Citologia ed Istologia PDF
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These notes provide an overview of the chemistry and composition of living matter. It focuses on organic compounds, including carbohydrates, lipids, and proteins. The text details various aspects of each compound, explaining structure and function.
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1. CHIMICA DELLA MATERIA VIVENTE COMPONENTI ORGANICI I componenti organici sono rappresentati dai glucidi, dai lipidi, delle proteine e degli acidi nucleici. Le ultime tre classi comprendono anche composti macromolecolari da cui dipendono le proprietà strutturali delle cellule. Le macromolecole sono...
1. CHIMICA DELLA MATERIA VIVENTE COMPONENTI ORGANICI I componenti organici sono rappresentati dai glucidi, dai lipidi, delle proteine e degli acidi nucleici. Le ultime tre classi comprendono anche composti macromolecolari da cui dipendono le proprietà strutturali delle cellule. Le macromolecole sono formate da unità che si ripetono e che sono legate fra loro da legami covalenti. Le unità sono chiamate monomeri, mentre l’insieme di quest’ultimi sono i polimeri. Quindi in processo che porta alla formazione dei polimeri si chiama polimerizzazione e si distinguono: omopolimeri, se i monomeri sono tutti uguali; eteropolimeri, se i monomeri sono diversi tra loro. Glucidi I glucidi o carboidrati sono composti formati da carbonio, idrogeno e ossigeno e rappresentano la principale fonte di energia degli organismi animali e vegetali. Alcuni di essi possono essere anche sostanze di sostegno. I glucidi si distinguono in monosaccaridi, oligosaccaridi e polisaccaridi. MONOSACCARIDI Comprendono i glucidi che non possono essere idrolizzati in composti più semplici, per questo sono i monomeri dei glucidi. Sono cristallizzabili e solubili in acqua. Quelli di interesse biologico hanno d atre a sette atomi di carbonio: i più importanti sono i pentosi come il deossiribosio e il ribosio., ma anche gli esosi, come il glucosio, il galattosio e il fruttosio. I monosaccaridi con più di 5 atomi di carbonio, per reazione interna possono assumere una forma ciclica che, tra l’altro, è quella assunta in natura da queste molecole. OLIGOSACCARIDI E POLISACCARIDI Due monosaccaridi possono legarsi tra loro tramite un legame covalente di condensazione chiamato legame O-glicosidico che è alla base della formazione degli oligomeri e dei polimeri glucidici. Tra gli oligosaccaridi (da 2 a 10 monosaccaridi) biologicamente più importanti abbiamo il maltosio (unione di 2 molecole di α-D-glucosio), il lattosio (zucchero del latte costituito dall’unione di una molecola di glucosio con una di galattosio) e il saccarosio (unione di glucosio e fruttosio), tutti disaccaridi con funzione energetica. Nell’ambito dei polisaccaridi si annovera una gamma di sostanze di peso molecolare fra decidine di migliaia e milioni di dalton. I principali sono l’amido (costituito da due tipi di polisaccaridi, l’amilosio e l’amilopectina, entrambi omopolimeri di glucosio, rappresenta un deposito di carboidrati dei vegetali), il glicogeno (formato dalla polimerizzazione di numerose molecole di glucosio ed è la riserva di carboidrati principale negli animali). Tra i polisaccaridi di struttura ritroviamo la cellulosa e la chitina. GLICOSAMINOGLICANI I glicosaminoglicani (GAG), noti anche come mucopolisaccaridi, sono lunghe catene polisaccaridiche non ramificate composte da un’unità disaccaridiche che si ripetono. Essi sono chiamati glicosaminoglicani perché uno dei due zuccheri, nel disaccaride che si ripete, è sempre un aminozucchero, ovvero un monosaccaride in cui un gruppo ossidrile è stato sostituito da un gruppo aminico. I GAG sono ricchi di gruppi acidi per la presenza di gruppi solforici e carbossilici in molti residui di zuccheri, questo ne indica la forte basofilità e metacromatiche. I diversi tipi di GAG vengono distinti per i residui di zuccheri, il tipo di legame che si stabilisce tra questi, il numero e la localizzazione dei gruppi solforici. Essi sono l’acido ialuronico, il condroitin 4-solfato, il condroitin 6-solfato, il dermatansolfato, l’eparansolfato, l’eparina e il cheratansolfato. I GAG svolgono un ruolo fondamentale in molti tessuti. Sono, per esempio, i costituenti principali della sostanza intercellulare amorfa dei tessuti connettivi, dove si trovano spesso collegati con proteine per formare delle complesse strutture chiamati proteoglicani. I GAG essendo idrofili legano grandi quantità di acqua formando gel idratati anche a concentrazioni molto basse. Quindi essi svolgono un ruolo fondamentale nel mantenere idratata la matrice extracellulare. PROTEOGLICANI I proteoglicani, o mucoproteine sono grosse molecole costituite da GAG e proteine. In queste molecole i GAG sono attaccati covalentemente ai residui di serine di una proteina centrale. La differenza con le glicoproteine è che quest’ultime contengono una percentuale più bassa di carboidrati sotto forma di corte catene oligosaccaridiche ramificate; i proteoglicani invece sono molecole più grosse che contengono una percentuale maggiore di carboidrati sotto forma di lunghe catene non ramificate di GAG privi di acido sialico. Alcuni proteoglicani possono formare nella cartilagine grossi aggregati che sono legati non covalentemente attraverso la loro core protein a una singola catena di acido ialuronico attraverso una proteina di legame. GLICOPROTEINE Le glicoproteine sono una componente essenziale delle membrane plasmatiche e del glicocalice. Si tratta di proteine coniugate il cui gruppo prostetico è un’oligosaccaride. Glicoproteine di superficie sono gli antigeni che costituiscono i gruppi sanguigni e gli antigeni di istocompatibilità implicati nel rigetto dei trapianti. La fibronectina è una glicoproteina della matrice extracellulare che promuove l’adesione cellulare. Glicoproteine extracellulari sono anche la condronectina della cartilagine, con proprietà strutturali e funzionali molto simili alla fibronectina, e la laminina delle membrane basali, che viene utilizzata dalle cellule epiteliali in sostituzione o in associazione con la fibronectina per fissarsi al collagne. Lipidi I lipidi sono composti organici presenti negli organismi, caratterizzati da un’elevata solubilità nei solventi organici e dalla non solubilità in acqua. I lipidi semplici derivano dalla condensazione di lipidi non idrolizzabili. I lipidi sono complessi se, oltre ai suddetti residui ne contengono anche altri derivati da molecole non lipidiche a carattere ionico o fortemente idrofilo quali acido fosforico, aminoacidi o aminoalcoli. È proprio il carattere apolare (idrofobico) dei lipidi semplici e quello parzialmente polare (anfipatico) dei lipidi complessi a determinare la diversa funzione biologica. LIPIDI SEMPLICI La maggior parte dei lipidi semplici deriva dall’esterificazione di acidi grassi con alcol di varia natura. Dall’esterificazione con alcoli superiori monovalenti si ottengono le cere, da quella con il glicerolo i gliceridi e da quelli con gli steroli gli esteri degli steroli. I gliceridi costituiscono la parte principale dei lipidi semplici e si suddividono in base al numero di funzioni alcoliche esterificate. I digliceridi e i trigliceridi sono detti semplici o misti, a differenza se rispettivamente gli acidi grassi legati fra loro sono uguali o diverse. Le miscele di trigliceridi sono denominati oli, se liquidi a temperatura ambiente, oppure grassi, se solide. Essendo essenzialmente idrofobici tendono a depositarsi nel citoplasma sotto forma di gocce lipidiche isolate. LIPIDI COMPLESSI I lipidi complessi sono caratterizzati dalla presenza di residui nettamente idrofilici che attribuiscono ai composti un netto carattere anfipatico (ovvero la presenza zia di zone polari che di zone apolari). In base alla natura del residuo idrofilico si possono distinguere in fosfolipidi (residui dell’acido fosforico) e glicolipidi (residui di mono- e oligosaccaridi). Sono fosfolipidi le lectine, le cefaline e le sfingomieline. Mentre i glicolipidi sono suddivisi in cerebrosidi e gangliosidi. In base anche alla struttura della parte idrofobica vengono distinti in fosfogliceridi (fosfolipidi derivanti dall’acido fosfatidico) e in sfingolipidi (comprendenti le sfingomieline e i glicolipidi). Tutti i lipidi complessi posseggono due lunghe catene alifatiche apolari (sature o insature) e un gruppo più o meno voluminoso avente carattere fortemente idrofilico per la presenza di gruppi ionizzati con cariche negative e/o positive. I lipidi in acqua tendono a formare micelle o possono associarsi per costituire un doppio strato lipidico in cui le code apolari stanno all’interno, mentre le teste idrofiliche sono poste sulle due superfici del doppio strato a contatto con l’acqua. Proteine Le proteine o protidi sono composti fondamentali nelle strutture viventi. Essi sono composti da monomeri detti aminoacidi (a.a) che, considerando le proteine naturali, sono 20. Dato che gli amminoacidi possono combinarsi in tutte le possibili sequenze è molto difficle una conoscenza dettagliata di tutte le proteine. Le proteine formate dai soli a.a sono chiamate semplici; quelle che presentano anche al loro interno molecole di diversa natura (gruppo prostetico) oltre agli a.a (gruppo proteico), sono dette coniugate. STRUTTURA DELLE PROTEINE Gli aminoacidi hanno una struttura generale tipica. Infatti, presentano un carbonio centrale asimmetrico in quanto lega 4 gruppi diversi: un gruppo aminico, un gruppo carbossilico, un idrogeno e una catena laterale R. Gli a.a sono sostanze anfotere in quanto al loro interno hanno sia una funzione acida (gruppo carbossilico) che una funzione basica (gruppo aminico). A pH molto bassi e molto alti predominano le forme cationiche o anioniche; mentre a pH intermedi (punti isoelettrici) essi acquistano una forma anfoionica o zwitterione. STRUTTURA PRIMARIA Una proteina è formata da una lunga sequenza di a.a uniti con un legame peptidico o carboamidico, ovvero un legame che si forma per condensazione tra il gruppo carbossilico di un a.a con il gruppo aminico del successivo. La semplice sequenza lineare degli a.a indica la struttura primaria, specifica per ogni proteina. Da questa derivano le configurazioni spaziali e globali della proteina. Sperimentalmente si è dimostrato che, mentre la sostituzione di un aminoacido in un punto della proteina porti alla completa inattivazione funzionale della proteina, sostituzioni in altri punti non producono alcun effetto negativo. Ciò indica che le funzioni di una proteina non dipendano soltanto dalla natura chimica dei suoi costituenti ma anche dalla loro localizzazione in determinati punti della molecola. STRUTTURA SECONDARIA I legami responsabili della formazione di una catena polipeptidica sono legami covalenti. In particolare, in gruppo carboamidico è situato su un piano fisso, mentre le altre parti della molecola possono avere un certo grado di libertà di rotazione nello spazio, andando ad assumere un complesso molecolare che può variare continuamente la sua forma, chiamata struttura elicoidale casuale. Tuttavia, normalmente, nelle proteine si stabilizza un assetto definitivo, chiamato struttura secondaria dovuta all’instaurarsi di legami deboli (a idrogeno per esempio) tra i gruppi carbossilici e aminici. Le strutture secondarie regolai sono due: la prima è la configurazione a foglietto β- pieghettato, mentre la seconda è la configurazione a α-elica. Può essere presa in considerazione una particolare struttura secondaria, quella presentata dalla proteina costitutiva le fibre collagene, il tropocollagene. Questa proteina presenta tre filamenti peptidici (due uguali nella struttura primaria, l’altro diverso) che si organizzano in una configurazione elicoidale a passo regolare e andamento sinistrorso. Ciascun filamento presenta tratti a elica regolare alternati ad altri con struttura più irregolare. Tale struttura è resa ancora più complessa dalla presenza di residui glucidici che intervengono nei legami laterali. STRUTTURA TERZIARIA Le proteine però possono assumere una configurazione spaziale ancora più complessa della configurazione secondaria, detta struttura terziaria, che è ben definita. Essa rappresenta la struttura tridimensionale stessa della proteina e viene determinata non solo da legami a idrogeno tra i gruppi peptidici, ma anche da una serie di legami di varia natura che si instaurano tra le catene laterali R, oppure tra queste e il solvente. Le interazioni più comuni che intervengono sono: Legami di tipo ione-ione e ione-dipolo; Legami dipolo-dipolo; Forze di Van der Waals; Interazioni non polari; Ponti disolfuro tra le Cisteine. Proprio la struttura terziaria va a spiegare il perché se modifichiamo a.a in determinati punti specifici della proteina si può avere la sua completa inattivazione oppure nessun cambiamento. Proprio perché sono le varie interazioni tra a.a e catene peptidiche che determinano le proprietà chimico- fisiche e biologiche di una proteina. STRUTTURA QUATERNARIA Alcune proteine sono costituite da più catene polipeptidiche (dette subunità) associate tra loro a formare un complesso proteico dotato di una definita struttura spaziale, detta struttura quaternaria. L’emoglobina è il tipico esempio di proteina dotata di struttura quaternaria. Questa molecola è formata da 4 subunità uguali a due a due, ovvero le α-globine e le β-globine. Ogni globina ha una caratteristica struttura terziaria che permette di accogliere, nella parte centrale, in un incavo profondo, un gruppo tetrapirrolico o prostatico detto eme contenente il ferro capace di legare l’ossigeno. Il gruppo ferroso è legato alla proteina con legami ionici, mentre il ferro bivalente è legato, oltre che con l’azoto dei quattro nuclei pirrolici, anche con l’azoto di un residuo istidinico. Enzimi Gli enzimi sono proteine che vengono sintetizzati sotto controllo genetico e regolano l’intera gamma delle reazioni metaboliche cellulari. RUOLO DEGLI ENZIMI NEL METABOLISMO CELLULARE I processi biochimici che consentono ai viventi di accrescersi, di riprodursi e di svolgere compiti specifici sono detti anabolici e sono da considerarsi reazioni endoergoniche in quanto hanno luogo con un consumo di energia. Le molecole alimentari vengono degradate e liberano così energia contenuta nei loro legami; queste reazioni demolitive sono definite cataboliche ed esoergoniche in quanto portano al rilascio o a fornire energia. L’insieme delle reazioni anaboliche e delle reazioni cataboliche che si svolgono incessantemente in un organismo costituiscono il metabolismo di un individuo. Generalmente le reazioni chimiche non avvengono spontaneamente ma devono venire aiutate fornendo energia ai reagenti. L’energia o la quantità di calore necessario a fornire ad un sistema viene denominata energia di attivazione. Tuttavia, per avvenire senza aiuti, le reazioni in una cellula ci metterebbero troppo tempo che porterebbe alla inevitabile morte cellulare. Data questa impossibilità essa si affida ad un artificio particolare. Infatti, la cellula cerca di modificare l’energia necessaria alle reazioni in modo tale che risulti spezzettata in piccoli salti energetici progressivi. Quindi è necessaria una molecola che possa rendere l’energia di attivazione così bassa al punto da far avvenire la reazione quasi spontaneamente. Le sostanze con un’attività simile prendono il nome di catalizzatori, mentre il processo teso ad abbassare l’energia di attivazione è detto catalisi. Quindi tutte le reazioni nel nostro corpo avvengono per catalisi e, i catalizzatori sono i cosiddetti enzimi. Gli enzimi, infatti, sono in grado di catalizzare milioni di reazioni in tempi straordinariamente brevi. Tuttavia, gli enzimi non possono andare contro la fisica, per questo possono solo catalizzare reazioni favorite da un punto di vista termodinamico. La specificità degli enzimi è diretta sia verso il tipo di reazione sia verso il substrato. Ciò significa che un enzima si lega a una sola o a poche specie molecolari e catalizza un solo tipo di reazione biochimica. In base al tipo di reazione catalizzata, gli enzimi si classificano in: Ossidoreduttasi; Transferasi, trasferimento di radicali; Idrolasi, idrolisi; Sintetasi, reazioni di sintesi di una o più molecole; Isomerasi, interconversione di isomeri; Liasi, rottura di un legame specifico. Acidi nucleici Gli acidi nucleici rappresentano le molecole più grosse e interessanti presenti negli organismi dei viventi. Le informazioni necessarie perla costruzione di un intero organismo e il suo mantenimento in vita vengono codificate in una macromolecola che fa parte di questi costituenti organici della sostanza vivente. Essi hanno una natura acida e sono ricchi di fosforo. Esistono due tipi di acidi nucleici: l’acido desossiribonucleico o DNA e l’acido ribonucleico o RNA. STRUTTURA DEGLI ACIDI NUCLEICI Gli acidi nucleici sono definiti polinucleotidi, in quanto il loro monomero strutturale è il nucleotide. Ogni nucleotide è costituito da una base azotata, da un pentoso e da un radicale fosforico. Nel DNA il pentoso è il deossiribosio, nell’RNA è il ribosio. Le basi azotate sono di tipo pirimidinico o a singolo anello (timina, citosina e uracile), oppure puriniche o a doppio anello (adenina e guanina); nel DNA abbiamo A, T, C e G, mentre nell’RNA abbiamo A, U, C e G. Il pentoso legato alla base azotata viene definito nucleoside che, legando il radicale fosforico al carbonio 5, diventa nucleotide. Nucleosidi di- e trifosfati si ritrovano liberi nella cellula e svolgono un ruolo importante nei processi energetici. Infatti, un nucleoside trifosfato legato alla base azotata adenina forma il complesso sistema Adenosindifosfato/Adenosintrifosfato (ADP e ATP). Negli acidi nucleici i nucleotidi formano polimeri formando lunghe catene la cui struttura può variare in base alla frequenza dei nucleotidi stessi. L’unione tra due nucleotidi avviene tramite un legame glicosidico, ovvero un legame covalente tra il gruppo ossidrile del radicale fosforico sul carbonio 5 di un nucleotide con il gruppo ossidrile legato al carbonio 3 dell’altro nucleotide. Queste lunghe catene sono acide perché ogni residuo fosforico ha ancora un gruppo ossidrile acido. STRUTTURA PRIMARIA E SECONDARIA La struttura primaria degli acidi nucleici è caratterizzata dalla sequenza dei nucleotidi allineati a formare un polinucleotide; a questo livello si distingue la differenza del DNA per quanto riguarda la base pirimidinica e la natura del pentoso. La struttura secondaria, cioè la disposizione spaziale dei polinucleotidi, è profondamente diversa fra DNA e RNA. Il DNA risulta formato da due filamenti polinucleotidici antiparalleli fra loro e avvolti a formare una struttura secondaria a doppia elica con passo regolare; l’RNA è invece a singolo filamento polinucleotidico. STRUTTURA SECONDARIA DEL DNA La scoperta della struttura spaziale del DNA, dovuta a Watson e Crick nel 1953, ha permesso un rapido avanzamento nelle conoscenze di genetica molecolare. Il DNA contiene in forma codificante la memoria delle più importanti e specifiche molecole cellulari, le proteine. Nella doppia elica del DNA i due filamenti, che si avvolgono in giri destrorsi, sono costituiti da catene nucleotidiche orientate in direzioni opposte (un filamento sarà 5’à3’ l’altro sarà 3’à5’). I filamenti antiparalleli sono mantenuti ad una distanza regolare di 2 nm, grazie ai legami a H tra le basi azotate: la rottura di questi legami permette alla doppia elica di aprirsi per far diventare ogni filamento uno “stampo” per la sintesi di nuovi nucleotidi. In particolare, l’adenina si lega solo alla timina (con 2 legami a H) e la citosina si lega solo con la guanina (con 3 legami a H). Lungo lo scheletro le basi distano fra loro 0,34 nm e, essendoci 10 basi per ciascun giro della doppia elica, il passo del DNA è di 3,4 nm. Inoltre, la doppia elica presenta un solco maggiore e un solco minore. Questa conformazione del DNA è detta conformazione B. PROPRIETÀ E FUNZIONI DEL DNA L’appaiamento obbligatorio e specifico delle basi azotate nel DNA rende i due filamenti complementari tra loro: infatti se un filamento contiene la sequenza ACTGG, l’altro sicuramente avrà sequenza complementare TGACC. Un filamento, quindi, costituisce da stampo per l’altro: la doppia elica, aprendosi, separa i due filamenti che fungeranno l’uno lo stampo dell’altro per la formazione di un neo-filamento identico a quello complementare. Si vengono a formare quindi due molecole di DNA uguali fra loro e ala molecola di partenza, costituite ciascuna da un vecchio e da un nuovo filamento. Questo meccanismo di duplicazione del DNA viene definito semiconservativo, in quanto il nuovo DNA è costituito per metà dal precedente. Il DNA è l’unica molecola dell’organismo in grado di auto duplicarsi grazie all’aiuto di particolari enzimi, le DNA polimerasi. Ogni organismo è caratterizzato da una propria costituzione proteica e, il responsabile della trasmissione di queste caratteristiche, dette ereditarie, è proprio il DNA che, per esprimerle, fa uso di molecole che sono una sua copia complementare, gli RNA. Ciascuna proteina è codificata sul DNA sotto forma di sequenze nucleotidiche corrispondenti a quelle degli aminoacidi della proteina stessa. In particolare, ogni aminoacido ha una precisa correlazione (codice genetico) con una tripletta determinata di nucleotidi. I 4 nucleotidi forniscono ben 64 combinazioni differenti tra loro: più che sufficienti per codificare i 20 aminoacidi presenti negli organismi naturalmente. Di questi molti, infatti, sono codificati da più di una tripletta, per un fenomeno detto degenerazione del codice o ridondanza del codice genetico, mentre certe triplette non codificano per un a.a ma servono per determinare segnali di inizio (AUG) e di fine (UAA – UAG – UGA) del processo di codificazione del DNA. Le triplette di nucleotidi caratteristiche di ciascun a.a prendono il nome di codoni (situati sul DNA, o meglio, sul filamento di mRNA che si forma durante la trascrizione), mentre invece le triplette che riconoscono i codoni sono gli anticodoni (situati sul tRNA). Il tratto di DNA che contiene l’informazione per un’intera proteina è detto gene strutturale; esso entra in attività trascrivendo un mRNA, sua copia complementare, sul quale avviene poi la sintesi vera e propria delle proteine, con l’ausilio di altri RNA: l’RNA transfer (tRNA) e l’RNA ribosomiale (rRNA). Ogni essere vivente possiede enormi molecole di DNA che costituiscono il suo materiale ereditario o genoma. La doppia elica può subire un ulteriore avvolgimento su sé stessa detto superavvolgmento definito positivo se avviene in senso destrorso, negativo se avviene in senso sinistrorso. Questo fenomeno è catalizzato da enzimi detti topoisomerasi. Nella cromatina degli eucarioti il DNA si avvolge su istoni dei nucleosomi in direzione sinistrorsa: ciò provoca un superavvolgimento negativo. DUPLICAZIONE DNA La doppia elica si deve aprire in modo che i filamenti vengano separati e fungano da stampi. Ciò avviene grazie all’enzima elicasi che va a rompere i legami idrogeno tra le basi e, i due filamenti si svolgono mentre vengono stabilizzati dalle proteine SSB, le quali impediscono che i due filamenti si possano legare autonomamente. Si viene a creare quindi una FORCELLA DI REPLICAZIONE. In prossimità della forcella si creano dei superavvolgimenti che vengono impediti dalle topoisomerasi I e II per mantenere stabile il filamento. Viene poi sintetizzato un RNA primer, dalle RNA primasi, che si legano ai filamenti di DNA e sintetizzano sui due filamenti i cosiddetti primers di RNA che servono alla DNA polimerasi per riconoscere il sito di attacco sul DNA e iniziare la sintesi. Dal momento che la DNA polimerasi lavora solo nella direzione 5’—>3’, la duplicazione avviene in maniera diversa a seconda del filamento: avremo un filamento leader (3’—>5’), dove essa avviene in maniera lineare, e un filamento retrogrado o ritardato (5’—>3’), in cui è segmentata grazie alla formazione dei frammenti di Okazaki che si muovono in direzione opposta alla forcella. Dopo aver concluso la duplicazione, i primer e i frammenti di Okazaki devono essere rimossi dalle nucleasi e, gli spazi rimasti vengono saldati dalle ligasi. STRUTTURA SECONDARIA E TIPI DI RNA Gli RNA sono più piccoli e non sono in grado di autoduplicarsi. Una molecola di RNA consiste in uno scheletro di zucchero fosfato dal quale sporgono le basi azotate. Le molecole di RNA sono sintetizzate dal DNA con l’intervento di un particolare enzima, l’RNA polimerasi che, negli eucarioti cambia a seconda dei tipi di RNA prodotti. La trascrizione avviene con l’apertura della doppia elica di ci solo il filamento 3’—>5’ fungerà da stampo per la sintesi dell’RNA, mentre l’altro resta silente. I principali tipi di RNA sono l’RNA messaggero (mRNA), l’RNA transfer (tRNA) e l’RNA ribosomiale (rRNA), che insieme a delle proteine forma i cosiddetti ribosomi. Un’altra categoria di RNA sono i piccoli RNA citoplasmatici o scRNA, tra i quali l’scRNA 7S che è coinvolto nel riconoscimento del legame tra il ribosoma e la parete del RER. RNA messaggero L’mRNA viene sintetizzato dalla RNA polimerasi II. Esso è costituito da filamenti contenenti tanti codoni tanti quanti sono gli a.a della proteina che lui andrà poi a codificare. Al momento della sintesi proteica, un mRNA è attraversato da più ribosomi, di forma granulare, andando a formare una struttura definita poliribosoma o polisoma. Essi si trovano nel citoplasma. I loro precursori, gli RNA giganti o eterogenei (hnRNA), sono. Molecole più lunghe che vanno incontro a delle modificazioni prima di passare nel citoplasma sotto forma di mRNA. Dal prodotto iniziale o pre-mRNA, che presenta sia sequenze codificanti, gli esoni, sia sequenze non codificanti, gli introni, si hanno dei processi di maturazione: l’hnRNA è modificato con l’aggiunta all’estremità 5’ di un cappuccio metilato (serve per proteggere l’RNA nascente dalla degradazione), e all’estremità 3’ di una sequenza poli-A (una lunga sequenza di nucleotidi adeninici, serve a favorire il trasporto dell’mRNA nel citoplasma. Successivamente viene sottoposto al processo di splicing, consistente nell’eliminazione dei tratti intronici e nell’unione dei tratti esonici. Lo splicing dipende da strutture proteiche chiamate spliceosomi, che riconoscono le due estremità degli introni, li rimuovono e quindi saldano gli esoni. RNA transfer Il tRNA o RNA di trasporto ha il compito di trasferire ai ribosomi i vari a.a (tramite tra rRNA e mRNA). Esso viene sintetizzato dalla RNA polimerasi III. Ha una struttura elicata costituita da 3 anse (talvolta una quarta, detta ansa variabile. Su un piano presenta una struttura a trifoglio, con anse alternate a tratti di doppia elica. L’estremità 3’ del filamento sovrasta l’estremità 5’ del filamento complementare con le tre basi CCA: questa tripletta rappresenta il sito accettore dell’a.a, allorché questo, attivato da uno specifico enzima, il aminoacil-tRNA sintetasi, prende posto sul tRNA. Le due anse presenti sui lati della zona centrale sono importanti. L’ansa T a destra contiene lo pseudo uracile o ribotimina che costituisce il sito di attacco al ribosoma. L’ansa D a sinistra contiene il D-loop, contenente diidrouracile che stimola l’aminoacil sintetasi per l’attacco dell’a.a al tRNA. L’ansa caratteristica della molecola di tRNA che li differenzia gli uni dagli altri è l’ansa centrale o ansa dell’anticodne, opposta al braccio ACC. Quest’ansa contiene, estroflessa verso l’esterno, una sequenza di tre basi complementari, l’anticodone, specifico per un codone complementare dell’mRNA. Per il fenomeno di vacillamento della terza base molti tRNA possono riconoscere più di un codone per lo stesso aminoacido. Il codone AUG codifica per la formil metionina (procarioti) o metionina (eucarioti) rappresenta il codone di inizio. I tre codoni di stop (UAA, UAG, UGA) non sono riconosciuti da alcun tipo di tRNA, ma da fattori di terminazione, ovvero delle proteine che promuovono il rilascio della catena peptidica completa. RNA ribosomiale e ribosomi L’rRNA ha questo nome perché è il costituente dei ribosomi, organuli di natura ribonucleoproteica presenti in tutte le cellule e adibiti alla sintesi delle proteine. Ciascun ribosoma è formato da due subunità disuguali, una subunità maggiore, contenente due o tre molecole di rRNA, e una subunità minore, contenente una molecola di rRNA. Le due subunità differiscono per il coefficiente di sedimentazione. Nei procarioti i ribosomi hanno coefficiente di sedimentazione di 70S (subunità maggiore 50S, subunità minore 30S). Negli eucarioti i ribosomi hanno coefficiente di sedimentazione di 80S (subunità maggiore 60S, subunità minore 40S). I ribosomi degli eucarioti si possono trovare liberi nel citoplasma o adesi alla faccia citoplasmatica delle membrane del reticolo endoplasmatico, che, proprio per la presenza dei ribosomi, viene definito rugoso. Hanno una forma ellissoidale con al centro un canale dove passa l’mRNA per il processo di traduzione. Le due subunità del ribosoma sono associate tra loro solo nel momento della traduzione e, la loro unione è segnalata da un aumento della concentrazione di Mg 1-nanomolecolare, altrimenti si trovano staccate nel citoplasma. Ogni subunità, nel processo di traduzione ha un compito specifico: la subunità minore lega l’mRNA e su essa avviene il processo di riconoscimento codone-anticodone; la subunità maggiore interagisce con le estremità CCA del tRNA e catalizza, mediante la peptidiltransferasi, la formazione del legame peptidico tra a.a. Nella subunità maggiore sono presenti due diversi siti funzionali, un sito A o amminoacidico su cui si va a posizionare l’RNA transfer con l’a.a corrispondente, e un sito P o peptidico su cui si localizza la catena polipeptidica in via di formazione. SINTESI PROTEICA La sintesi proteica richiede, in via preliminare, l’attivazione degli a.a a opera dell’aminoacil-tRNA sintetasi che lega gli a.a al rispettivo tRNA. La traduzione si articola in 3 fasi: 1. FASE DI INIZIO L’estremità 5’, dotata di cappuccio metilato, dell’mRNA lega la subunità minore 40S del ribosoma dopo la dissociazione del complesso ribosomico 80S grazie all’intervento del fattore di inizio IF1. Il ribosoma scorre lungo il cappuccio fin quando non incontra la tripletta di inizio AUG. Successivamente il complesso metionil-tRNA (eucarioti) o complesso formilmetionil-tRNA (procaroti), lega il codone di inizio che sintetizza, negli eucarioti la metionina, nei procarioti la formilmetionina (questo avviene grazie al legame alla subunità 40S dei fattori IF3 e IF4C, in presenza di IF2 + GTP per garantire una corretta posizione del tRNA facilitando il legame codone-anticodone catalizzata da IF1). Da qui, quindi, la subunità maggiore 60S si lega al complesso della subunità maggiore grazie alla mediazione del fattore IF5 che regola il corretto posizionamento di questa subunità maggiore in modo tale da far occupare il sito P dalla metionil-tRNA, mentre il sito A rimane libero; 2. FASE DI ALLUNGAMENTO A questo punto ha luogo il primo processo di allungamento della catena peptidica. Si verifica il legame di un nuovo aminoacil-tRNA al sito A promosso dal fattore di allungamento EF1 che richiede GTP. L’adattamento dell’aminoacil-tRNA è seguito dalla reazione peptidiltransferasica che porta al legame tra la metionina con l’a.a presente sul nuovo tRNA, producendo un dipeptidil-tRNA al sito A lasciando il tRNA deacilato al sito P. Il ribosoma si muove di un codone da 5’—>3’ lungo l’mRNA e man mano che il tRNA precedente si stacca quello successivo passa sul sito P e il sito A è libero per un nuovo aminoacil-tRNA. Questa reazione è seguita dal processo di traslocazione che comporta il rilascio del tRNA deacilato dal sito P, lo spostamento del peptidil-tRNA dal sito A al sito P (grazie all’intervento del fattore EF2 o traslocasi + GTP) e l’avanzamento del ribosoma sull’mRNA che porta un nuovo codone nel sito A. Ciò porta all’inizio di un nuovo ciclo di allungamento che prosegue fino a quando il ribosoma non arriva fino a un codone di stop. 3. FASE DI TERMINE La sintesi termina allorché ciascun ribosoma incontra sull’estremità 3’ dell’mRNA uno dei codoni di terminazione (UAA – UGA – UAG) ai quali corrispondono non tRNA con a.a, ma dei fattori di rilascio che hanno il compito di staccare dal sito P la catena polipeptidica ormai completa con conseguente idrolisi del legame catena polipeptidica-tRNA. Il ribosoma che ha ultimato la biosintesi si divide nelle due subunità, tornando libere nel citoplasma per intraprendere eventualmente altri processi di biosintesi delle proteine. Le proteine neosintetizzate assumono spontaneamente la loro struttura secondaria e terziaria. 3. MICROSCOPIO E COLORAZIONI ISTOLOGICHE Le cellule e i tessuti. Si possono studiare dal punto di vista morfologico e biochimico e funzionale. L’analisi morfologica prende in esame l’organizzazione strutturale delle cellule, delle varie parti di esse e dei costituenti extracellulari; allo scopo si avvale dei microscopi, ovvero strumenti atti a ingrandire le immagini. La preparazione dell’oggetto deve essere il più possibile conservativa. L’analisi biochimica e funzionale ha lo scopo di studiare la natura chimica e le modalità di funzionamento delle cellule. La preparazione è pressoché distruttiva, in quanto teso a isolare molecole o strutture sovra molecolari. ANALISI MORFOLOGICA Per conoscere la morfologia delle cellule occorrono dei metodi di osservazione diretta rappresentati dai diversi tipi di microscopi. Essi si distinguono in due macrocategorie: microscopi ottici e microscopi elettronici. MICROSCOPIA OTTICA Per analizzare la struttura del microscopio ottico composto bisogna capire il percorso dei raggi luminosi e successivamente alla struttura e disposizione delle varie parti ottiche e meccaniche. PERCORSO OTTICO E RISOLUZIONE MICROSCOPIO OTTICO L’obbiettivo è posto a corta distanza focale e l’oggetto viene posto appena al di là del fuoco. Di esso si forma, nello spazio tra i due gruppi diottrici, verso l’osservatore, un’immagine reale ingrandita e capovolta, chiamata immagine intermedia (IR). Se l’oculare viene posto in modo che l’IR cada all’interno della sua distanza focale, si ottiene un’immagine virtuale ancora ingrandita e diritta, che può essere vista dall’occhio dell’osservatore. Il rapporto tra le dimensioni dell’immagine focale e quelle dell’oggetto esprime l’ingrandimento ottenuto. Conoscendo la distanza focale dei due sistemi di lenti si può calcolare l’ingrandimento totale. Aumentando l’ingrandimento ci si rende conto che, oltre un certo limite, non si distinguono particolari ulteriori, cioè non cresce il potere d risoluzione. Non si possono distinguere come separati due punti che distano tra loro meno di 0,2 µm. Il limite di risoluzione R (Dove λ è la lunghezza d’onda della luce, n è l’indice di rifrazione del mezzo interposto tra oggetto e lente e α il semiangolo di apertura delle lente obbiettivo). Il prodotto n·sinα viene detto apertura numerica. Essendo che, di norma, n e il sin sono variabili trascurabili (in quanto entrambe prossime a 1), R risulta proporzionale a 1/2 λ. Si deduce quindi che per aumentare la risoluzione di un microscopio ottico si deve agire in modo tale da aumentare il valore dell’indice di rifrazione del mezzo frapposto (inserendo, per esempio, una goccia d’olio e, in questo caso si parla di osservazione microscopica a immersione). STRUTTURA DEL MICROSCOPIO OTTICO COMPOSTO Il tubo portaottica sorregge una coppia di oculari dal lato dell’osservatore e gli obbiettivi dal lato del tavolino porta oggetti. Gli obbiettivi sono montati su una torretta girevole denominata revolver che consente la loro rapida e comoda sostituzione. Tubo e tavolino sono montati su un braccio ricurvo e il tutto su un basamento. Braccio e basamento vanno sotto il nome generico di stativo. Per la messa a fuoco vengono utilizzati dei dispositivi meccanici di spostamento, che muovono il tavolino o verso l’alto o verso il basso, di grandi spostamenti (vite macrometrica) e uno per la messa a fuoco fine (vite micrometrica). Sotto il tavolino, che presenta un foro al centro per il passaggio della luce, è posto un dispositivo di illuminazione e dal condensatore di Abbe. La sorgente di illuminazione è oggi data da lampade a incandescenza o alogene. Il condensatore di Abbe è una lente convergente che concentra la luce su una zona limitata del preparato da cui poi fuoriesce un cono luminoso il cui diametro coincide con quello della lente frontale. Tramite una cremagliera, il condensatore viene alzato o abbassato variando la convergenza dei raggi luminosi, regolando quindi la quantità di luce che raggiunge la lente. Su ogni obbiettivo e su ogni oculare sono riportati valori che indicano l’ingrandimento proprio di quegli specifici dispositivi ottici. DIVERSI TIPI DI MICROSCOPI OTTICI La maggior parte dei componenti cellulari è quasi uniformemente trasparente alla luce della regione visibile dello spettro. Nel normale microscopio ottico composto i preparati possono essere visualizzati attraverso una precedente colorazione differenziale, in quanto l’alta quantità di acqua nei componenti cellulari rende le strutture omogeneamente trasparenti. Per questo sono stati costruiti microscopi speciali: microscopi a contrasto di fase, a luce polarizzata e a interferenza. Microscopio a contrasto di fase L’occhio apprezza le differenze di lunghezze d’onda (colore) e di intensità della luce (ampiezza), tuttavia non riesce a percepire le variazioni di fase. Questo microscopio sfrutta al massimo le differenze nell’indice di rifrazione dei vari elementi cellulari (si basa sul principio di interferenza), rendendole visibili e consentendo l’osservazione di cellule viventi non colorate. Attraverso un diaframma di fase all’interno del condensatore di Abbe, arriva un fascio di luce a cono al centro. Usciti dal preparato, si osservano due raggi: uno trasmesso (giallo) e l’altro diffratto (tratteggiato) deviato rispetto al trasmesso e sfasato di un valore che dipende dalla densità del mezzo. L’ulteriore cambio di fase di dovuto alla porzione di luce che attraversa il campione si ricombina con la luce non rifratta e rende visibili componenti trasparenti, andando ad evitare l’uso di fissativi e coloranti. Se è uguale a si avrà il fuori fuoco, se è uguale a I raggi trasmessi passano attraverso il solco della lamina di fase mentre i raggi diffratti passano nel pieno spessore della lamina, subendo un ulteriore ritardo di λ/4. Se ponendo un diaframma di fase ad anello nel condensatore, la luce diretta formerà un’immagine nel piano suddetto e se si piazza una lamina di fase (secondo diaframma) in modo da portare il valore finale vicino a λ/4 si avrà un’interferenza construttiva, quindi l’ampiezza della luce aumenta e si avrà un’immagine più brillante. Se invece l’interferenza si avvicina a λ/2, si avrà un’interferenza distruttiva e, di conseguenza, l’immagine apparirà scura e irriconoscibile. Microscopio a luce polarizzata La comune luce consiste in un fascio di raggi che hanno una direzione comune di propagazione, ma vibrano in differenti piani. Questo tipo di microscopia utilizza la luce polarizzata, cioè una luce che vibra su un solo piano. Un oggetto sul cammino di questa luce può essere isotropo, se non trasmette la luce con la stessa velocità in tutte le direzioni in quanto presenta indici di rifrazione diversi. Microscopio interferenziale di Nomarski Questo tipo di microscopio utilizza la luce polarizzata che, attraverso un particolare prisma di Wollaston, viene scissa in due raggi divergenti tra loro di una piccola distanza. In questo modo un raggio colpisce un certo punto dell’oggetto e l’altro un altro punto immediatamente vicino ma compreso all’interno della risoluzione di quell’obiettivo. Tra i due raggi si viene a creare una certa sfasatura e, tramite un secondo prisma i due raggi vengono fatti interferire e l’immagine che si ottiene è simile a quella del contrasto di fase con in più un evidente effetto tridimensionale. Stereomicroscopio Utilizza due percorsi ottici separati, diversamente allineati con 2 obiettivi e due oculari per fornire immagini leggermente diverse agli occhi destro e sinistro. In questo modo produce una visione stereoscopica, ovvero tridimensionale del preparato. Ha una risoluzione abbastanza elevata. Viene usato di sovente per studiare le superfici di un campione solido o per eseguire dissezione, determinazione di macro-invertebrati, microchirurgia, ecc. Microscopio a fluorescenza Con questo microscopio il preparato viene illuminato con luce ultravioletta a una determinata lunghezza d’onda e i suoi componenti vengono esaminati in base alla fluorescenza emessa. La fluorescenza è il fenomeno per cui determinate sostanze, dette fluorescenti, colpite da radiazioni UV emettono una luce di lunghezza d’onda maggiore (nel campo visibile); esse dipendono dal rilascio di energia dagli elettroni di una molecola che, eccitati dalla luce UV, passano da un determinato orbitale a uno superiore e, nel momento del ritorno ad un altro orbitale, rilasciano l’energia assorbita, sotto forma di luce fluorescente. Si possono avere due tipi di fluorescenza: quella naturale (primaria o auto fluorescenza) che viene prodotta da sostanze presenti nel tessuto stesso (esempi sono la vitamina A, le porfirine, le clorofille; oppure quella secondaria, che è indotta da uno speciale tipo di colorazione, detta fluorocromizzazione che utilizza dei coloranti specifici detti fluorocromi (arancio di acridina, rodamina e fluoresceina). Elementi nucleari della cellula laringea con DNA di colore giallo o verde. RNA in rosso o arancione Un tempo nei (ipofluorescenza) microscopi a fluorescenza, la lampada a vapori di Hg era messa sotto il condensatore, per cui la luce attraversava il preparato da sotto e lo eccitava. La luce UV, per impedire danni alla vista veniva poi fermata prima di arrivare all’oculare da appositi filtri di sbarramento, per cui all’occhio dell’osservatore arrivavano solo i raggi emessi per fluorescenza. Questo sistema veniva chiamato ipofluorescenza, esso era però poco sensibile per via dell’eccessivo assorbimento della luce e, inoltre, era pericoloso in quando poteva andare a danneggiare l’occhio dell’osservatore. Elementi del neurone con siti specifici dell'insulinaAttualmente in giallo (epifluorescenza). si preferisce utilizzare un sistema molto più sensibile, detto a epifluorescenza, nel quale il preparato viene eccitato dall’alto. Tale microscopio si avvale di una sorgente luminosa ad alata energia, una lampada a vapori di mercurio, di un filtro d’eccitazione (lascia passare la luce che corrisponde a quella che eccita il fluorocromo), un filtro di sbarramento (lascia passare la luce emessa dal fluorocromo) e uno specchio dicroico (riflette la luce pari o inferiore a quella di eccitazione e trasmette la luce superiore a quella di eccitazione). Non tutti gli obbiettivi sono idonei per essere utilizzati nelle osservazioni a fluorescenza; quelli più adatti sono detti obiettivi a fluorite. ALLESTIMENTO DEI CAMPIONI I due principali procedimenti di analisi morfologica sono l’osservazione diretta di cellule e di tessuti viventi o di cellule e tessuti uccisi, con procedimenti che ne conservano le immagini il più possibile simili a quelle degli elementi cellulari viventi, ovvero dopo fissazione. Metodi di studio di cellule e tessuti viventi Frammenti molto simili di organi o cellule isolate dall’organismo possono restare in vita per breve tempo ed essere osservate in sopravvivenza preferibilmente al microscopio a contrasto di fase. È possibile anche, attraverso delle tecniche particolari, colorare delle cellule viventi. METODI DI STUDIO DI CELLULE E TESSUTI UCCISI I metodi di osservazione di cellule e tessuti allo stato vitale, per quanto teoricamente preferibili in quanto permettono un’analisi più dinamica delle strutture cellulari senza il ricorso di fissazione e colorazioni, presentano delle limitazioni. Questi sono dovuti alla limitata sopravvivenza delle cellule e dei tessuti isolati dall’organismo. È pertanto necessario per il morfologo, fissare le cellule dei tessuti in modo da impedire le alterazioni post mortem (fissazione); è inoltre necessario rendere il campione trasparente alla radiazione utilizzata (luce o elettroni), mediante inclusione e sezionamento. Successivamente bisogna mettere in evidenza, tramite colorazione istologica, le differenze strutturali tra i diversi organuli. FISSAZIONE – La prima e importantissima tappa è la fissazione che si propone di preservare la struttura protoplasmatica dalle alterazioni conseguenti alla morte della cellula. Questo scopo viene raggiunto con un trattamento che va ad uccidere rapidamente la cellula, agendo soprattutto sui componenti proteici cellulari, in modo da impedirne l’autolisi (in questo i migliori fissativi sono quelli che precipitano le proteine nella forma più fine). Durante questo procedimento si va ad eliminare l’acqua contenuta nel preparato. Essa può essere eseguita tramite procedimenti chimici ma anche fisici. I più comuni fissativi chimici si dividono in due gruppi in base alla loro azione sulle proteine. Un gruppo sono i fissativi che coagulano le proteine (alcol etilico e metilico), l’altro gruppo sono i fissativi che non coagulanti le proteine (formalina, aldeidi e acido osmico). Nel caso della fissazione fisica si opera in genere per congelamento o per rapido riscaldamento. Le cellule che si ritrovano immerse in un mezzo liquido, come le cellule del sangue, si esaminano utilizzando la tecnica degli strisci. INCLUSIONE E SEZIONAMENTO – Nell’osservazione microscopica di grossi frammenti compatti di tessuto fissato, occorre tenere presente che il preparato dovrà essere attraversato dalla luce, pertanto esso deve essere tagliato in sezioni di spessore non superiore di 10µm. A questo scopo si utilizza lo strumento chiamato microtomo nel quale il materiale da sezionare vinee spinto progressivamente in avanti da un congegno capace di portarlo sotto una lama affilata che taglia fettine di un determinato spessore. Per ottenere sezioni sottili, bisogna dare al composto fissato una maggiore consistenza e ciò si fa andandolo ad includere in sostanze di natura diversa che successivamente induriscono (paraffina, celloidina). Volendo effettuare sezioni di un tessuto appena prelevato, senza fissarlo, si può congelare e poi eseguire le sezioni con dei particolari microtomi, o il microtomo congelatore (un normale microtomo in cui il preparato viene congelato da un getto di CO ) o il criostato (microtomo contenuto all’interno 2 di una cella frigorifera). COLORAZIONI ISTOLOGICHE – Una vera e proprio colorazione avviene quando il colorante si lega stabilmente ad alcune strutture cellulari che rimangono colorate anche dopo ripetuti lavaggi delle sezioni nel solvente in cui era sciolto il colorante. Si distinguono colorazioni dirette o sostantive, quando le sezioni prendono il colore direttamente dalla soluzione, e colorazioni indirette o per mordenzatura, quando il preparato viene sottoposto all’azione preliminare di sostanze preparatorie alla colorazione (mordenti). Le colorazioni possono essere semplici, quando si usa un solo colorante, e combinate, quando se ne usano due o più simultaneamente o in successione. I coloranti possono essere naturali o artificiali. In istologia di solito vengono utilizzate combinazioni di coloranti che hanno lo scopo di mettere in evidenza parti diverse della cellula presa in esame. La combinazione più utilizzata è l’ematossilina-eosina (colorazione dicromica) con la quale i nuclei assumono l’ematossilina essendo colorati in blu e tutto il resto si colora in rosa con l’eosina. I metodi tricromici (per esempio quelli di Mallory-Galgano-Azan), oltre al colorante nucleare (ematossilina o azocarminio), usano poi miscele contenenti diversi coloranti (arancio G, per il citoplasma, e blu di metilene, per le fibre collagene). I coloranti possono essere acidi (sul rosso), ovvero un cromoforo anionico e si lega ai tessuti caricati positivamente definiti acidofili (eosina e arancio G), oppure basici (sul blu-viola), quindi un cromoforo cationico che si lega ai tessuti caricati negativamente definiti basofili (blu di metilene o blu di toluidina). Andando ad usare, per esempio, la miscela di Romanowsky, contenente May- Grunwald (eosina e blu di metilene che colorano il citoplasma) e Giemsa (eosina e azzurro II che colorano il nucleo), preparata in alcol metilico, si possono studiare gli elementi corpuscolari del sangue (leucociti, eritrociti e piastrine) MICROSCOPIA ELETTRONICA Gran parte delle strutture subcellulari sfugge dall’analisi ottica in quanto la risoluzione del microscopio ottico è legata alla lunghezza d’onda della luce (risoluzione massima di 0,2 µm). Utilizzando, al posto della luce, un fascio di elettroni, ovvero una radiazione elettromagnetica, si è potuto oltrepassare quel limite di risoluzione. Su questo si basa l’utilizzo dei microscopi elettronici. MICROSCOPIO ELETTRONICO A TRASMISSIONE (TEM) I limiti imposti dalla lunghezza d’onda della luce possono essere superati solo utilizzando radiazioni a lunghezza d’onda minore. Un fascio di elettroni, attraversando un campo magnetico viene focalizzato secondo le stesse leggi dell’ottica convenzionale. Se un fascio di elettroni è accelerato ad alt velocità, alle particelle cariche negativamente in movimento è associata una radiazione la cui lunghezza d’onda è calcolabile in base alla formula (V è la differenza di potenziale). Su questa base fu costruito il primo microscopio elettronico dove la sorgente era un fascio di elettroni e le cui lenti erano date da elettromagneti. Con questi strumenti si può raggiungere una risoluzione massima minore di 0,1 nm, compresa nell’intervallo di 0,2 – 0,4 nm. Innanzitutto, si crea il vuoto all’interno del cannone del microscopio, in quanto non deve esserci attrito che interferisce con la corsa elettronica. Dopodiché si accende la sorgente, ovvero un filamento di tungsteno (catodo), portato fino all’incandescenza. Durante il tragitto gli elettroni vengono facilitati nel movimento attraverso dei campi magnetici. Gli elettroni, per essere usati come mezzo di analisi di un preparato, sono sottoposti, appena lasciato il filamento metallico, a una forte differenza di potenziale e accelerati lungo la colonna. Gli elettroni attraversano il campione e vengono in parte assorbiti, in parte deviati e in parte trasmessi continuando il loro percorso. In particolare, quest’ultimi contribuiscono a formare un’immagine su uno schermo fluorescente, ovvero uno schermo che converte la radiazione elettromagnetica, in radiazione fotonica, quindi visibile, oppure possono essere osservati su un monitor o, ancora, impressionato su una lastra fotografica. Le lenti sono di tipo elettromagnetico, ovvero costituite da un solenoide che crea un campo le cui linee di forza fanno convergere gli elettroni in un punto, detto fuoco. ALLESTIMENTO DEI CAMPIONI Essendo gli elettroni forniti di scarso potere di penetrazione e, inoltre, essi si propagano solo nel vuoto, è necessario che il materiale da esaminare sia fissato, disidratato e ridotto in fette estremamente sottili. FISSAZIONE – I fissativi più adoperati sono il tetrossido di osmio e la glutaraldeide. In particolare, l’acido osmico agisce anche da colorante sia a causa del suo elevato numero atomico, quindi i costituenti a cui esso si lega diventano più o meno opachi, sia perché si lega come osmio ridotto alle lipoproteine e ad altri costituenti della cellula. DISIDRATAZIONE – Dopo la fissazione, il tessuto viene sottoposto a disidratazione in concentrazione crescenti di alcol etilico e acetone. INCLUSIONE E SEZIONAMENTO – Per ottenere sezioni molto sottili si fa ricorso a mezzi di inclusione come l’utilizzo dei monomeri acrilici o resine epossidiche che impregnano il tessuto e poi fatte polimerizzare. Per ottenere sezioni dello spessore di 50-80 nm si utilizzano gli ultramicrotomi che utilizzano lame di vetro o in diamante. Le sezioni così ottenute poi vengono distese su una pellicola estremamente sottile di collodio COLORAZIONE O CONTRASTO – Si fa uso dei cosiddetti coloranti elettronici, ovvero sali di atomi pesanti come l’acetato di uranile e il citrato di piombo. Una tecnica molto impiegata per lo studio dei virus in elettronica è la colorazione negativa in cui il campione viene impregnato con una soluzione di sali di metalli pesanti che penetrano negli spazi vuoti delle macromolecole, questi spazi appariranno colorati (neri) e le macromolecole appariranno incolori (bianche) MICROSCOPIO ELETTRONICO A SCANSIONE (SEM) È utilizzato per lo studio topografico della superficie delle strutture biologiche. Nel microscopio elettronico a scansione, la superficie del campione è in genere rivestita con appositi apparecchi da un sottile strato di metalli pesanti per consentirne l’osservazione. Il campione viene inserito all’interno di un’apposita camera del microscopio e viene attraversato da un fascio molto sottile di elettroni, detti elettroni primari che, deflessi da un particolare dispositivo, formano una sorta di pennello che esplora per punti successivi la superficie dell’oggetto. Gli elettroni primari vanno ad eccitare la superficie del campione che emette raggi X ed elettroni secondari. Questi elettroni vengono raccolti da un rilevatore posto vicino al campione. La componente essenziale del rilevatore è uno scintillatore, che emette fotoni che, in sincronismo con il fascio di elettroni primario, operano la scansione sullo schermo del monitor. L’immagine che si riproduce sullo schermo riproduce con effetto tridimensionale la superficie analizzata, rivelandone tutti i particolari con una risoluzione di 20 nm. Il microscopio elettronico a scansione viene utilizzato anche per effettuare la microanalisi dei metalli presenti nel campione: siccome con l’eccitazione del campione, si ha anche un’emissione di raggi X, una specifica microsonda raccoglie i raggi X emessi e ne analizza lo spettro che, essendo caratteristico per ogni elemento, ne consente l’individuazione. ANALISI BIOCHIMICA E FUNZIONALE CITOCHIMICA E ISTOCHIMICA La citochimica utilizza tecniche atte a localizzare, al microscopio ottico o elettronico, la presenza di determinate sostanze all’interno della cellula. Questo tipo di analisi viene chiamata istochimica se si vuole localizzare sostanze specifiche all’interno dei componenti extracellulari dei tessuti. Si tratta di analisi chimica in situ. METODI DI COLORAZIONE In istochimica i metodi di colorazione sfruttano le proprietà di determinati reagenti di formare, con alcune specifiche sostanze presenti nelle cellule e nei tessuti, prodotti di reazione colorati e ben visibili al microscopio. I metodi istochimici si basano su due presupposti: la reazione deve essere specifica per la sostanza chimica che si vuole identificare; la sostanza chimica e il prodotto di reazione tra essa e il reagente impiegato non venga allontanato dalla sua posizione originaria. LIPIDI L’identificazione dei lipidi viene effettuata per mezzo di alcuni coloranti specifici (Sudan nero B, Sudan III, solfato di blu Nilo) liposolubili. Poiché i lipidi si sciolgono totalmente nei solventi, dopo fissazione il pezzo viene tagliato direttamente al criostato e le sezioni sono trattate con uno dei coloranti sopracitati. POLISACCARIDI Il metodo più classico per evidenziare i polisaccaridi è la reazione PAS (acido periodico di Schiff). Essa viene comunemente impiegata per evidenziare i polisaccaridi neutri, il glicogeno, l’amido, la cellulosa, le mucine e le glicoproteine. In questa reazione si usa il reattivo di Schiff, dato da fucsina basica (rossa) ridotta e decolorata con acido solforoso. Tramite una preventiva ossidazione con acido periodico, i gruppi glicolici, ove presenti, vengono trasformati in gruppi aldeidici che interagiscono con la fucsina ridotta (incolore), riossidandola e riportandola ad un’intensa colorazione rossa. poiché questa reazione è positiva (PAS +), per aumentarne la specificità si può ricorrere all’impiego di test di controllo con enzimi. I GAG si colorano elettivamente con il colorante Alcian blu; inoltre, per l’elevato contenuto di gruppi acidi, sono intensamente basofili e metacromatici. Alcuni coloranti basici del gruppo della tiazina (blu di toluidina, azzurro A e tionina) colorano certi componenti tissutali con una tinta diversa dalla propria. Questa proprietà è detta metacromasia e si verifica in sostanze ad alto peso molecolare. PROTEINE L’attività di molti enzimi può essere dimostrata su una sezione microscopica con metodi istochimici. Poiché la maggior parte dei fissanti agisce in modo da inibire le funzioni enzimatiche, il materiale deve essere preparato in maniera particolare. In molti casi occorre utilizzare sezioni non fissate e ottenute al criostato. In generale i metodi istochimici per gli enzimi si basano sull’incubazione di sezioni in presenza di un opportuno substrato specifico per l’enzima. il substrato viene attaccato dall’enzima, con la formazione di un prodotto di reazione insolubile che è già stato colorato o che può essere reso visibile al microscopio attraverso dei procedimenti successivi. ACIDI NUCLEICI Gli acidi nucleici, per la loro presenza di numerosi radicali fosforici, presentano una spiccata affinità ai coloranti basici. Per il DNA nello specifico ci vuole la reazione di Fulgen. Le sezioni di tessuto fissato sono dapprima sottoposte a idrolisi acida blanda con HCl. L’idrolisi è sufficiente ad allontanare l’RNA ma non il DNA, dal quale però vengono allontanate le purine a livello del legame glucosidico, liberando i gruppi aldeidici del desossiribosio che reagiscono con il reattivo di Schiff. Così le zone contenenti DNA appaiono in rosso, mentre il nucleolo e il citoplasma rimangono incolori. L’intensità di questa colorazione dipende dalla quantità di DNA presente IMMUNOISTOCHIMICA Alcune tecniche consentono la localizzazione citochimica di diverse sostanze ai microscopi sia ottico sia a fluorescenza sia elettronico. Con queste tecniche si riesce ad individuare una molecola ben precisa. Ognuna di queste sostanze funge da antigene, per ciascuno dei quali è possibile ottenere i relativi anticorpi. Gli anticorpi specifici, ottenuti immunizzando un animale contro un antigene di cui si vuole studiare la localizzazione, vengono coniugati con una sostanza fluorescente (fluoresceina o rodamina) o con una molecola opaca agli elettroni (ferritina). Le sezioni di tessuto sono poi esposte all’anticorpo che si legherà solo nei siti in cui è presente l’antigene. Se l’anticorpo era stato marcato con un fluorocromo si creerà un complesso antigene-anticorpo visibile al microscopio a fluorescenza; se viene marcato con la ferritina sarà visibile al microscopio elettronico. Cellule secernenti dell'adenoipofisi Quando si fa legare direttamente l’anticorpo marcato all’antigene si parla di metodo diretto, che però è poco sensibile. Nel cosiddetto metodo indiretto, usato più comunemente, l’antigene viene fatto prima reagire con un anticorpo non marcato (anticorpo primario); successivamente, una volta che si è formato il complesso antigene-anticorpo, si fa reagire con un altro anticorpo, questa volta marcato, contro l’anticorpo primario (anticorpo secondario). È possibile far legare più copie di anticorpi secondari a quello primario per creare un segnale ancora più evidente; inoltre, un altro vantaggio è che, con questo metodo, si esclude che la specificità dell’anticorpo primario venga modificata dai procedimenti chimici impiegati per la marcatura. 4. MEMBRANA PLASMATICA Ogni cellula eucariotica è un universo autodefinito da una struttura chiusa periferica, la membrana che è una struttura dinamica: vescicolazioni dirette verso l’esterno o verso l’interno ne modificano frequentemente la conformazione. Ogni cellula eredita dalla sua cellula madre la membrana costituita da lipidi, proteine e glucidi. ORGANIZZAZIONE STRUTTURALE: I LIPIDI La parte strutturale della membrana si deve alle caratteristiche fisico-chimiche dei lipidi che ne costituiscono l’asse centrale. I lipidi più abbondanti sono i fosfolipidi, costituiti da due lunghe catene aciliche legate a due gruppi idrossilici del glicerolo che, a sua volta, ha il terzo gruppo idrossilico legato a un fosfato. Le catene di acidi grassi legati al glicerolo possono essere legate tramite legami semplici (saturi) o legami doppi (insaturi). Le code aciliche sono apolari e, quindi, sono escluse da ogni interazione con l’acqua, mentre il fosfato e le molecole ad essi legati sono polari e, quindi idrofiliche (per questo i fosfolipidi sono molecole anfipatiche). La seconda importante classe di lipidi di membrana è rappresentata dagli sfingolipidi. Questi derivano dalla sfingosina al cui gruppo aminico è legata un’altra catena idrocarburica. La sfingomielina è il più abbondante degli sfingolipidi. Nel caso in cui la sfingosina è legata ad un gruppo idrofilico, un carboidrato, si ottengono i glicolipidi. Il colesterolo e i lipidi da esso derivati costituiscono la terza classe di lipidi caratteristici di membrana. I lipidi sono organizzati in doppio strato. Date le caratteristiche chimico-fisiche le catene aciliche dei lipidi di ambedue gli strati, escluse da ogni interazione con l’acqua interagiranno fra loro e le teste idrofiliche saranno esposte verso la soluzione acquosa esterna e interna della cellula. Questo va ad identificare nella membrana due facce o foglietti, uno rivolto verso l’interno della cellula, il foglietto citoplasmatico o interno, e uno rivolto verso l’esterno, il foglietto esoplasmatico o esterno. ORGANIZZAZIONE FUNZIONALE: LE PROTEINE Le proteine sono differentemente localizzate rispetto alla struttura portante lipidica. Alcune si immergono più o meno nello strato idrofobico del doppio strato fosfolipidico, altre poggiano solamente sulle teste polare dei fosfolipidi. Questa differente localizzazione distingue proteine integrali o intrinseche le prime, e proteine periferiche o estrinseche le seconde. Fra le proteine integrali, alcune, le cosiddette proteine transmembrana attraversano una o più volte il doppio strato lipidico della membrana. Esiste una terza categorie, le proteine ancorate alla membrana mediante lipidi. Queste non attraversano la membrana, ma vanno ad interagire con la sua componente lipidica. La membrana è collegata col mondo extracitoplasmatico e al mondo interno citoplasmatico anche strutturalmente. Infatti, le proteine periferiche, presenti sulla superficie esterna della membrana interagiscono con le proteine costitutive della matrice extracellulare. CARATTERISTICHE DELLA MEMBRANA Secondo il modello a mosaico fluido di Singer e Nicolson, la membrana è discontinua, fluida e asimmetrica. DISCONTINUITÀ La Membrana è discontinua perché le proteine integrali interrompono la struttura lipidica. FLUIDITÀ La membrana è fluida perché si comporta come un fluido, dato che i lipidi possono, per movimento termico diffondere lateralmente all’interno del proprio strato. Ruolo importantissimo lo ha il colesterolo che non forma strutture continue, ma si inserisce tra i fosfolipidi, non ha varie forme cristalline: restringe la mobilità sia delle teste idrofiliche sia delle code idrofobiche, diminuendo di conseguenza la mobilità del foglietto lipidico, se in concentrazione elevata, quando la concentrazione di colesterolo nella membrana è bassa, l’anello steroideo disperde le code idrofobiche facendo aumentare il grado di fluidità. Il colesterolo, inoltre, aumenta lo spessore della membrana di circa 0,5 nm. ASIMMETRIA La terza caratteristica della membrana è la sua asimettria, dovuta alla distribuzione asimettrica dei lipidi e delle proteine su di essa. L’asimmetria di alcuni lipidi nelle due facce è correlata a specifiche funzioni cellulari. Per esempio, il fosfatidilinositolo nella faccia citoplasmatica è correlato al meccanismo della risposta cellulare a stimoli esterni. La fosfoetanolamina nella faccia interna è correlata alla curvatura della membrana. È noto, invece, il meccanismo che porta le proteine integrali a essere asimmetricamente localizzate nella membrana. Queste proteine vengono sintetizzate a livello dei ribosomi situati sul RER e traslocato all’interno di questo compartimento. Sequenze idrofobiche situate in differenti punti della sequenza peptidica per le diverse proteine, interagendo con la componente lipidica, trattengono poi le proteine con differente orientamento nella membrana del reticolo endoplasmatico. Dal RE la proteina, inserita in una vescicola, transita fino alla superficie della cellula dove, per fusione viene inserita con la parte che dava verso l’interno del RE rivolta, a questo punto, verso la faccia esoplasmatica della membrana. Per la stessa ragione, poiché la glicosilazione avviene all’interno del RE e dell’A. di Golgi e le proteine sono sempre portate alla membrana per vescicolazione, quando l’ultima vescicola si fonde con la membrana, la parte glicosilata di proteine e lipidi, diviene componente della faccia esterna della membrana. Molte delle proteine di membrana sono glicoproteine. Anche alcuni lipidi hanno, dalla parte extracitoplasmatica, catene carboidratiche che possono essere molto lunghe. Carboidrati di proteine e lipidi possono essere così abbondanti alla superficie di alcune cellule da dar luogo a uno spesso rivestimento esterno, chiamato glicocalice. DISTRIBUZIONE DI LIPIDI E PROTEINE Secondo il modello di Singer e Nicolson, fosfolipidi, sfingolipidi e proteine non hanno una distribuzione predefinita sulla membrana. Più tardi, invece, si è arrivati alla conclusione che esistano, nella parte esoplasmatica, delle regioni particolarmente ricche in sfingolipidi e colesterolo che si impacchettano strettamente andando a formare dei domini ordinati, chiamati zattere lipidiche. LEGGI E MECCANISMI DEL TRANSITO ATTRAVERSO LA MEMBRANA La membrana è definita selettivamente permeabile e questa caratteristica le permette di mantenere dinamicamente costante il suo ambiente interno. Questa selettività è assicurata dal fatto che il passaggio di quasi tutte le molecole e degli ioni è mediato da specifiche proteine di trasporto. DIFFUSIONE SEMPLICE E FACILITATA Soltanto gas come ossigeno e anidride carbonica e piccole molecole non cariche possono attraversare la membrana fosfolipidica: questo passaggio avviene secondo gradiente di concentrazione, secondo il quale, una sostanza passa da una zona a concentrazione maggiore, ad una con concentrazione minore. Questo tipo di passaggio avviene spontaneamente, senza l’impiego di energia. Il passaggio spontaneo di una molecola secondo gradiente di concentrazione, in cui non vi è uso di energia, viene definito diffusione semplice o passiva. Nessun’altra molecola né ione può attraversare la membrana con queste modalità a una velocità apprezzabile. Ad assistere il passaggio di tutte le molecole e gli ioni sono preposte delle proteine integrali di membrana con multipli passaggi attraverso il doppio strato lipidico che è possibile distinguere in due categorie: trasportatori e proteine canale. Il passaggio attraverso la membrana mediante questo tipo di trasportatori o proteine di canale, sempre secondo gradiente di concentrazione, viene definita diffusione facilitata. Un particolare tipo di diffusione facilitata è l’osmosi. L’acqua attraversa la membrana cellulare passando da una soluzione più diluita (ipotonica) a una soluzione più concentrata (ipertonica). Il passaggio può avvenire mediante diffusione sia semplice sia facilitata. Quella facilitata è mediata, in questo caso, da specifici canali, detti acquaporine. Normalmente l’ambiente extracellulare è isotonico con quello interno delle cellule. In queste condizioni l’acqua né entra nella cellula né esce. Il malfunzionamento del mantenimento di questo equilibrio può portare a morte cellulare (lisi della cellula che “scoppia” oppure la cellula muore disidratata) Trasportatori I trasportatori permettono il passaggio di molte molecole necessarie alla vita della cellula, come glucosio e aminoacidi. Il trasporto è specifico, poiché ogni molecola attraverso la membrana attraverso il suo specifico trasportatore. Quando il trasportatore media il passaggio di una sola molecola, si parla di uniporto e il trasporto della sostanza avviene soltanto quando è termodinamicamente favorito (secondo grado di concentrazione). Esistono però alcuni trasportatori che associano al trasporto di una molecola secondo gradiente, un’altra che è contro gradiente. Queste sono indicate come cotrasportatori e si distinguono in passaggi simporto (quando la molecola contro concentrazione va nello stesso verso di quella che va secondo gradiente), e passaggi antiporto (il passaggio avviene in senso contrario l’una dall’altra). Proteine canale Le proteine canale permettono il passaggio di acqua e di determinati ioni in condizioni termodinamicamente favorite e, quindi, secondo gradiente di concentrazione. Le proteine canale hanno, all’interno della sequenza peptidica, un dominio idrofilico nel quale si possono muovere velocemente molti ioni in singola fila. I canali possono essere aperti o chiusi. La loro apertura può avvenire dopo una precisa segnalazione come accade per i canali del sodio della membrana cellulare nervosa. Acquaporine Un discorso a parte si deve fare per le acquaporine, una classe di proteine integrali che servono per il passaggio selettivo dell’acqua. Le acquaporine, conosciute anche come canali acqua, sono formate da 4 sottounità proteiche, ognuna delle quali agisce come un canale. Le molecole passano secondo il gradiente di concentrazione in singola fila. Le acquaporine formano dei canali che hanno un ruolo importante nel controllo del contenuto d’acqua delle cellule (osmosi). L’architettura di ogni canale è tale da far passare molecole d’acqua in fila singola, mentre la forza elettrostatica del suo interno impedisce il trasporto di qualsiasi molecola caricata. Il malfunzionamento delle acquaporine può portare varie malattie, come il diabete insipido TRASPORTO ATTIVO Nella cellula esistono anche dei meccanismi per far passare molecole contro gradiente di concentrazione. Questo compito è affidato alle pompe. Il processo è termodinamicamente sfavorito e, quindi, è associato all’idrolisi di molecole di ATP che libera l’energia necessaria ad attuarlo. Le pompe sono proteine transmembrana con uno o più siti di legame per l’ATP dal lato del citoplasma. La scissione di ATP avviene soltanto nel momento del passaggio della sostanza. Pompe Le principali pompe sono le pompe calcio (trasportano calcio fuori dalla cellula o all’interno del reticolo endoplasmatico e, di conseguenza a mantenere bassa la concentrazione di calcio nel citoplasma); le pompe protoniche (servono a trasportare idrogenioni all’interno dei lisosomi per mantenere basso il loro pH); le pompe sodio- potassio (trasportano contemporaneamente tre ioni sodio fuori dalla cellula e due ioni potassio dentro la cellula, servono a mantenere costantemente differenziate le concentrazioni di questi due ioni fuori e dentro la cellula). 5. COMPARTIMENTAZIONE CELLULARE Ciò che caratterizza la cellula eucariotica dalla cellula procariotica è la presenza di differenti regioni, compartimenti e organuli ognuno specializzato per assolvere particolari funzioni. I compartimenti sono formarti da sistemi chiusi di endomembrane che definiscono spazi luminali con uno specifico ambiente sia ionico sia di pH. Tra i compartimenti abbiamo il reticolo endoplasmatico (RE), che è il più abbondante, l’Apparato di Golgi. Organuli chiusi sono i mitocondri o i cloroplasti (nella cellula vegetale). Vi sono poi sistemi di vescicole quali i lisosomi e i perossisomi. Tali vescicole partecipano ai processi di endocitosi ed esocitosi o via secretoria VIA SECRETORIA: SINTESI E MATURAZIONE DELLE PROTEINE DA ESPORTAZIONE Il RE e l’A. Golgi sono interconnessi. Questo perché le proteine che in maniera co-traduzionale terminano la loro sintesi nel RE non escono più dal sistema di compartimenti, ma raggiungono la loro finale destinazione sempre all’interno dei sistemi membranosi chiusi. La loro destinazione finale sarà l’esterno della cellula oppure rimanere nei compartimenti in cui transitano. RETICOLO ENDOPLASMATICO RUGOSO Il reticolo endoplasmatico (RE) è una rete tridimensionale di cisterne e tubuli che formano unao spazio interluminale continuo. Esso presenta 3 domini: un dominio rugoso, un dominio liscio e un dominio nucleare. Il dominio nucleare si deve all’associazione fra il reticolo e specifiche proteine come le lamìne che formano la lamina nucleare a sua volta associata alla cromatina. Il reticolo rugoso è formato da cisterne appiattite e viene denominato così per l’abbondante presenza di ribosomi sulla sua superficie. Il reticolo endoplasmatico liscio, non presenta ribosomi, è costituito da tubuli ed è abbondante nelle cellule epatiche (detossificazione di sostanze idrofobiche) e muscolari (rilascio di calcio). Il reticolo è una struttura dinamica in quanto può riarrangiare, accorciare o allungare i suoi tubuli. INDIRIZZAMENTO E SINTESI DELLE PROTEINE DA ESPORTAZIONE NEL R.E. Al RE le proteine arrivano con un meccanismo di indirizzamento di tipo co-traduzionale. Una volta entrate qui, le proteine poi si dirigeranno verso l’A. di Golgi e da qui poi verso la membrana o i lisosomi secondo un percorso secretorio. Il meccanismo di indirizzamento al RE prevede che, durante la traduzione, venga esposta una sequenza segnale che consta di circa 30 a.a con 6-12 a.a idrofobici centrali seguiti da a.a caricati negativamente. La sequenza segnale è, di solito, all’aminoterminale. Riconosce e lega la sequenza segnale una ribonucleoproteina denominata particella di riconoscimento della sequenza segnale (SRP), costituita da un’asse di RNA e 6 complessi proteici: P9, P14, P72, P68, P19 e P54. Quest’ultima è la responsabile dell’interazione tra SRP e il segnale. L’interazione SRP-segnale interrompe temporaneamente la sintesi proteica. Questa riprenderà grazie a una serie di eventi che portano il ribosoma coinvolto nella sintesi sulla membrana del RE. Il primo evento consiste nell’interazione di SRP con il suo recettore (SR). SRP e SR hanno due GTPasi che, al momento della loro interazione, si attivano e idrolizzano due molecole di GTP. L’energia rilasciata permette il distacco di SRP dalla sequenza segnale e il posizionamento del ribosoma su un traslocone. Poiché il traslocone ha un canale centrale, la ripresa della sintesi porterà la catena pepetidica a entrare nel lume del RE dove verrà rilasciata quando la sintesi termina. A questo punto la sequenza segnale può essere tagliata da una peptidasi e la proteina luminale è pronta per i successivi eventi di maturazione. Con le proteine di membrana interviene una sequenza idrofobica di 20-25 a.a denominata sequenza di ancoraggio. La sequenza fa sì che la sequenza peptidica non posso ulteriormente entrare nel lume del RE. Alla fine della sintesi, la sequenza del traslocone passa nella membrana dove rimane ancorata nel doppio strato fosfolipidico. Se la sequenza di arresto si trova al centro della proteina dopo che la parte aminoterminale è entrata in contatto con il lume del RE, il ribosoma si allontana dal reticolo e la parte successiva fino al carbossiterminale viene sintetizzata dalla parte citoplasmatica. Se, invece, la sequenza di ancoraggio si identifica con la sequenza segnale e questa è posta al centro della catena polipeptidica, il ribosoma si assocerà al RE solo dopo che è stata sintetizzata molta della parte aminoterminale. Solo la parte carbossiterminale entrerà nel lume del RE. MODIFICAZIONI CO- E POST-TRADUZIONALI DELLE PROTEINE NEL RE Dal momento in cui le proteine entrano nel lume del RE, complessi meccanismi ne accompagnano il ripiegamento, controllano la qualità dello stesso e assicurano il riciclaggio della proteina se il ripiegamento non risulta corretto. I fattori che intervengono in questi processi sono sia co-traduzionali che posto-traduzionali. Il primo è il taglio della sequenza segnale che può avvenire sia immediatamente sia in seguito al ripiegamento, in quanto la sequenza segnale potrebbe influenzare il ripiegamento della proteina. Il ripiegamento della proteina influenza ed è influenzato dalle modificazioni della proteina nel RE. Queste includono la formazione dei ponti disolfuro (reazione di ossidazione dei gruppi SH fra cisteine) e la glicosilazione. La glicosilazione consiste nel legame covalente di una catena oligosaccaridico alla proteina; l’idrofilicità della catena glucidica andrà ad influenzare fortemente il ripiegamento della proteina. Ma, oltre a essere coinvolte nel meccanismo del ripiegamento proteico, le catene oligosaccaridiche hanno anche la caratteristica di indirizzare le proteine a specifici fattori di ripiegamento, ovvero la calnexina e la calreticulina. Infatti, questi fattori, legandosi allo zucchero finale della catena oligosaccaridica, trattengono la proteina finché non correttamente ripiegata. Un’altra caratteristica importante del RE è che esso è un compartimento in cui si raccoglie calcio. L’entrata e l’uscita di questo ione, quindi, è fortemente regolata. L’entrata dipende dalle pompe calcio, l’uscita da recettori rianodici. L’alta concentrazione di calcio è certamente importante per il ripiegamento delle proteine, in quanto i fattori di ripiegamento hanno siti di affinità con questo ione. SINTESI DEL PRECURSORE DEI GLICANI N-LINKED E SUO LEGAME COVALENTE ALLE PROTEINE Il RE di tutte le cellule possiede il macchinario per la costruzione di un’oligosaccaride: costituito da 14 monosaccaridi, ovvero 2 N-acetilglucosamina, 9 mannosi e 3 glucosi. Le glicosiltranferasi costruiscono questa catena sul RE legando il primo carboidrato al pirofosfato di un lipide inserito più volte nella membrana del RE, il dolicolo. Dapprima vengono legate le due N-acetilglucosamine, poi cinque mannosi. A questo punto la catena neoformata viene portata all’interno del RE (movimento di flip flop). I successivi quattro mannosi e i tre glucosi vengono legati alla catena dopo averli portati all’interno del RE dopo flip flop, legati ognuno a un dolicolfosfato all’esterno del reticolo. La catena così formata può essere ora legata alla proteina di traslocazione in formazione. Condizione di questo legame è la presenza di una sequenza specifica, il glicone, ovvero un residuo di asparagina di una proteina in formazione. Quando tutti i parametri sono corretti affinché la glicosilazione possa avvenire, il complesso proteico OST transferisce il precursore sulla proteina staccando la catena dal fosfato del dolicolo e legando la catena al gruppo NH 2 dell’asparagina. Da qui la catena polisaccaridica precursore subisce delle modifiche: glucosidasi I e II rimuovono i due glucosi terminali, la mannosidasi I rimuove un mannosio. Tutti questi processi avvengono prima che la proteina venga inviata al Golgi. CONTROLLO DI QUALITÀ DELLE PROTEINE La presenza delle catene oligosaccaridiche permette il controllo del corretto ripiegamento della catena peptidica. Quando la catena precursore degli N-linked ha perso i due glucosi terminali, questa viene legata dalle chaperonine – calnexina e calreticulina – due proteine leganti carboidrati. Il legame serve per saggiare il ripiegamento della proteina. Se questo è corretto, la glucosidasi II rimuove l’ultimo glucosio e la proteina prosegue il suo percorso. Se il ripiegamento non è corretto, la proteina viene riconosciuta da una glucosiltransferasi che ha la funzione di sensore del ripiegamento andando ad aggiungere un nuovo glucosio alla catena che, quindi, porterà la proteina a rilegarsi con calnexina e calreticulina. Questo processo di deglucosilazione e riglucosilazione continua finché la proteina non avrà il corretto ripiegamento. RETICOLO ENDOPLASMATICO LISCIO Il reticolo endoplasmatico liscio o agranulare è normalmente scarso (vescicole di transizione). Prevale nelle cellule a secrezione endocrina steroidea: surrenali, gonadi (sintesi del colesterolo, il precursore degli ormoni steroidei). Nel fegato contribuisce alla detossificazione di composti organici ed è implicato nel metabolismo del glicogeno. Inoltre, è un importante deposito di ioni Ca (in particolare 2+ nei muscoli striati, dove prende il nome di reticolo sarcoplasmatico). Partecipa alla sintesi dei lipidi di membrana (fosfolipidi e glicerofosfolipidi) attraverso le acetiltransferasi che usano AcilCoA insieme agli enzimi glicerol-3-fosfato-O- aciltransferasi e acilglicerol-3-fosfato-O-aciltransferasi. APPARATO DI GOLGI Dal RE, proteine e lipidi vengono veicolate all’Apparato di Golgi. L’A. di Golgi è costituito da una serie di cisterne appiattite e impilate le une sulle altre. Il movimento delle molecole nelle cisterne ha una polarità: vanno dalle cisterne più vicine al RE, ovvero le cisterne cis, a quelle più vicine alla membrana plasmatica, le cisterne trans, passando per le cisterne intermedie o mediane. Sono presenti anche due regioni aggiuntive, denominate cis Golgi network, che si forma per fusione delle vescicole che vengono dal reticolo, e trans Golgi network, quella da cui partono le vescicole per i lisosomi o la membrana plasmatica. Il nome di Apparato di Golgi lo si deve allo scienziato che per primo ne osservò le caratteristiche, Camillo Golgi che, usando una particolare colorazione, l’impregnazione argentica lo descrisse come un organulo a forma reticolare. GLICOSILAZIONE NELL’APPARATO DI GOLGI Ognuna delle cisterne è costituita da un sistema membranoso chiuso e, in ognuno sono presenti particolari enzimi che permettono la sequenzialità maturativa delle proteine. In particolare: nelle cisterne cis, si trova la mannosidasi I; in quelle mediane, la mannosidasi II e la N-acetilglucosamintransferasi, mentre nelle cisterne trans, ci sono gli enzimi galattosiltransferasi e sialiltransferasi. Questo assicura che con passaggi sequenziali di rimozione e trasferimento di carboidrati, si arrivi a formare catene oligosaccaridiche di tipo complesso, catene ibride o catene ad alto mannosio. In particolare, avviene, dapprima, la rimozione di tre mannosi (mannosidasi I), poi quando ha solo 5 mannosi, viene trasferita una N-acetilglucosamina. Questo è il segnale perché la catena, giunta nelle mediane, subisca la rimozione di altri due mannosi e il successivo trasferimento di due N-acetilglicosamine sui mannosi liberi. Nelle cisterne trans alle tre N-acetilglucosamine verranno legati tre galattosi e a questi tre acidi sialici. Si viene a formare così una catena oligosaccaridica complessa. Se i mannosi non vengono rimossi o solo parzialmente si formerà una catena ad alto mannosio. Se, invece, N- acetilglucosamina viene legata a solo un mannosio, un ramo rimarrà con solo mannosi e un ramo subirà le trasformazioni, si crea, quindi, una catena oligosaccaridica di tipo ibrido. Il risultato cambia a seconda di come la proteina viene esposta ai vari enzimi ma, soprattutto, dipende dal ripiegamento con cui la proteina arriva alla cisterna. Nell’apparato di Golgi le proteine possono anche andare incontro a glicosilazione di tipo O che consiste in un legame covalente di carboidrati al gruppo idrossilico della serina o della prolina. In questo caso i carboidrati vengono legati direttamente alla proteina. La glicosilazione avviene nel lume delle cisterne. Questo perché, la membrana dell’Apparato di Golgi (dittiosomi) ha i trasportatori per carboidrati attivati e contiene gli enzimi coinvolti nella glicosilazione. Nelle cisterne di Golgi vengono sintetizzati i GAG. Legati covalentemente a proteine a proteine formano i proteoglicani. Proteine e lipidi provenienti dal RE arrivano all’apparato di Golgi veicolate da vescicole: le vescicole formano una cisterna irregolare denominata cis Golgi network. TRAFFICO VESCICOLARE La cellula eucariotica è sede di intenso traffico di vescicole, che hanno origine nel RE e si dirigono ai diversi organuli e alla membrana plasmatica. Altrettanto intenso è un traffico in direzione opposta. Dal momento che la vescicola può contenere al suo interno materiale che, al momento della fusione con la membrana viene riversato nel lume dell’organulo bersaglio. Nel caso in cui la vescicola origina dalla membrana plasmatica, materiale extracellulare si ritrova ad essere inglobato in una vescicola intracellulare. Questo fenomeno si chiama endocitosi. Nel caso contrario, quando una vescicola proveniente dall’interno della cellula si fonde con la membrana plasmatica, il suo contenuto viene espulso all’esterno. Questo meccanismo si chiama esocitosi. Un caso particolare di esocitosi è rappresentato dagli esosomi, una classe di vescicole bioattive che si formano con la fusione con la membrana plasmatica di corpi multivescicolari cellulari. Si definisce gemmazione la produzione di una vescicola che si distacca da una membrana. FORMAZIONE, SMISTAMENTO E FUSIONE DELLE VESCICOLE Gemmazione e distacco delle vescicole Si forma, inizialmente, una fossetta di invaginazione caratterizzata da un aspetto ispessito e spinoso del lato citoplasmatico della membrana, dovuto all’assemblaggio di un complesso rivestimento proteico, le cosiddette fossette rivestite. Il rivestimento proteico disegna strutture a canestro formate da una serie di poligoni regolari uniti in una rete a maglie. In seguito, le fossette divengono più profonde, mantenendo sempre il rivestimento geometrico regolare, fino a distaccarsi per formare vescicole rivestite con il rivestimento che crea una vera e propria gabbia poliedrica. Il rivestimento è costituito da 3 famiglie di proteine: clatrina, COP I e COP II. La clatrina riveste sia le vescicole che vanno dal trans Golgi network ai lisosomi sia quelle di endocitosi; COP II riveste le vescicole dal RE al Golgi; COP I riveste tutte quelle che riportano le vescicole dal trans Golgi verso le cisterne precedenti o verso il RE. La clatrina forma un esamero, costituito da tre catene pesanti e tre catene leggere unite a formare una struttura regolare simile a una svastica a tre braccia, o triskelion. Quest’ultimi si uniscono in una struttura convessa a forma di canestro, formando esagoni e pentagoni alternati. Il meccanismo che avvia la formazione del rivestimento di clatrina è innescato dal legame del recettore di membrana con la molecola da trasportare: il legame induce un cambio della conformazione tridimensionale che lo rende in grado di interagire con la clatrina grazie a proteine intermediare, le adaptine. Smistamento delle vescicole Dopo il distacco dalla membrana di origine, le vescicole neoformate devono essere smistate al corretto compartimento cellulare in base al loro contenuto. Il corretto smistamento è essenziale per la funzionalità della cellula e, in questo meccanismo, hanno un ruolo principale la famiglia di proteine dette SNARE. Dagli studi effettuati su questa famiglia proteica, sembra apparire che le SNARE, oltre a fornire specificità nell’indirizzamento, contribuiscono anche alla fusione della membrana della vescicola con quella del bersaglio. Esistono numerose e diverse SNARE, in serie di coppie complementari: SNARE della vescicola (vSNARE) e SNARE del bersaglio o target (tSNARE). Quindi, per esempio, una vescicola proveniente dall’A. di Golgi sarà caratterizzata da una vSNARE specifica e complementare alla tSNARE specifica; ogni tSNARE potrà legarsi soltanto alla vSNARE complementare. Quindi la vescicola passa per vari eventi collegati: 1. Il legame del recettore al carico avvia la formazione del rivestimento di clatrina e la formazione della vescicola; 2. Le caratteristiche del recettore e/o del carico determinano il collegamento alla vesciola di una specifica vSNARE; 3. Il rivestimento di clatrina si disassembla, lasciando la vescicola “nuda”, ma dotata della sua vSNARE;