normazione internazionale: 1950-1980 consumatori qualità ed ef f icienza Prime normative a livello di settore: BS varietà dei prodotti miglioramento continuo (kaizen) 5750 (1979) f lessibilità Norme ISO 9000 (1987) Produzione di massa: Organizzazione tayloristica: Controllo statistico della qualità: 1930-1950 bassa consapevolezza dei bisogni da divisione orizzontale e verticale del assicurazione interna parte dei consumatori lavoro assicurazione esterna superiorità della domanda sull’of f erta parcellizzazione del lavoro 1910-1920 produzione indif f erenziata massimizzazione della produttività Controllo della qualità: produzione in serie ispezioni sul prodotto finale qualità come assenza di dif etti Produzione su commessa: Produzione artigianale: Gestione e controllo della qualità: Epoca preindustriale prodotto realizzato “su misura” del integrazione di tutte le f asi di soddisf azione del cliente cliente lavorazione controllo di qualità realizzato in tutte le f asi della produzione L’autoproduzione e la produzione artigianale Nel periodo preindustriale, l’attività produttiva è caratterizzata essenzialmente dall’autoproduzione e dalla produzione artigianale, che hanno la peculiarità di rappresentare la perfetta combinazione tra la qualità oggettiva e la qualità soggettiva. Per quanto concerne l’autoproduzione, è evidente che chi produce il bene e/o servizio è lo stesso soggetto che lo consuma: il produttore controllerà ogni singola fase del processo di trasformazione, accertando di volta in volta che la qualità ottenuta sia conforme a quella progettata (qualità oggettiva). Poiché egli produce sostanzialmente per se stesso, il suo prodotto sarà concepito sulla base delle proprie specifiche esigenze e realizzato “su misura” (qualità soggettiva). Anche nella produzione artigianale la qualità soggettiva è sicuramente presente e per certi versi dominante: al centro del processo produttivo si colloca, infatti, il cliente. L’artigiano produce tipicamente su commessa, quindi per un determinato soggetto che palesa, attraverso l’ordine, desideri ed esigenze. Il prodotto è così pensato e realizzato in funzione delle aspettative del singolo cliente ed è perciò dotato di un notevole valore intrinseco, legato all’unicità dell’output e alla qualità derivante dall’aver soddisfatto le attese del committente. Nei processi produttivi artigianali, inoltre, è presente in maniera significativa anche la componente oggettiva della qualità: l’artigiano ha interesse a dotare il prodotto di un valore che sia riconoscibile dal cliente, attraverso la scelta accurata dei materiali impiegati, la selezione della tecnologia più adeguata a realizzare il processo, l’individuazione di tempi e metodi di lavorazione, ecc. Disponendo di una visione integrale del processo produttivo e governando di fatto tutte le attività di progettazione e realizzazione del prodotto, egli ha un presidio pressoché totale della qualità “tecnica”. Diversamente dalla produzione industriale, in cui il processo produttivo è generalmente affidato a più centri di lavoro (se non addirittura a soggetti esterni all’organizzazione), nella produzione artigianale la responsabilità di ogni singola fase ricade sempre sulla medesima persona, l’artigiano. Questi peraltro è al tempo stesso fornitore e cliente interno del processo: è facilmente intuibile come il suo interesse sia quello di individuare subito un difetto laddove è stato prodotto piuttosto che a valle del processo produttivo, in modo da poter mettere in atto tempestivi meccanismi correttivi per ridurre tempi e costi conseguenti alla difettosità. L’artigiano effettua, quindi, un controllo di qualità in tempo reale: man mano che l’attività di produzione avanza, lo stesso verifica costantemente che l’output sia conforme agli standard prefissati, a garanzia della massima qualità fisica e tecnico-funzionale ottenibile dal processo. Il controllo sul prodotto finito ha, quindi, una valenza piuttosto modesta, diversamente da quanto accade in un approccio produttivo di tipo industriale, come vedremo nel prossimo paragrafo. La produzione industriale: il taylorismo ed il fordismo Con l’avvento della rivoluzione industriale, nascono le prime fabbriche che richiedono modelli organizzativi complessi rispetto alle botteghe artigiane: la meccanizzazione dei processi produttivi, il cospicuo impiego di manodopera necessaria al funzionamento degli impianti, l’aumento vertiginoso dei volumi di produzione realizzati non più su commessa ma in serie e su previsione della domanda, ed il conseguente incremento delle quantità di input da gestire, impongono alle organizzazioni un completo ripensamento delle logiche produttive ed organizzative. La competitività e la sopravvivenza sul mercato dipendono sempre meno dalle capacità manuali o creative dei lavoratori, come avveniva nella produzione artigianale, e sempre più dalle capacità organizzative delle imprese. In tale contesto si sviluppano e si diffondono, a partire dal primi anni del ‘900, le teorie organizzative di Frederick W. Taylor e le applicazioni operative di Henry Ford. La rivoluzione industriale induce un grande cambiamento dei mercati: l’industrializzazione dei processi produttivi consente di realizzare una produzione in serie a basso costo, che rende maggiormente accessibili prodotti prima preclusi alle fasce della popolazione meno agiate. Da ciò deriva una notevole espansione della domanda, che pone le imprese di fronte alla necessità di strutturarsi al fine di garantire sempre crescenti quantità di output per far fronte alle incalzanti richieste del mercato. Le scelte produttive delle imprese si focalizzano inizialmente sui beni primari, la cui disponibilità a prezzi contenuti contribuirà notevolmente allo sviluppo economico dei paesi in via di industrializzazione; successivamente, il diffondersi del benessere e della tecnologia farà sì che i grandi volumi di produzione interesseranno anche i beni di lusso (automobili, elettrodomestici, abitazioni, ecc.) 1. La produzione in serie rappresenta l’elemento di rottura con l’approccio produttivo di tipo artigianale: se l’artigiano realizza il bene e/o il servizio avendo in mente uno specifico cliente, la produzione industriale rappresenta la risposta alle esigenze non più di un singolo individuo, ma di una massa. I bisogni dei consumatori vengono, così, uniformati ed il prodotto che ne consegue è fortemente standardizzato: si perde, in sostanza, la relazione diretta con il cliente che caratterizzava il lavoro artigianale e il valore dell’unicità dell’output. Con la rivoluzione industriale si apre l’epoca della cosiddetta produzione di massa, che separerà nettamente la qualità oggettiva da quella soggettiva: le imprese si rivolgono ad una massa indistinta di acquirenti, dei quali hanno una scarsa conoscenza. Gli obiettivi degli imprenditori si sbilanciano verso ragioni di carattere puramente economico, sintetizzabili nella massimizzazione dell’output e nella minimizzazione di costi. I consumatori, da parte loro, domandano una quantità elevata di prodotto a basso prezzo: sono gli anni in cui i mercati non sono ancora pienamente sviluppati e la domanda è notevolmente superiore all’offerta. I compratori si trovano di fronte alla necessità di dover soddisfare i bisogni primari e sono disponibili ad accettare una produzione standardizzata e sostanzialmente indifferenziata pur di avere a disposizione il bene o il servizio desiderato. In tale contesto, la priorità delle organizzazioni non è certo quella di una flessibilità sul mix dei prodotti per fidelizzare i clienti – come avveniva nella produzione artigianale – quanto quella di raggiungerli per la prima volta, offrendo beni del tutto nuovi al mercato. È l’industria a dominare il mercato e viceversa. Le imprese si affannano nella costante ricerca di incrementi di produttività – che impone un ripensamento delle logiche organizzative – il più delle volte prescindendo dalla qualità (oggettiva) del prodotto. Il modello produttivo di tipo artigianale, essenzialmente basato sull’unitarietà del ciclo produttivo e sulle elevate competenze dei lavoratori, viene messo in discussione per la prima volta nel 1776 da Adam Smith. Nel famoso lavoro La ricchezza delle nazioni, l’economista e filosofo scozzese indaga la relazione tra l’organizzazione e la produttività del lavoro. In particolare, Smith osserva come la scomposizione di ogni attività di manifattura in piccole e distinte fasi di produzione e la conseguente specializzazione dei lavoratori in ciascuna di esse, permetterebbero all’impresa di aumentare notevolmente la produttività. Per dimostrare i benefici derivanti dalla divisione del lavoro, Smith ricorre al famoso esempio della fabbrica di spilli: suddividendo il processo in singole fasi di lavorazione (fabbricazione, raddrizzamento e recisione dei filamenti di metallo, modellazione della punta, formazione e unione della testa, ecc.), ed istruendo ed impiegando i lavoratori in specifiche attività, la fabbrica era in grado di produrre una quantità di spilli di un ordine di grandezza almeno duecento volte superiore rispetto alla quantità che la stessa impresa avrebbe potuto conseguire se ogni operaio avesse seguito l’avanzamento del prodotto dalla prima all’ultima fase del ciclo produttivo. La formalizzazione di un modello organizzativo di tipo industriale viene compiuta, agli inizi del XX secolo, da Frederick Winslow Taylor2. Prima di allora, non esisteva un approccio sistematico ai problemi organizzativi e produttivi, al quale l’impresa potesse far riferimento: ci si affidava in buona sostanza all’esperienza degli imprenditori, al learning by doing, ai principi ormai acquisiti del modo di produrre di tipo industriale, come il principio della divisione del lavoro. Tuttavia, la crescita dimensionale degli impianti e l’aumento della complessità nella gestione aziendale, rendono sempre più impellente il problema di un approccio strutturato all’organizzazione del lavoro. Il taylorismo o Scientific Management muove proprio dall’esigenza di fornire un impianto teorico per l’organizzazione del lavoro e della produzione nelle fabbriche, che funga da supporto alle imprese e le accompagni nei grandi cambiamenti tecnologici ed economico-sociali indotti dalla rivoluzione industriale. Taylor parte dall’assunto che i lavoratori impiegati nei processi produttivi producano in realtà molto meno di quanto sia loro possibile se le mansioni e le attività lavorative fossero determinate “scientificamente”. Egli pensa all’organizzazione come ad una macchina (i cui ingranaggi sono costituiti dagli operai specializzati) che può essere disegnata, progettata e condotta sulla base di alcuni semplici principi. Tra questi, in particolare: 1) il principio della divisione verticale del lavoro, ovvero la separazione della responsabilità decisionale da quella operativa; 2) il principio della divisione orizzontale del lavoro, ovvero la parcellizzazione del lavoro; 3) il principio di sostituzione, ovvero l’intercambiabilità delle risorse operanti sul processo. Secondo Taylor, la produttività migliora se l’organizzazione adotta una netta distinzione tra chi decide e chi esegue, separando cioè il lavoro manuale degli operai da quello intellettuale dei manager. La divisione tra la responsabilità decisionale e quella operativa è funzionale all’eliminazione di ogni sorta di discrezionalità dei lavoratori nell’esecuzione delle proprie attività: essa, infatti, è concepita come un elemento che incide negativamente sulla produttività dell’impresa, allungando i tempi di produzione e producendo inefficienze dovute all’arbitrarietà con cui diversi soggetti possono realizzare la medesima attività. Gli operatori, infatti, non dovrebbero porsi il problema di come produrre, ma semplicemente limitarsi ad applicare le indicazioni disposte dal management: il lavoro deve essere eseguito in maniera meccanica, senza che vi sia alcuna implicazione mentale o alcun coinvolgimento emotivo. Il taylorismo surclassa, in buona sostanza, il concetto di mestiere: per svolgere il proprio lavoro, all’operaio non è richiesto di possedere particolari conoscenze, competenze o abilità; nelle fabbriche viene impiegata per lo più la manovalanza non qualificata. La ripartizione del lavoro e delle responsabilità tra manodopera e direzione (divisione verticale del lavoro) viene realizzata attraverso gli strumenti del controllo gerarchico e della centralizzazione delle decisioni al vertice dell’organizzazione. In accordo con la teoria taylorista, la ricerca dell’efficienza richiede, inoltre, che le attività siano programmate e definite nelle specifiche modalità operative secondo una concezione ingegneristica del lavoro, basata su uno studio minuzioso del processo produttivo. Il taylorismo sviluppa la convinzione per la quale un’attività è tanto più efficace, efficiente e controllabile quanto più essa è programmata. Qualsiasi operazione di un ciclo di produzione può essere scomposta ed analizzata nei minimi particolari (divisione orizzontale del lavoro): il metodo taylorista suggerisce di identificare gli operai che realizzano le migliori performance, e condurre un’attività di osservazione e misurazione dei loro gesti e tempi di lavorazione, per ogni singola operazione. L’obiettivo è quello di pervenire a parametri utili alla codifica di istruzioni e procedure da trasmettere a tutti i lavoratori, in accordo con la filosofia del one best way per la quale esiste un solo modo – quello migliore – per svolgere una determinata attività. In sostanza, un’analisi meticolosa del processo produttivo deve condurre ad identificare, per ogni lavoratore, uno specifico compito ed i tempi e le modalità di esecuzione. Il fine ultimo è quello di abbattere la variabilità dei processi, standardizzare le attività, eliminare gli sprechi di tempo, per ottenere un aumento della produttività complessiva del lavoro. L’eliminazione della discrezionalità e la parcellizzazione ed omogeneizzazione dei compiti introducono al principio di sostituzione dei lavoratori. Nel momento in cui l’operatore viene privato di un qualunque margine di autonomia nell’esecuzione dei propri compiti e il lavoro viene parcellizzato in attività elementari secondo prassi operative standardizzate, nessun lavoratore può di fatto essere considerato indispensabile al processo. Qualunque gesto può essere facilmente replicato da chiunque: ne deriva che l’operaio che si renda indisponibile a causa di una malattia, di uno sciopero o di una qualunque altra ragione, viene immediatamente sostituito con un altro, scongiurando un’interruzione del flusso di lavoro. Il principio di sostituzione è un’ulteriore garanzia per incrementare la produttività dei lavoratori. La semplificazione del lavoro, derivante dall’eliminazione di un qualsivoglia aspetto di discrezionalità, rende il principio di sostituzione valido non solo nel rapporto uomo-uomo, ma anche nel rapporto uomo-macchina. Nel momento in cui il lavoro diventa prettamente esecutivo, ripetitivo, elementare, non sarà troppo difficile inventare una macchina che riprodurrà esattamente il gesto dell’operaio. I primi automatismi introdotti nelle linee di produzione saranno, infatti, rigidi e dedicati a lavorazioni specifiche, perfettamente allineati alle logiche tayloriste. A ben vedere, il metodo di Taylor non trova applicazione solo nel lavoro operaio, ma interviene anche sullo stesso management, prevedendo una progettazione ed una conseguente equa distribuzione di compiti ed attività anche nella sfera dirigenziale. L’ingegnerizzazione del processo produttivo viene sublimata dalla catena di montaggio di Henry Ford, sperimentata ed applicata nelle fabbriche automobilistiche (che di Ford portano il nome) nei primi anni del XX secolo. Si tratta di un’invenzione tanto semplice quanto geniale: i pezzi da assemblare per la produzione delle auto sono posizionati su un nastro trasportatore mobile che scorre lungo postazioni fisse di lavoro, dove gli operai svolgono meccanicamente e ripetutamente delle semplici operazioni. Nella catena di montaggio ritroviamo tutti i principi del taylorismo: al lavoratore viene assegnato un compito da svolgere, ma viene privato di ogni qualsivoglia libertà di deciderne le modalità di esecuzione. Non solo, all’operaio vengono sottratti anche il controllo del tempo e la scelta della posto in cui svolgere l’attività, in quanto i ritmi sono dettati dal nastro trasportatore e le postazioni sono obbligate dalla linea di montaggio. Il lavoro degli operai si trasforma, così, semplicemente in un gesto, privo di qualunque senso per chi lo esegue: esemplificativo, in tal senso, è il film “Tempi moderni” di Charlie Chaplin (1936), che racconta la storia di un operaio talmente alienato dal proprio lavoro che finirà per diventarne egli stesso un gesto. Ci si potrebbe chiedere perché un’innovazione organizzativa, per certi versi così deprimente ed alienante per i lavoratori, sia stata così pervasiva da imporsi per oltre mezzo secolo come il modello produttivo di riferimento delle imprese occidentali. Dal punto di vista dei manager, è piuttosto semplice intuirne le ragioni: l’adozione del modello taylorista consente alle imprese di ottenere notevoli profitti e prosperare in un mercato fortemente dominato dall’offerta. Dal punto di vista della classe operaia, invece, ci si sarebbe potuti aspettare una sorta di avversione, o comunque di forte reazione, ad una impostazione che svilisce completamente la figura del lavoratore qualificato, depredandolo della sua dignità. Eppure, anche qui le ragioni sono prettamente economiche: i benefici che i lavoratori ottengono dall’organizzazione scientifica della produzione risiedono nella possibilità di ottenere salari via via più alti. La teoria economica insegna che questi evolvono in base alla produttività del lavoro: più si produce, maggiori saranno le retribuzioni e, quindi, lo stimolo a lavorare di più. La rinuncia alla discrezionalità è pagata ai lavoratori attraverso la corresponsione di maggiori salari che offrono la concreta possibilità di accedere ai mercati di quei prodotti prima considerati di lusso, come l’automobile. Celebre è la frase di Ford: «C'è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti», che fornisce una base teorica alla produzione di massa. Per Ford il vero progresso non sta nell’inventare le cose, ma nel fare in modo che tutti ne dispongano, compresi i dipendenti che sono considerati – per la prima volta – alla stregua di consumatori. Applicandole alle proprie realtà industriali, egli dà concreta attuazione alle teorie tayloriste e realizza di fatto il progresso: nel 1926, bastano appena 60 giornate di lavoro perché un operaio possa acquistare un’automobile; nel 1930, in media ogni famiglia americana (comprese quelle operaie) ne possiede una (Tabella 1). Tabella 1: Numero di abitanti per veicolo Nazione 1913 1930 1938 1987 Gran Bretagna 164-203 30.2 19.7 2.46 Francia 318 28.5 18.5 2.25 Germania 950 95.5 39.6 2 Italia 1889 166.9 116 2.33 Belgio e Lussemburgo - 49.8 35.6 2.5 Svezia - 42.3 28.8 2.7 Stati Uniti 77 4.6 4.4 1.38 Giappone - 180 130 1.9 A Ford è attribuita un’altra celebre affermazione a proposito del primo modello prodotto dalla sua industria automobilistica: «Ognuno può avere una Model T del colore che preferisce, purché questo sia nero». Questo slogan racchiude tutta la filosofia del cosiddetto mass marketing, ovvero una strategia competitiva basata su alti volumi di produzione a basso prezzo, resa possibile da un risparmio dei costi unitari, conseguito attraverso una dimensione ottimale degli impianti (economie di scala) ed un effetto apprendimento: più si produce, più si impara a farlo bene. L’industria fordista è l’emblema di una produzione in serie e standardizzata, la cui offerta risponde ad un bisogno pressoché indifferenziato: in questo contesto, il concetto di qualità assume uno scarso rilievo. D’altra parte, il consumatore non chiede la qualità, ma la quantità. Il suo interesse è disporre del bene e/o servizio: la possibilità che il prodotto sia di bassa qualità è un rischio implicito nello scambio, di cui il cliente è disposto a farsi carico. Gli acquirenti che si trovano di fronte a prodotti nuovi, manifestano bisogni “vergini” che vengono soddisfatti per la prima volta, che possono essere bisogni primari ed elementari, ma anche relazionali o di autorealizzazione. Per quanto l’evoluzione dei mercati e la progressiva crescita culturale dei paesi in fase di industrializzazione abbiano favorito un processo di sviluppo della consapevolezza dei propri bisogni nei consumatori, così che essi nel tempo si sono manifestati sempre più esigenti dal punto di vista della qualità, ancora oggi è possibile osservare come gli stessi siano piuttosto disarmati rispetto alle innovazioni che approdano sui mercati. Per comprendere l’effetto “novità” sui comportamenti di consumo e sulla percezione della qualità, possiamo ricollegarci ad una innovazione di prodotto caratterizzata da uno straordinario tasso di penetrazione del mercato, che ha raggiunto una diffusione pressoché universale nelle economie avanzate, e che è relativamente recente: il telefono cellulare. I primi modelli, che risalgono alla fine degli anni ’80, i famosi “Tacs”, sono apparecchi pesanti, che hanno una scarsa ricezione, sono costosi, fragili con dimensioni spropositate se paragonate a quelle microscopiche di oggi, ma che assolvono ad un’importante funzione, quella di comunicare lo status symbol del consumatore, prima ancora che garantire una comunicazione efficace. È palese come gli aspetti della qualità (oggettiva) passino in secondo piano: l’interesse del consumatore è quello di disporre di un prodotto di frontiera, che prima ancora che uno strumento di comunicazione, rappresenta un mezzo per soddisfare un bisogno prettamente relazionale. L’introduzione delle automobili nei primi anni del XX secolo ha indotto un analogo atteggiamento nei consumatori, peraltro poco educati (in generale) alla qualità. I primi veicoli sono caratterizzati da un’elevata difettosità che viene serenamente accettata dal mercato e perfino giustificata con un approccio quasi fideistico: il difetto non è una responsabilità di chi lo ha prodotto, ma un evento sfortunato per il compratore. La fase del controllo di qualità L’approccio produttivo di tipo artigianale ha la peculiarità di coniugare le due componenti della qualità, quella oggettiva e quella soggettiva, principalmente favorite da una relazione diretta con il cliente, da un rapporto di committenza alla base dello scambio e dalla visione integrale ed unitaria del ciclo produttivo. La garanzia della qualità soggettiva è facilmente intuibile: l’artigiano, rivolgendosi ad uno specifico committente, non può prescindere da quelle che sono le sue peculiari esigenze. In tal senso, egli mirerà a realizzare un prodotto unico, personalizzato e tendenzialmente non ripetibile, che dovrà incontrare e soddisfare appieno le aspettative del cliente, con l’obiettivo di conquistarne la fiducia ed assicurarsi, così, la possibilità di ulteriori commesse. Il successo dell’artigiano dipende, quindi, dalla sua capacità di intercettare bisogni e desideri della clientela e tradurli in caratteristiche fisiche del prodotto. Tuttavia, un accurato design non costituisce di per sé condizione sufficiente per competere sul mercato: è necessaria al contempo una qualità cosiddetta “tecnica” che si crea all’avanzare della produzione, attraverso l’efficace gestione del processo produttivo, la scelta e l’ispezione accurata degli input, il monitoraggio dei tempi. Tali aspetti sono favoriti proprio dalle peculiarità del metodo di produzione di tipo artigianale: la semplicità del flusso di lavoro, contrapposta alla complessità del prodotto, permette di realizzare un monitoraggio delle attività che si svolge in corso d’opera. Il controllo di qualità non è delegato ad una specifica funzione organizzativa, estranea al processo di produzione, ma è svolto dalle medesime risorse impegnate lungo il processo stesso. La verifica dell’output si configura, così, come una sorta di autocontrollo a fronte della quale, proprio in virtù della conoscenza e padronanza dell’intero processo produttivo, l’artigiano può intervenire in tempo reale per risolvere eventuali criticità emerse e correggere possibili non conformità. Nella produzione industriale di stampo taylorista, invece, le due anime della qualità – quella soggettiva e quella oggettiva – sono inevitabilmente destinate a separarsi. Da una parte, l’impresa perde il vantaggio derivante dal contatto diretto con il cliente, rivolgendosi non più al singolo committente, ma ad una massa indistinta, anonima, di consumatori: l’offerta conseguente non potrà che essere indifferenziata. L’approccio dell’organizzazione taylorista è fortemente orientato al prodotto e poco al mercato, nell’idea che sia l'offerta a creare la propria domanda e che, pertanto, qualunque bene e/o servizio – indipendentemente dalla sua qualità – trovi un naturale sbocco sul mercato. Tale presupposto impedisce un qualsiasi approfondimento da parte delle imprese nella ricerca e nella realizzazione della qualità soggettiva, intesa come soddisfazione del cliente. Le strategie competitive delle prime organizzazioni industriali sono ancorate a politiche di pricing: l’attenzione è focalizzata sulla necessità di minimizzare i costi unitari di produzione, al fine di poter collocare il prodotto al più basso prezzo praticabile, data la struttura dei costi. In tale contesto, la qualità viene considerata esclusivamente in relazione alla difettosità dell’output e si concretizza nell’esigenza di assicurare al mercato un prodotto con precise caratteristiche fisiche e tecniche, ovvero un output che non presenti anomalie rispetto al progetto originario (qualità oggettiva). La conformità diventa così il principale aspetto attraverso il quale viene misurata la qualità prodotta, a scapito della cosiddetta qualità soggettiva. Diversamente dall’organizzazione di tipo artigianale, inoltre, nell’impresa taylorista la frammentazione del ciclo produttivo impedisce una visione globale del processo che possa agevolare un’attività di autocontrollo ad opera dei lavoratori. D’altra parte il taylorismo, imponendo una divisione verticale del lavoro con la netta distinzione tra le fasi di progettazione, esecuzione e controllo, fa sì che i lavoratori perdano di vista gli obiettivi del processo e non abbiamo la percezione del contributo delle proprie attività al conseguimento dei risultati aziendali. Il controllo di qualità viene, così, affidato ad una specifica figura professionale che si identifica nell’ispettore della qualità, ovvero colui che ha l’esclusivo compito di verificare che materie prime, prodotti intermedi e prodotti finiti siano conformi agli standard di progettazione. L’attività tipica dell’ispettore è il collaudo, finalizzato a scovare e a scartare i prodotti difettosi, generalmente previsto a valle del processo produttivo. Nella prima fase del processo di industrializzazione delle economie occidentali, la preoccupazione delle imprese è, quindi, concentrata sul risultato – il prodotto difettoso – e non sulle cause che lo hanno generato – i processi: la responsabilità di eventuali anomalie di beni e/o servizi offerti sul mercato ricade sull’addetto all’ispezione di qualità che ha lasciato passare il difetto e non sul responsabile di produzione che lo ha originato. Gli approcci alla qualità che si vanno sviluppando sulla scia del pensiero taylorista coltivano il preciso obiettivo di contenere il tasso di difettosità della produzione a livelli economicamente accettabili e compatibili con le strategie di costo e di prezzo perseguite dalle organizzazioni, confinando la qualità alla mera fase di realizzazione del prodotto. Partendo da tale premessa, le imprese occidentali si specializzano nella messa a punto di strumenti e tecniche per il controllo della qualità, che consentono loro di gestire la difettosità del prodotto, ma non di intervenire in maniera risolutiva su di essa. Nessun processo è di per sé esente dal fenomeno della variabilità che genera il difetto: essa rappresenta un aspetto ineludibile e connaturato al processo, che l’impresa – attraverso il controllo di qualità – può governare, ma non del tutto eliminare. Ciò significa che il rischio di portare sul mercato un prodotto non conforme cresce man mano che le maglie del controllo di qualità si allentano; ma anche quando l’organizzazione disponga un controllo pressoché totale sulla produzione, la possibilità che un difetto possa sfuggire all’ispezione non può essere scartata. Una produzione “zero difetti” è quindi auspicabile, ma tecnicamente non realizzabile. Un esempio può aiutarci a capire il limite di un approccio basato esclusivamente sul controllo di qualità: si pensi alle sofisticate ispezioni che vengono approntate nelle produzioni relative al settore aerospaziale. Sovente si verificano casi di rinvii di missioni o – nella peggiore delle ipotesi – di incidenti causati da difetti e/o guasti non rilevati a navicelle e sonde spaziali; eppure, tali processi produttivi – e non già solo l’output – per la loro importanza e criticità sono sottoposti a tali minuziose e scrupolose attività di verifica e collaudo, che dovrebbero portare ad escludere il rischio di una qualche difettosità. All’impossibilità tecnica di ottenere una produzione senza difetti, si aggiunge poi la difficoltà economica ad effettuare un controllo totale della produzione. Tale criticità si pone con chiara evidenza quando da un approccio industriale ancora fondato su bassi volumi di produzione ci si orienta, a partire dagli anni ’20, verso una produzione di massa. Il forte aumento dei volumi prodotti, conseguente ad una straordinaria espansione della domanda sostenuta dallo sviluppo tecnologico e dalle esigenze della guerra, rende di fatto impraticabile – dal punto di vista economico – una verifica puntuale di tutta la produzione. Le imprese abbandonano il controllo di qualità con una copertura pressoché totale dell’output, evidentemente troppo oneroso, per adottare nuovi approcci basati sul campionamento statistico (controllo statistico della qualità). Le scelte in tema di qualità rappresentano un compromesso tra i benefici ottenibili dal controllo, in termini di abbattimento del tasso di non conformità dell’output, e i costi che derivano dalle attività ispettive. Il maggior rischio di portare sul mercato un prodotto difettoso, insito nel controllo a campione, è compensato da un risparmio di costi dovuto ad un controllo più lasco. Nella consapevolezza che la difettosità non possa essere completamente eliminata e che un certo numero di imperfezioni possa sempre sfuggire alle attività ispettive, le imprese cercano la soluzione più idonea a contenere la variabilità dei processi in una definita soglia di tolleranza: si accetta così implicitamente l’idea che la qualità possa tranquillamente convivere con un dato livello di difettosità, considerata alla stregua di un ordinario risultato del processo produttivo. A Walter A. Shewart3 si deve, invece, l’estensione della logica del controllo di qualità dall’output al processo. L’idea di fondo è che la prevedibilità del risultato – la principale criticità in ciascuna produzione industriale – possa essere in qualche modo gestita attraverso il governo delle variabili del processo produttivo4. Questo rappresenta la sequenza di attività interrelate ed interagenti attraverso le quali, a partire da input (generalmente noti) si perviene ad un determinato output. L’analisi ed il monitoraggio delle variabili e dei rispettivi elementi critici di processo (ovvero quei fattori che incidono in maniera significativa sull’output) ne rendono prevedibile e, in quanto tale, modificabile il risultato. In caso di particolari scostamenti dalle soglie di conformità individuate, le imprese intervengono tempestivamente per modificarne le dinamiche: il processo industriale viene così ricondotto a valori determinati o, comunque, determinabili (controllo statistico di processo). Tra gli anni ’30 e gli anni ’60, l’attenzione delle maggiori organizzazioni industriali in tema di qualità, comincia così a spostarsi dal prodotto al processo: è possibile controllare la soglia di difettosità della produzione non solo eliminando il prodotto non conforme, ma anche intervenendo in maniera tempestiva sul processo per correggerne le distorsioni. Si apre, così, la strada al concetto di prevenzione della non conformità: l’impresa non solo deve correggere gli errori rilevati, ma deve anche adoperarsi per prevenirli. Il passaggio successivo è rappresentato dall’estensione del controllo statistico dall’area della produzione all’organizzazione intesa nella sua globalità (assicurazione interna della qualità), sul presupposto che la qualità del prodotto non possa prescindere dalla qualità dell’organizzazione considerata nella sua interezza, attraverso i principali processi di cui si compone. La qualità deve essere gestita come un aspetto unitario attraverso adeguati strumenti non solo tecnici, ma anche organizzativi. L’assicurazione interna della qualità rappresenta, quindi, la garanzia che siano predisposti, attivati e funzionanti tutti gli strumenti organizzativi e tecnici capaci di dare evidenza del fatto che i beni e/o i servizi generati dai processi soddisfino gli obiettivi di qualità stabiliti5. Il passo dall’assicurazione interna all’assicurazione esterna della qualità è breve e risponde alla necessità di garantire che i fornitori siano allineati alle stesse logiche di qualità adottate dall’impresa. Il processo di assicurazione esterna si concretizza in un audit di seconda parte effettuato dal committente sul fornitore, per semplificare i rapporti tra le aziende e tra queste e le amministrazioni, ovvero i cosiddetti rapporti B2B (business to business) e B2A (business to administration). L’esigenza dell’assicurazione esterna della qualità è particolarmente sentita in un settore produttivo, quello dell’industria bellica, che ha dominato la prima metà del XX secolo. Le ragioni sono piuttosto ovvie: nei beni destinati agli impieghi militari, la difettosità del prodotto non è ammissibile o tollerabile nella stessa misura dei beni di consumo. In tale contesto, il problema del controllo di qualità assume una considerevole rilevanza e deve essere finalizzato a garantire il massimo livello di affidabilità e funzionalità del prodotto ottenibile date le tecnologie disponibili. Come è noto, durante la Grande Guerra la produzione bellica per le forze occidentali è totalmente di manifattura americana. Nelle imprese statunitensi, specializzate nel controllo statistico dei processi e della produzione, si sviluppano tecniche di assicurazione interna della qualità, la cui responsabilità è affidata ad una unità organizzativa – il reparto o dipartimento qualità – che svolge non solo funzioni di ispezione e controllo, ma anche di pianificazione e sviluppo della qualità, con l’obiettivo di creare strumenti e procedure in grado di ridurre la difettosità. Parallelamente allo sviluppo di competenze in merito al controllo, le amministrazioni pubbliche statunitensi elaborano degli standard di qualità finalizzati a disciplinare i criteri di accettazione delle forniture. Alla fine del conflitto mondiale, le competenze nel controllo di qualità maturate nei settori più vicini alla produzione bellica (meccanica, trasporti, elettronica, nucleare ecc.), nel processo di riconversione dalle produzioni di armamenti alle produzioni civili, vengono estese anche ai settori commerciali. L’assicurazione esterna della qualità non risolve, tuttavia, le criticità legate al controllo della difettosità dei prodotti, soprattutto in relazione ai rilevanti costi che imprese e fornitori devono comunque affrontare per garantire il livello di qualità pattuito: il committente deve sopportare un certo costo per istruire il fornitore sui propri standard di qualità e per effettuare le ispezioni periodiche; il fornitore, da parte sua, sostiene un costo in relazione alla necessità di dover adattare di volta in volta i propri processi sulla base degli specifici standard richiesti dal cliente. Quando lo stesso fornitore opera per più committenti, il processo di allineamento ai diversi requisiti di fornitura diventa eccessivamente gravoso sia in termini economici che organizzativi. Per ottimizzare il processo di assicurazione della qualità, nascono le prime normative di settore. Un esempio sono l’US Military Specification (MILQ-9858) pubblicata nel 1959, che ha rappresentato il primo riferimento ad un sistema qualità adottato dalla NATO tramite lo sviluppo delle Allied Quality Assurance Publications (AQAP), e la BS5750, promulgata nel 1979 dall’ente nazionale di standardizzazione inglese BSI (British Standards Institution) con l’obiettivo di regolamentare l’approccio alla qualità nei rapporti di tipo B2A. Fino agli anni ‘70, l’attività di standardizzazione negli USA e nei paesi europei è limitata per lo più ad un contesto nazionale. L’armonizzazione a livello internazionale delle norme viene realizzata soltanto nel 1987 da parte dell’ISO (International Organization for Standardization), con la pubblicazione della prima normativa unica a livello mondiale per i sistemi di qualità, conosciuta come ISO 9000, basata prevalentemente sulla forma e sui contenuti della norma BS 5750, con l’obiettivo di migliorare l’efficienza produttiva e facilitare il commercio, in un contesto di progressiva apertura dei mercati agli scambi internazionali. Le prime ISO 9000 non hanno di fatto apportato alcuna novità concettuale, essendo sostanzialmente ancorate ad un modello di assicurazione della qualità basato sulla conformità. La loro rilevante importanza risiede nell’aver fornito un riferimento internazionale, con requisiti sistemici di base universali, validi cioè per qualunque tipo di organizzazione, rappresentando di fatto una sorta di prima “alfabetizzazione” delle organizzazioni in tema di qualità6. In conclusione, per quanto il concetto di qualità “industriale” nelle imprese occidentali abbia preso progressivamente forma nel corso del XX secolo e si sia sviluppato attraverso una visione di prodotto, di processo e quindi di sistema organizzativo, il principio che soggiace a ciascun passaggio è immutato ed è sostanzialmente ancorato ad un modello di conformità e di controllo. Peraltro, ciò che era accaduto dopo la Prima Guerra Mondiale – quando l’avvento della produzione di massa, la scarsità di beni legata alle necessità della guerra e il conseguente dominio dell’offerta sulla domanda, avevano di fatto abbassato la qualità media del prodotto – finirà per riproporsi anche in Europa negli anni successivi alla Grande Guerra, dove la produzione di massa diventerà una nuova frontiera. Bisognerà attendere gli anni ’80, con la conquista degli scenari internazionali da parte delle imprese giapponesi, foriere di un approccio radicalmente nuovo alla qualità, affinché nei mercati occidentali si diffondano i principi del Total Quality Management, che rappresentano la base di un qualsivoglia attuale modello di gestione della qualità. I costi della qualità nella fase del controllo Gli studi di microeconomia ci insegnano come ciascuna organizzazione – nell’ipotesi di razionalità degli agenti economici – tende ad operare le proprie scelte produttive sulla base dei principi di minimizzazione dei costi e massimizzazione del profitto. L’approccio tradizionale al controllo, tipicamente riferito al modello occidentale della qualità, è fondato sul presupposto che fornire al consumatore beni e/o servizi di qualità più elevata comporti un costo maggiore per l’impresa. La qualità, quindi, è vista come un insieme di attività onerose che inducono l’organizzazione a perseguire non già l’obiettivo della massima qualità realizzabile, quanto quello della qualità economicamente più conveniente, che non necessariamente coincide con la prima. L’impresa che tende a massimizzare il profitto, quindi, e che è tradizionalmente vincolata alla criterio del minimo costo, utilizza la stessa logica anche per la qualità. Per comprendere la scelta del livello qualitativo coerente con un approccio di tipo tradizionale, analizziamo i principali costi connessi con la qualità, ovvero: 1) costi della difettosità; 2) costi del controllo. I costi della difettosità comprendono tutte quelle voci di spesa imputabili all’assenza di qualità, e sono generalmente distinti in costi interni e costi esterni: i primi sono quelli che il produttore sostiene prima che il prodotto arrivi sul mercato, e quindi dal ricevimento delle materie prime alla distribuzione del bene/servizio. Esempi di costi interni sono dati da: - scarti, ovvero tutti gli input (materie prime, lavoro, energia, ecc.) impiegati nella produzione di prodotti difettosi che non possono essere riutilizzati o riparati, ma per la cui acquisizione, gestione e conservazione l’impresa ha sostenuto comunque un costo; - riparazioni e rilavorazioni, ovvero tutte le operazioni necessarie a rendere i prodotti difettosi conformi alle specifiche, che determinano un costo aggiuntivo per l’impresa; - prove ed ispezioni da ripetere su prodotti rilavorati, che determinano un costo addizionale; - declassamento dei prodotti, ovvero la perdita di valore connessa alla vendita a prezzi inferiori come “seconda scelta”; - scorte supplementari, giustificate dalla necessità di detenere un maggior numero di risorse (input, semilavorati, prodotti finiti) per poter far fronte a rese più basse, a pezzi potenzialmente difettosi o a lotti respinti dai clienti, che incrementano i costi legati alla gestione del magazzino. I costi esterni della difettosità, invece, sono quelli l’impresa sostiene in relazione a difetti non scovati in fase di ispezione dell’output ma rilevati direttamente dall’utilizzatore, e perciò inevitabilmente connessi all’insoddisfazione del cliente. Esempi di costi esterni sono rappresentanti da: - beni e/o servizi respinti dal cliente, che implicano un costo legato al ritiro del prodotto o al ripristino del servizio; - trattamento dei reclami, che sottrae ai processi risorse e tempi per il recupero della fiducia del cliente; - garanzia, che implica un costo di riparazione o sostituzione del prodotto; - cause legali, che si sostanziano nelle spese di risarcimento per danni connessi al malfunzionamento di un prodotto o ad un disservizio; - richiamo dei prodotti, ovvero il costo associato al ritiro dei lotti di produzione risultati non conformi. Tra i costi esterni della difettosità rilevano, in particolare, i costi legati all’insoddisfazione, alla cattiva pubblicità operata dai canali sociali (il cosiddetto “passaparola”) ed alla conseguente perdita di reputazione da parte dell’impresa. Tali costi sono per lo più legati a circostanze in cui il cliente, pur riscontrando problemi nell’utilizzo del bene o nella fruizione del servizio, non ne mette a conoscenza l’impresa, ma sarà negativamente influenzato in future scelte d’acquisto. A fronte di tali situazioni, l’organizzazione potrebbe registrare nel tempo un costo indiretto in termini di riduzione dei volumi di vendite, che non è immediatamente riconducibile a specifici problemi qualitativi: ciò rende i costi esterni della difettosità difficilmente misurabili e, in quanto tali, controllabili da parte dell’organizzazione. Per quanto concerne i costi del controllo, questi si suddividono in due principali categorie: i costi di ispezione e i costi di prevenzione. I primi sono costi che l’impresa sostiene per monitorare e gestire il livello qualitativo dell’offerta e garantire che eventuali non conformità siano gestite prima di arrivare sul mercato. Tipici esempi di costi di ispezione sono riconducibili a: - sorveglianza dei fornitori, ovvero i costi connessi con gli audit effettuati presso i fornitori e i costi derivanti dai controlli in accettazione; - assicurazione interna della qualità, ovvero i costi legati a test e verifiche effettuate lungo i processi produttivi per garantire la conformità agli standard; - certificazioni, ovvero i costi inerenti al riconoscimento esterno della qualità di prodotto/sistema; - sistemi di misurazione, ovvero i costi legati alle attività di manutenzione e taratura di tutti gli strumenti impiegati nei test e nelle prove; - stock di risorse utilizzate per i test distruttivi o per l’osservazione nel tempo di particolari caratteristiche del prodotto come ad esempio la deperibilità. I costi di prevenzione, invece, rappresentano un investimento che l’organizzazione sostiene in relazione alla necessità di minimizzare l’insorgere di problemi che possono determinare uno scadimento della qualità. Tali costi si sostanziano nelle spese necessarie per la gestione delle seguenti attività: - sviluppo ed applicazione di sistemi di raccolta, registrazione e analisi dei dati; - sviluppo di piani di controllo della qualità; - realizzazione di piani di miglioramento; - formazione del personale, ecc. Possiamo rappresentare i costi della difettosità ed i costi del controllo su un sistema di assi cartesiani (Figura 2) in cui sull’asse delle ascisse poniamo il livello di qualità dell’output e sull’asse delle ordinate i costi della qualità. Come si evince dal grafico, i costi della difettosità decrescono all’aumentare della qualità, mentre i costi del controllo aumentano man mano che aumenta il livello qualitativo dell’output. Figura 2: L’approccio del controllo di qualità Costi Costi della qualità Costi del controllo totale C Costi della difettosità _ Q Qualità Possiamo immaginare, inoltre, che la curva dei costi del controllo sia crescente a tassi crescenti, in quanto incrementi ulteriori di qualità possono essere ottenuti soltanto con incrementi delle attività di ispezione di volta in volta sempre più consistenti, in ragione del fatto che i difetti ultimi sono anche quelli più difficili da scovare. Viceversa, possiamo ipotizzare un comportamento della curva dei costi della difettosità tale che essi decrescano a tassi crescenti, ciò in ragione del fatto che, man mano che aumenta la qualità, l’incidenza dei costi esterni è in proporzione sempre più bassa: ad esempio, un eventuale ritiro dei prodotti sarà in proporzione più contenuto, la gestione delle garanzie sarà meno onerosa, i volumi di scorte da detenere saranno minori, ecc. La curva del costo totale della qualità sarà determinata dalla somma delle due curve precedentemente analizzate: essa sarà prima decrescente e poi crescente, con un punto di minimo in corrispondenza dell’intersezione tra la curva dei costi del controllo e la curva dei costi della difettosità. In una logica di minimizzazione dei costi totali, l’organizzazione sceglierà di produrre un livello qualitativo che non corrisponde alla massima qualità possibile, ma che rappresenta la soluzione meno costosa per l’impresa. Se volessimo utilizzare uno slogan per sintetizzare l’approccio tradizionale al controllo della qualità, dovremmo concludere che “la qualità costa!”. La rivoluzione giapponese della qualità: la filosofia del Company Wide Quality Control Nei sistemi produttivi occidentali, l’evoluzione del concetto di qualità è stato fortemente influenzato dalle grandi guerre che hanno caratterizzato il XX secolo: le medesime circostanze storiche hanno avuto un impatto decisivo anche sullo sviluppo della qualità nelle imprese orientali. In particolare, l’esito della Seconda Guerra Mondiale ha rappresentato per il Giappone non soltanto una disfatta economica e politica, ma anche culturale: alla fine del conflitto, il paese versa in una profonda crisi economica, aggravata da un’inflazione fuori controllo, da un tessuto industriale in buona parte distrutto, da una debole posizione sui mercati internazionali, alla quale si aggiunge la pesante umiliazione della resa e della conseguente occupazione da parte delle forze americane. La sfida giapponese consiste, quindi, nel riconquistare un ruolo politico ed economico sulla scena internazionale. Ma da dove ripartire? Il Giappone non può certo puntare su una competizione incentrata sull’innovazione tecnologica: dal confronto con le economie occidentali, emerge uno stato di forte arretratezza di un Paese che non dispone né di tecnologie avanzate né di un sofisticato know-how tecnologico da valorizzare nel settore industriale. A peggiorare la bilancia tecnologica, concorrono poi le scarse risorse economiche che impediscono alle aziende di acquisire la tecnologia necessaria. Allo stesso modo, è impensabile una competizione basata semplicemente su un’innovazione di prodotto: i beni di consumo giapponesi, nei primi anni ’50, godono in generale di una cattiva reputazione rispetto alle produzioni americane. Il Giappone decide, così, di percorrere la strada della qualità, ma in una visione totalmente innovativa, che coniuga elevate performance dei prodotti con un basso prezzo; si tratta di un approccio rivoluzionario rispetto al modello tradizionale in cui, invece, la qualità è sacrificata in ragione del prezzo, che rappresenta la principale leva concorrenziale. Nella logica del controllo di qualità, quella giapponese sembrerebbe una sfida persa in partenza; in realtà, non solo si rivelerà vincente, ma l’ingresso prepotente delle produzioni giapponesi nei mercati internazionali imporrà alle imprese occidentali la necessità di ridisegnare completamente il proprio approccio, sulla base di un nuovo modello produttivo che contempera l’esigenza della produzione di massa senza rinunciare alla qualità. La scelta di una nuova filosofia produttiva ed organizzativa da parte delle imprese nipponiche non è l’iniziativa di singoli illuminati imprenditori, di esperti o di accademici, ma è il frutto di una precisa strategia industriale concertata ai più alti livelli istituzionali: ciò ne spiega anche l’ampia e celere diffusione. La necessità di una maggiore qualità dell’offerta è avvertita, in realtà, dalle imprese orientali ancor prima della guerra: esse sperimentano strumenti e tecniche di controllo che si rivelano tuttavia poco strutturate e piuttosto rudimentali se raffrontate con la parallela esperienza dei concorrenti americani. Il disegno politico della ricostruzione industriale parte proprio dall’osservazione di un considerevole gap di conoscenze e competenze in tema di qualità rispetto ai competitor occidentali, e dalla conseguente necessità di istruire e formare il management imparando proprio dall’esperienza americana. A tal fine, vengono organizzati seminari di formazione su temi specifici della qualità e, più in generale, sul management a favore di responsabili che operano in settori tecnologicamente avanzati, come quelli elettrico ed elettronico, delle comunicazioni ecc., ai quali vengono invitati a partecipare come relatori esperti statunitensi provenienti dal settore accademico, dalla consulenza e dal settore industriale. Tra gli anni ’40 e ’50 sono istituite tre organizzazioni nazionali con lo scopo di promuovere l’istruzione e la formazione sul controllo di qualità: la Japan Management Association (JMA), fondata nel 1942; la Japan Standard Association (JSA), nel 1945 e la Union of Japanese Scientists and Engineers (JUSE), nel 1946. Tali associazioni hanno il precipuo compito di veicolare la conoscenza sui temi della qualità, attraverso l’organizzazione di seminari, corsi, convegni ma anche la traduzione e la divulgazione di pubblicazioni scientifiche di autori internazionali. Attraverso la JUSE, i manager apprendono le lezioni di un matematico e fisico americano, il dott. W. Edwards Deming, noto per le sue competenze ed esperienze nel controllo statistico della qualità. Nei suoi seminari, Deming trasmette ai giapponesi non soltanto la conoscenza di strumenti e metodi statistici, ma infonde loro la convinzione che l’economia del Giappone, un paese povero di risorse naturali e duramente colpito dalla guerra, possa ripartire proprio dalla qualità, valorizzando ciò di cui le imprese già dispongono. Attraverso le lezioni di Deming, le aziende giapponesi si confrontano con un approccio strutturato al controllo e alla diagnosi dei problemi di qualità lungo i processi di produzione, traendone immediati e considerevoli miglioramenti. Per la sua attività in Giappone, lo studioso americano riceve importanti riconoscimenti: nel 1951, la JUSE istituisce un premio in suo onore, finalizzato alla diffusione e alla promozione del controllo di qualità. Nel 1954, l’associazione invita un consulente americano – il dottor J.M. Juran – a tenere una serie di conferenze e seminari, i cui destinatari sono principalmente amministratori delegati e top manager. Le lezioni di Juran, specializzato nella gestione della qualità, sono finalizzate non soltanto a divulgare le tecniche del controllo statistico, con le quali a loro modo i giapponesi hanno avuto già modo di confrontarsi anche prima della guerra, ma soprattutto a diffondere la conoscenza di strumenti manageriali della qualità, troppo spesso sottovalutati anche nelle aziende americane. L’obiettivo è quello di sensibilizzare su tali temi il top e il middle management e responsabilizzarli nella determinazione delle politiche e dei principi della qualità. Nei suoi seminari, Juran sottolinea come la qualità non possa essere relegata ad una singola area aziendale, ai capireparto o ai capi divisione: sono tutte le funzioni aziendali, dalla produzione, alla ricerca e sviluppo, alle vendite, al marketing, alla gestione del personale, a dover essere ugualmente coinvolte nel processo di determinazione della qualità, perciò “globale”, dell’organizzazione. Gli insegnamenti di Deming e Juran sono particolarmente apprezzati dalle istituzioni e dal management giapponese, e vengono applicati con successo da un cospicuo numero di aziende. Gli anni ’60 rappresentano così il periodo della rinascita, caratterizzata da un fervore innovativo che attiene soprattutto alla sfera culturale ed organizzativa delle imprese, e che contribuisce a dare vigore all’offerta nazionale in risposta ad una domanda interna in forte espansione. Il piano di liberalizzazione del commercio e degli scambi con l’estero, adottato proprio in questi anni, fornisce poi un ulteriore impulso a definire programmi di sviluppo della qualità, nella consapevolezza che lo stesso rappresenti, da una parte, l’attesa occasione per riaffacciarsi sui mercati internazionali e unirsi ai protagonisti della scena economica mondiale; dall’altra, un reale pericolo in quanto espone il mercato interno alla concorrenza dei prodotti americani, notoriamente di qualità superiore. Emerge, quindi, con tutta evidenza la necessità di elevare di gran lunga gli standard qualitativi della propria offerta, mantenendo però bassi i prezzi. Le logiche della “qualità totale” propugnate da Juran, sembrano essere la strategia vincente per ottenere l’obiettivo della massimizzazione del valore accompagnata da una minimizzazione dei costi. La portata innovativa di tale approccio viene accolta positivamente non solo dai manager ma anche dai lavoratori, successivamente coinvolti nei progetti di formazione. Quello che era un punto di debolezza dell’economia giapponese – la qualità – viene trasformato in una grande opportunità per una rapida ripresa economica ed industriale, e così negli anni ’60 e ’70 i produttori giapponesi conquistano la leadership sui mercati internazionali in settori ad alta intensità tecnologica, quali ad esempio quello dell’auto e dell’elettronica, offrendo prodotti di qualità superiore a prezzi decisamente più competitivi e sottraendo progressivamente quote di mercato alle imprese americane. La rinascita economica del Giappone solleva interessanti interrogativi: come è possibile, per le aziende giapponesi, generare un’offerta qualitativamente superiore di uno o due ordini di grandezza rispetto agli standard americani ad un prezzo considerevolmente più basso? In che cosa consiste la miracolosa “ricetta” giapponese e perché le stesse idee innovative, esportate dagli USA, hanno prodotto risultati così asimmetrici nei due paesi? L’approccio orientale alla qualità, noto come Company Wide Quality Control (CWQC), ovvero controllo di qualità esteso a tutta l’organizzazione, propone il paradigma della cosiddetta qualità totale. Il CWQC rappresenta, infatti, «l’insieme di attività sistematiche sviluppate dall’intera organizzazione per raggiungere in modo efficace ed efficiente gli obiettivi dell’azienda e per dare prodotti e servizi con un livello di qualità che soddisfi i clienti in modo appropriato sia in termini di tempo che di prezzo»7. Esso si fonda su due principi rivoluzionari rispetto al modello occidentale: la soddisfazione del cliente ed il miglioramento continuo. Se tradizionalmente la qualità è stata vista soprattutto come un problema tecnico, legato alla difettosità del prodotto (qualità oggettiva), nell’approccio giapponese la stessa diventa un problema di mercato: ciò che conta non è tanto il rispetto delle specifiche di progetto, quanto la rispondenza all’uso che il cliente desidera fare di un prodotto (qualità soggettiva). Un bene e/o servizio tecnicamente perfetto ma che non risponde alle caratteristiche richieste dal consumatore, non può essere considerato di qualità. L’impresa deve, quindi, fornire valore al cliente, attraverso la soddisfazione delle sue aspettative e dei suoi bisogni, espressi, impliciti e latenti. L’approccio del CWQC può essere sintetizzato nello slogan «il cliente è il re»: in altre parole, il consumatore viene posto al centro di tutte le decisioni aziendali e viene coinvolto nei processi e nella progettazione, entrando a pieno titolo nella gestione aziendale. In tal senso, la filosofia giapponese recupera appieno il concetto di qualità soggettiva. La soddisfazione del cliente deve essere perseguita attraverso una tensione continua al miglioramento. Nel modello occidentale, la soluzione più ovvia ed immediata per migliorare le proprie performance è l’innovazione tecnologica (kairyo); la filosofia giapponese tende invece a valorizzare ciò che in realtà nell’organizzazione è già presente, ovvero i processi e le persone. Particolarmente efficace è l’osservazione di Juran per la quale le organizzazioni siedono spesso su miniere d’oro, senza rendersene conto: esse tendono a sottovalutare i benefici economici derivanti dall’innovazione gestionale, orientandosi prevalentemente alla tecnologia. Nell’ottica giapponese, invece, l’organizzazione deve concentrarsi innanzitutto sui problemi cronici, quelli con i quali la stessa ha imparato a convivere semplicemente perché li considera fisiologici e ineliminabili, nella falsa convinzione che quanto realizzato sia già il miglior modo possibile per fare le cose. Agire sui processi, intervenendo principalmente sulle risorse umane, significa costruire un miglioramento che non necessita di rilevanti investimenti, imprescindibili per l’acquisizione di nuove macchine od attrezzature, ma che consente di ottenere eguali benefici economici in termini di un aumento della produttività e dell’efficienza della struttura organizzativa. L’idea di fondo è che tutti i fattori che intervengono nei processi siano sempre in qualche modo migliorabili e fare di più e meglio deve essere la costante sfida che anima l’organizzazione di qualità. Il miglioramento continuo, quindi, è per sua natura un cambiamento graduale, costante ed incessante dell’organizzazione. La differente scelta tra il miglioramento per breakthrough (kairyo) ed il miglioramento continuo (kaizen) possiamo rappresentarla attraverso un’immagine molto semplice, ma piuttosto efficace. Siamo al piano terra di un edificio (la nostra organizzazione) ed il nostro obiettivo è salire al piano superiore (miglioramento): abbiamo due alternative, salire in ascensore (tecnologia) o prendere le scale (la struttura organizzativa, ovvero i processi e le persone). Nel primo caso, siamo certi di raggiungere in pochi secondi il piano: questa soluzione è indubbiamente vantaggiosa perché genera economie di tempo, ma è anche costosa in relazione all’acquisizione ed alla manutenzione della tecnologia. Non solo: l’ascensore è utilizzabile ad intervalli di tempo cadenzati e la sua effettiva disponibilità non è sempre nelle nostre mani, cioè non sempre rappresenta una scelta possibile (non sempre troviamo l’ascensore al piano!). Se scegliamo le scale, procedendo step by step, impiegheremo sicuramente più tempo per raggiungere il piano superiore, ma alla fine conseguiremo comunque il nostro obiettivo ed a costi certamente inferiori. Inoltre, la scelta di prendere le scale è comunque e totalmente nelle nostre mani, e abbiamo sempre di fronte un ulteriore scalino per puntare lentamente, ma continuativamente, verso l’alto. La strategia del kairyo, quindi, ci consente di ottenere rapidi benefici in termini di un aumento di produttività, ma richiede rilevanti investimenti e non sempre è praticabile; il kaizen, invece, permette di ottenere grandi benefici attraverso un miglioramento a piccoli passi con poche risorse economiche, perché produce un cambiamento su ciò che in realtà è già disponibile nell’organizzazione ed è dunque sempre praticabile. Tipicamente le imprese occidentali sono orientate ad un miglioramento per breaktrough, mentre le imprese giapponesi sviluppano un approccio di tipo kaizen. Il modello occidentale e quello orientale differiscono anche in relazione alla diversa prospettiva rispetto alla gestione della variabile qualità: nel primo caso, prevale la tendenza a considerare la qualità come una tattica, una leva competitiva; nella filosofia giapponese, invece, la qualità totale diventa parte integrante della missione e della visione ed i suoi principi edificano i pilastri della strategia aziendale. Nel modello CQWC, gli obiettivi della soddisfazione del cliente e del miglioramento continuo possono concretizzarsi solo attraverso il coinvolgimento di tutto il personale e con la collaborazione dei principali partner. L’approccio giapponese alla qualità, diversamente da quello americano, è completamente avulso da logiche organizzative di stampo taylorista, fondamentalmente basate sulla dialettica e sul conflitto tra classe dirigente e classe dei lavoratori; la filosofia giapponese si edifica su un modello culturale fortemente ispirato ai principi della cooperazione e della collaborazione. Gli interessi del lavoratore giapponese non si contrappongono a quelli del manager, ma si fondono in essi: il senso di appartenenza all’organizzazione prevale sulla visione del singolo. Il dipendente – a qualunque livello – si riconosce nella propria azienda, nei suoi valori, tanto da viverla “dalla culla alla tomba”. Nelle imprese americane ed europee accade esattamente l’opposto: il lavoratore è oppresso ed alienato da logiche organizzative fondate sulla netta separazione tra la sfera manageriale e quella operaia, producendo un conflitto tra classi. L’organizzazione giapponese sviluppa una grande attenzione nella soddisfazione di tutte le esigenze del proprio personale, interessandosi non solo della crescita e dello sviluppo professionale dei dipendenti, ma entrando nel merito degli aspetti privati della loro vita, occupandosi ad esempio delle ferie, del tempo libero, dell’educazione scolastica dei figli, dell’assistenza sanitaria, in una parola nel benessere organizzativo. Nella logica taylorista, invece, la gestione del personale è incentrata prevalentemente sulla leva del salario. Le logiche tayloriste ed una cultura americana improntata all’individualismo e al successo dei singoli, costituiscono le principali ragioni per le quali le stesse idee, ugualmente propugnate da Deming e Juran presso le imprese americane e quelle nipponiche, non abbiano attecchito in USA mentre hanno rappresentato la fortuna delle organizzazioni giapponesi che negli anni ’70 conquistano il ruolo di leader mondiali nella qualità. I costi della qualità nell’approccio “zero difetti” Secondo l’approccio tradizionale, l’impresa che minimizza i costi, sceglie un livello di qualità che non rappresenta la migliore performance possibile, ma quella economicamente più conveniente. Se vuole aumentare il livello qualitativo della propria offerta, dovrà sopportare dei costi crescenti man mano che aumenta la qualità. Nell’approccio orientale si dimostra che il maggior livello di qualità ottenibile è anche quello economicamente più conveniente: tale modello è anche noto come teoria zero difetti8. Possiamo servirci di un sistema di assi cartesiani (Figura 3) per rappresentare la scelta produttiva dell’impresa, attraverso il processo di minimizzazione dei costi, analogamente a quanto fatto per il modello tradizionale del controllo della qualità. Sull’asse delle ordinate poniamo i costi, mentre sull’asse delle ascisse osserviamo il livello di qualità, misurato in numero di difetti: quanto più è bassa la difettosità, tanto più elevata sarà la qualità dell’offerta, e viceversa; man mano che dall’origine degli assi ci spostiamo verso destra, quindi, la qualità tende a diminuire. Figura 3: L’approccio “zero difetti” Costi Costi della qualità totale Costi della difettosità Costi di gestione C N. difetti Secondo l’approccio “zero difetti”, i costi connessi con la qualità sono rappresentati da: 1) costi della difettosità; 2) costi di gestione. I costi della difettosità, analogamente a quanto osservato a proposito dell’approccio al controllo, crescono all’aumentare del numero di difetti e, quindi, al diminuire della qualità. Essi sintetizzano le medesime voci di costo analizzate in precedenza, tuttavia a differenza dell’approccio al controllo, in cui si ipotizza un andamento crescente a tassi crescenti, nell’approccio “zero difetti” i costi della difettosità aumentano a ritmi costanti: l’idea di fondo è che, implementando un modello di qualità totale, le cause dei difetti in realtà sono sempre semplici da individuare, così che la rimozione dei difetti ultimi non comporterebbe un incremento marginale dei costi rispetto alla gestione dei primi errori. I costi di gestione rappresentano, invece, un investimento che l’impresa sostiene per poter implementare un sistema strutturato per la gestione della qualità. Il relativo ammontare dipende dal grado di maturità dell’organizzazione, ovvero dallo sforzo che la stessa deve sostenere in relazione alla necessità di adattare la propria struttura ad una logica di qualità totale: questi costi, pertanto, potranno essere più o meno elevati a seconda della cultura organizzativa e sono riconducibili fondamentalmente alle attività di formazione ed informazione del personale, all’introduzione ed implementazione di strumenti organizzativi ed operativi, ecc. Tali costi sono, quindi, indipendenti dal numero di difetti e sono rappresentati graficamente attraverso una retta orizzontale parallela all’asse delle ascisse. Il costo totale della qualità, risultante dalla somma delle curve, è dato da una curva crescente al crescere del numero dei difetti, che parte da un’ordinata positiva, corrispondente all’ammontare dei costi di gestione. L’organizzazione, attraverso il processo di minimizzazione dei costi, sceglierà di produrre il livello di qualità corrispondente al punto di minimo della curva del costo totale, che si colloca sull’asse delle ordinate ovvero in corrispondenza di una difettosità pari a zero: diversamente dall’approccio tradizionale al controllo per il quale non conviene all’impresa produrre oltre un certo livello di qualità, l’approccio “zero difetti” conduce alla rivoluzionaria conclusione per la quale “la non qualità costa!”. Una produzione senza difetti, come evidenziato in precedenza, rappresenta un traguardo tecnicamente non realizzabile a causa della variabilità naturale cui sono sottoposti i processi produttivi; tuttavia, essa deve rappresentare un obiettivo a tendere che deve ispirare tutte le attività dell’organizzazione. L’unico modo per produrre a costi minimi è, infatti, quello di produrre in modo corretto già dalla prima volta. Perseguire lo standard “zero difetti” significa in concreto far sì che tutti all’interno dell’organizzazione – manager e lavoratori – si aspettino di produrre senza difetti e modifichino in tal senso i propri atteggiamenti nell’ottica di un processo di miglioramento continuo, finalizzato ad eliminare tutti i piccoli problemi che possono compromettere in qualche modo l’obiettivo della qualità totale. Ciascuno nell’organizzazione – che lavori direttamente sul prodotto o sia impiegato nei processi di supporto – sarà ugualmente responsabile del raggiungimento degli obiettivi aziendali nella misura in cui le proprie attività possano influenzarne la qualità. Le reazioni alla rivoluzione giapponese della qualità: il Total Quality Management Nel trentennio successivo alla Grande Guerra, l’industria orientale e quella occidentale si evolvono seguendo direttrici nettamente opposte: le imprese americane si specializzano nel controllo della qualità, attraverso il perfezionamento di tecniche di assicurazione interna ed esterna; le imprese giapponesi, invece, sviluppano e sperimentano i principi di una nuova filosofia di gestione, il CWQC. Tuttavia, mentre il management giapponese è aperto ed intento ad apprendere le buone pratiche manageriali sviluppate in Occidente, quello americano – condizionato dal pregiudizio di una forte arretratezza culturale dei giapponesi – continua a sviluppare i propri modelli di qualità, ignaro dei grandi cambiamenti che stanno interessando l’altra parte del mondo. Soltanto negli anni ’70, con la maggiore apertura dei mercati internazionali e l’intensificazione degli scambi con l’Oriente, le imprese occidentali sono costrette ad ammettere, con drammatica impotenza, la leadership dei competitor giapponesi. Peraltro, gli anni ’70 e ’80 sono caratterizzati da una serie di avvenimenti come la forte crescita dei paesi europei, gli shock petroliferi, la guerra fredda, ecc. che contribuiscono a rendere ancora più complesso lo scenario economico globale. Se ancora fino agli anni ’60 i prodotti orientali sono sinonimo nell’immaginario collettivo di una bassa qualità, negli anni ’70 gli stessi si impongono come prodotti con elevate prestazioni a prezzi decisamente più competitivi. Tuttavia, le imprese occidentali non hanno immediata percezione del nuovo paradigma della competizione globale; più semplicemente tendono a ricondurre l’analisi competitiva alla tradizionale dimensione del prezzo. Una prima lettura delle dinamiche economiche internazionali porta a spiegare il vantaggio competitivo giapponese, quindi, nella diversa politica di pricing, favorita dalle agevolazioni e dal supporto del governo nipponico alle imprese nazionali, dalla pratica sleale del dumping, dal minor costo del lavoro ecc. Le prime reazioni all’invasione della produzione giapponese sono, quindi, di natura difensiva. Una prima risposta consiste nel contenimento del costo del lavoro, considerevolmente diverso tra USA e Giappone: le produzioni americane a maggiore intensità di lavoro sono così trasferite nelle aree in cui i salari risultano più bassi9. I produttori occidentali esercitano notevoli pressioni sul governo per l’emanazione di norme restrittive sulle importazioni e provvedimenti penali per la persecuzione del dumping. Esse, inoltre, promuovono accese campagne contro i prodotti giapponesi, sotto l’insegna del “compra americano” (Figura 4). Figura 4: Adesivo diffuso negli USA, negli anni ’80, per contrastare la concorrenza dei prodotti nipponici Solo successivamente i manager americani realizzano la necessità di dover combattere la concorrenza giapponese con la sua stessa arma – la qualità – mettendo in discussione i propri modelli di business. L’approccio taylorista, che ha rappresentato per circa un secolo il riferimento culturale delle imprese occidentali, viene così messo in crisi dai principi del CWQC giapponese, che ispirano una nuova filosofia di gestione dell’organizzazione basata sulla qualità totale – il Total Quality Management (TQM). Sebbene nell’acronimo CWQC si parli ancora di controllo, di fatto la filosofia giapponese – nella misura in cui estende il controllo di qualità a tutta l’organizzazione – sottintende un approccio alla gestione della qualità. Il TQM ne riprende l’idea innovativa e la traduce più correttamente in termini di quality management. Da una visione prettamente improntata su un controllo di produzione, si passa quindi ad una visione più ampia della qualità che percorre tutta l’organizzazione ed i suoi processi: la qualità si sposta progressivamente da un piano squisitamente tecnico ad un piano strategico. In tale ottica, è fondamentale che ciascuno, all’interno della struttura organizzativa, abbia consapevolezza e percezione del contributo che il proprio lavoro apporta al successo dell’organizzazione in termini di raggiungimento della migliore qualità possibile. Essa diventa, così, un obiettivo diffuso e condiviso da lavoratori e dirigenti, realizzabile solo attraverso uno sforzo di partecipazione e cooperazione tra i diversi attori: ciò rappresenta quanto di più lontano possibile dall’approccio taylorista che ha imperversato nei sistemi produttivi occidentali fino agli anni ‘80. 3. I guru della qualità Il tema della qualità ha subito diverse sfaccettature dai diversi guru che hanno interpretato e veicolato la gestione della qualità nel tempo. Questi hanno contribuito in maniera cruciale alla diffusione della cultura della qualità. Definiamo Quality Gurus gli individui che sono stati identificati per il loro contributo significativo nel miglioramento della qualità di beni e servizi I principali guru sono: ▪ W. Edwards Deming ▪ Joseph M. Juran ▪ Armand Feingenbaum ▪ Kaoru Ishikawa W. Edwards Deming (1900-1993) Noto per la ruota di Deming e l’approccio al miglioramento continuo. Consulente per aziende giapponesi e americane. Secondo Deming il controllo della qualità non era più necessario ma bisognava pensare alla qualità con un approccio volto al miglioramento continuo. Ha guadagnato credibilità grazie alla sua influenza sull'industria giapponese e americana. Meglio conosciuto per la sua enfasi sulla gestione di un sistema per la qualità. Il suo pensiero era basato sull'uso delle statistiche per il miglioramento continuo. Ha tenuto lezioni sul controllo statistico della qualità all'Unione giapponese degli scienziati e degli ingegneri dopo la seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti lo hanno preso in considerazione quando si sono resi conto di essere in ritardo rispetto al Giappone in termini di qualità. Noto per la ruota o cicli di Deming. Questa si articola in 4 fasi (vedi figura sottostante). L’idea è che ci sia un cerchio ossia una circolarità di attività che vengono ripetute regolarmente e che non possono essere interrotte le opportunità di miglioramento. L’obiettivo è quello di ridurre/eliminare in modo sistematico e strutturata le cause che determinano problemi. La ruota di Deming si può applicare a qualsiasi processo (di marketing, di gestione dei materiali, a processi ossia che coinvolgono più funzioni). Figura 5. Il ciclo di Deming Deming sviluppa il tema della qualità identificando 14 punti. Non è un tema individuale ma è una visione che deve avere l intera organizzazione deve divenire scopo comune di tutte le persone che lavorano nell’organizzazione. 1. creare consenso e fermezza di intendimenti nella direzione di un obiettivo comune, rappresentato dal miglioramento continuo (dei processi, dei prodotti e dei servizi) con lo scopo di restare competitivi e di creare lavoro. 2. La qualità dei processi e dei prodotti richiede un impegno costante e continuo da parte del management che deve assumersi la responsabilità di gestione del cambiamento che è importante e, spesso, non viene accettato nel modo giusto. Occorre una nuova filosofia: errori, scarsa professionalità ed atteggiamenti negativi non sono più accettabili e non possono essere più imputati solo ai collaboratori. 3. Occorre eliminare la dipendenza dall’ispezione al 100 % per il raggiungimento della qualità, riducendo il ripetersi degli errori. Le ispezioni vengono fatte quando è già troppo tardi, spesso sono inefficaci e, soprattutto, sono costose. La qualità va costruita a monte, là dove si progetta e si costruisce il prodotto e dipende dal miglioramento del processo e da come i collaboratori supportano questo miglioramento. 4. I fornitori non vanno scelti solo in base al prezzo. Bisogna puntare a minimizzare i costi totali dato che prezzi bassi non significano automaticamente costi totali minori. 5. Occorre migliorare costantemente il sistema di pianificazione, produzione e i servizi, rendendoli più efficienti anche attraverso l’applicazione di metodi statistici. Il miglioramento costante della produttività e della qualità porta alla costante riduzione degli sprechi e dei costi. 6. Va istituito l’addestramento sul lavoro che deve costituire per tutti una parte delle attività quotidiane. Troppo spesso le persone imparano il lavoro dai propri colleghi, spesso non addestrati in modo adeguato. 7. Bisogna che i manager esercitino una leadership forte con l’obiettivo di aiutare le persone a fare un lavoro migliore. Le persone che non lavorano bene sono semplicemente nel posto sbagliato. Il leader deve essere, prima di tutto, un coach per capire quali collaboratori necessitino di un’attenzione individuale. 8. Per lavorare efficacemente, occorre seminare fiducia, spazzare via la paura. 9. Bisogna abbattere le barriere tra i dipartimenti e fra le categorie dei lavoratori, bisogna promuovere la comunicazione verticale e orizzontale. 10. Slogan come “zero difetti” e “fare le cose bene la prima volta” vanno eliminati. Questa tipologia di esortazioni porta ad avere target irrealistici perché una varianza, eliminate le cause speciali, esiste sempre. 11. Gli obiettivi numerici e la quantificazione delle performance come criterio di valutazione della produttività vanno eliminati perché costringono a confrontarsi con i numeri e non con la qualità. I collaboratori potrebbero cercare di raggiungere gli obiettivi ad ogni costo a scapito dell’efficienza e del contenimento dei costi. Gli obiettivi numerici vanno sostituiti con azioni di leadership e con la motivazione. 12. Vanno eliminate tutte le barriere che impediscono di lavorare bene (attrezzature non funzionanti, materiali difettosi, responsabili non in grado di ricoprire il ruolo di guida, ecc). Quando qualcosa non funziona bisogna capire che è colpa del sistema, non del singolo. Bisogna assumere le persone giuste, formarle nel modo giusto, motivarle, responsabilizzarle, sollecitarle ad essere propositive. 13. Va istituito un programma di formazione, autoformazione, motivazione e miglioramento per ognuno. 14. Occorre mettere ciascuno nelle condizioni di realizzare il cambiamento. La trasformazione è un lavoro lungo da affrontare tutti insieme. “Total quality management” significa che la qualità è un lavoro di tutti. Occorre che il management abbia il coraggio di cambiare e che rediga un piano del cambiamento che si vuole attuare. Joseph Juran (1904-2008) Juran è stato responsabile della crescita della qualità. Rispetto a Deming, ha adottato un approccio al miglioramento più strategico e basato sulla pianificazione. Promuove l'opinione che i problemi di qualità organizzativa siano in gran parte il risultato di una pianificazione insufficiente e inefficace per la qualità. Sostiene che le aziende devono rivedere i processi di pianificazione strategica e acquisire la padronanza di questi processi. Juran vede la qualità come una trilogia tra la pianificazione, il controllo e il miglioramento. La sua filosofia si fonda su questi tre punti: 1. Ottenere miglioramenti strutturati su base continua combinati con dedizione ed urgenza. 2. Stabilire un programma di formazione. 3. Stabilire impegno e leadership nella dirigenza superiore. Philip Crosby (1926-2001) Philip Crosby è diventato famoso per il suo libro, Quality is Free. Ha perseguito l'approccio zero difetti e gli aspetti comportamentali e motivazionali del miglioramento della qualità piuttosto che gli approcci statistici. Ha adottato un approccio delle risorse umane simile a Deming. Secondo Crosby gli strumenti statistici possono essere un supporto agli aspetti comportamentali del migliroamento della qualità. Gli aspetti statistici si integrano per realizzare e migliorare la qualità.La qualità non ha un costo, è qualcosa che si riesce ad introdurre e sviluppare all interno dell organizzazione perché si motivano le persone e si cambiano i comportamenti. Anche Crosby sviscera la qualità identificando 14 steps. 1. Il management deve impegnarsi nella qualità e questo impegno deve essere chiaro a tutti attraverso la formulazione di una politica della qualità concisa, chiara e accessibile a tutti. Il management deve essere determinato nel perseguire la qualità e formare i collaboratori nell'utilizzo degli strumenti della qualità. 2. Bisogna creare delle squadre che lavorino costantemente sul miglioramento continuo e i cui membri appartengano a tutti i principali dipartimenti dell’organizzazione dato che, potenzialmente, ogni settore di un’organizzazione può dare il suo contributo a difetti ed errori. 3. Occorre capire dove si nascondono i problemi e per comprenderlo dobbiamo essere capaci di misurare le non conformità per poterle valutare in maniera oggettiva. Bis