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Università degli Studi di Torino

2024

Diodati Arianna

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biochemistry organic chemistry inorganic chemistry molecular biology

Summary

This document is a course outline for a "Chimica" course for the 2024-2025 academic year at the University of Turin. Information on course topics, modules (structural, metabolic, and organ biochemistry), recommended textbooks, assessment methods (two multiple-choice tests for the first two modules and open-ended questions for the third), and possible exam convalidation is detailed.

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2024-2025 Chimica Diodati Arianna LEZIONE 1 - 1/10/2024 PRESENTAZIONE GENERALE DEL CORSO Il corso è costituito complessivamente da tre moduli: biochimica strutturale, biochimica metabolica e biochimica d’organo. Biochimica strutturale sarà affrontata interamente dalla prof.s...

2024-2025 Chimica Diodati Arianna LEZIONE 1 - 1/10/2024 PRESENTAZIONE GENERALE DEL CORSO Il corso è costituito complessivamente da tre moduli: biochimica strutturale, biochimica metabolica e biochimica d’organo. Biochimica strutturale sarà affrontata interamente dalla prof.ssa Aldieri. Successivamente si proseguirà con il modulo di biochimica metabolica, la cui prima parte è assegnata alla prof.ssa Aldieri, mentre le successive lezioni saranno con la prof.ssa Riganti Chiara. Per quanto riguarda invece il terzo modulo, ovvero biochimica d’organo, le lezioni saranno presenziate sia dalla prof.ssa Riganti sia dal prof. Turrini Francesco. Per quanto riguarda l’adozione di libri di testo specifici la prof.ssa Aldieri consiglia il comunemente detto “bibbia dei biochimici” nonché il Nelson/Cox - I principi di Biochimica di Lehninger – Zanichelli, tuttavia può essere sostituito da: Siliprandi/ Tettamanti – Biochimica medica Piccin Meisenberg/Simmons – Principi di Biochimica Medica – Minerva Medica Il materiale didattico (slides) verrà caricato prima di ogni lezione su Campusnet nella sezione “materiale didattico”. Esame: per i primi due moduli il metodo di valutazione consisterà in due test a risposta multipla, mentre generalmente la preparazione riguardo al terzo modulo (ndr. Biochimica d’organo) verrà valutata tramite delle domande aperte. Per ogni modulo, previa superamento dell’esame scritto, lo studente dovrà sostenere il corrispondente esame orale, durante cui si approfondiscono con il/la docente eventuali criticità sorte nella prova precedente. Convalide: per chi proviene da altri corsi di laurea è possibile convalidare l’esame, ovvero registrare nel nuovo libretto accademico il voto ottenuto, senza dover risostenere quest’ultimo. Tale pratica è attuabile in particolare per biochimica strutturale e per biochimica metabolica perché il programma potrebbe essere simile a quello svolto nella facoltà di medicina. Per avere la convalida bisognerà contattare la segreteria didattica che invierà la domanda ad una commissione preposta alla valutazione e all’attuazione del riconoscimento. Chi avrà le convalidazioni dovrà comunicarlo in sede di esame. La convalida non vale però per la biochimica d’organo a meno che non si provenga da un’altra sede di medicina. Indirizzo e-mail per chiarimenti/info: [email protected] 1 INTRODUZIONE Per spiegare la biochimica strutturale occorre iniziare da alcune propedeuticità, quali la chimica organica e la chimica inorganica, indispensabili per comprendere le strutture della biochimica strutturale stessa e per motivare il perché avvengano certe reazioni nell’ambito della biochimica metabolica. Per la chimica inorganica verrà ripreso il concetto di atomo, isotopi e tavola periodica; verrà compreso come si formano i legami chimici, come avviene la formazione delle molecole e come quest’ultime reagiscono fra loro e soprattutto nei vari ambienti, nonché il comportamento acido/basico, il Ph e tutti gli elementi utili ai sistemi tampone in ambito fisiologico. Per quanto riguarda la chimica organica verranno affrontate le classi di composti che costituiscono le molecole biologiche, come idrocarburi, alcoli, aldeidi, acidi carbossilici. Si parlerà anche della geometria delle molecole, in particolare dell’isomeria, altra componente importante di cui tener conto in relazione alla reattività fra molecole. La biochimica strutturale identifica classi di composti quali: carboidrati, lipidi, proteine, acidi nucleici ed enzimi. Corrisponde al capitolo finale del corso e funge da ponte per la biochimica metabolica. PERCHÉ SI STUDIA LA BIOCHIMICA? La biochimica definisce la cosiddetta dimensione molecolare, esplicando ciò che accade all’interno del corpo umano, in condizioni fisiologiche (Individuo sano e con molecole perfettamente funzionanti). Studia le basi molecolari della vita, ovvero tutto ciò che avviene negli organismi viventi, tanto che l’inibizione/interruzione di determinate reazioni stabilisce la netta differenza tra uno stato di salute e uno stato di malattia. Infatti le eccezionali caratteristiche degli organismi viventi derivano da migliaia di differenti biomolecole. Le basi della biochimica passano attraverso quello che è il principale componente delle molecole e cioè l’atomo (chimica inorganica). Occorre dunque studiare la tavola periodica degli elementi poiché l’osservazione del corpo umano, la ricerca sull’origine di una patologia e la messa a punto di nuove terapie farmacologiche necessitano di una profonda conoscenza delle sostanze di cui siamo fatti. Difatti vi sono elementi fondamentali per il corpo umano, come ad esempio l’ossigeno (che costituisce il 65% dell’organismo) , il carbonio (18%) (elemento fondamentale che definisce la chimica organica, appunto chiamata anche chimica del carbonio), l’idrogeno (10%) , l’azoto (3%), nonché altri elementi che pur trovandosi in piccole quantità risultano comunque fondamentali. Lo studio della biochimica mostra come tutte le molecole, di per sé prive di vita, che costituiscono gli organismi viventi, interagiscano tra loro per mantenere e perpetuare la vita utilizzando soltanto quelle leggi fisiche e chimiche che governano l’universo non vivente. Nella biochimica, infatti, vi è una stretta regolazione delle reazioni chimiche, pertanto, è indispensabile che queste avvengano in modo corretto, come il controllo della glicemia nel nostro corpo tramite attività ormonale. Tutta la biochimica in realtà è cellulare poiché è proprio all’interno delle cellule (piccole unità racchiuse da una membrana e piene di una soluzione acquosa concentrata di sostanze chimiche) che avvengono i principali processi metabolici: nella cellula animale, così come in quella vegetale, è presente una membrana cellulare che garantisce la separazione di diversi ambienti cellulari, tale compartimentazione consente la distinzione di diversi processi biochimici in differenti luoghi cellulari; ad esempio la glicolisi nel citosol o la respirazione cellulare nei mitocondri. 2 La costruzione della cellula è definita quindi da complessi sopramolecolari, la cui interazione permette il corretto stato di salute (più avanti si toccheranno patologie inerenti a ciò, quali l’Alzheimer). Definendo queste strutture sopramolecolari si fa riferimento a macromolecole destinate all’assemblaggio in complessi più avanzati, alcuni esempi sono: la cromatina ovvero l’avvolgimento di DNA costituito da nucleotidi; le proteine presenti nella cellula le quali si combinano con i fosfolipidi, originando la membrana plasmatica; i carboidrati che costituiscono la cellulosa. Il tema centrale della biochimica è l’energia, dal momento che l’essere umano necessita di quest’ultima per vivere, per compiere un lavoro, per respirare, per far battere il cuore senza fermarsi; pertanto, occorre avere dei sistemi che consentano di estrarre l’energia per l’anabolismo delle molecole. Ad esempio, l’energia chimica viene utilizzata dagli organismi eterotrofi (come l’uomo): si trova all’interno dei composti chimici, più specificatamente viene estratta dalla rottura di legami chimici interni ai composti e successivamente viene trasformata in elementi utili a garantire dei processi specifici. Fondamentalmente, quindi, è una sorta di energia potenziale (per ricavare interamente l’energia si ha bisogno di ossigeno). La fonte principale di energia utilizzata dall’uomo è contenuta negli alimenti: infatti tutti i composti organici sono prevalentemente fonte di carbonio (tutte le macromolecole sono costituite da una catena carboniosa) permettendo l’ottenimento di energia. Si parlerà di trasduzione energetica necessaria per produrre un lavoro che comprende diversi processi quali: lavoro meccanico (anche a livello della cellula stessa) gradienti osmotici ed elettrici produzione di calore trasferimento delle informazioni genetiche sintesi chimiche energia solare/luce (piante). L’energia può essere utilizzata o partendo da molecole semplici per dare origine a molecole complesse (anabolismo), oppure per produrre molecole semplici a partire da molecole complesse (catabolismo): quest’ultimo non è altro che un’ossidazione, ovvero il trasferimento di elettroni che devono arrivare all’accettore finale cioè l’ossigeno, permettendo la produzione di ATP. Il catabolismo porta alla produzione di molecole per l’appunto molto piccole e semplici, come ad esempio la CO2, in seguito alla respirazione cellulare, o ancora l’H2O, o l’NH3, grazie all’aiuto di alcuni precursori: ATP, NADH, FADH (precursori di vitamine). 3 ATP, NADH e FADH favoriscono l’anabolismo durante il quale, partendo da precursori semplici, vengono prodotte le macromolecole, quindi polisaccaridi, proteine ecc… Parte dell’energia viene dissipata sotto forma di calore (importante per il mantenimento della temperatura corporea): subentreranno così i concetti di entalpia ed entropia. In particolare quest’ultima (ndr. entropia) è alla base della trasduzione energetica ovvero l’aumento del disordine, giustificato dalle leggi della termodinamica. La molecola fondamentale delle vie metaboliche è l’ATP (adenosintrifosfato), contenente 3 legami con il fosfato, dalla rottura di questi legami fosfoanidridici deriva una quantità elevata di energia utilizzabile; Le vie metaboliche sono estremamente interconnesse tra di loro. Infatti l’obiettivo del catabolismo non è solo ottenere delle molecole molto semplici ma anche fare in modo che convergano in dei processi univoci strettamente precisi e raggruppati nel “metabolismo intermedio”. 4 CHIMICA INORGANICA Testi consigliati: Bellini - Chimica Medica e Propedeutica Biochimica – Zanichelli Stefani, Taddei – Chimica & Biochimica – Zanichelli Nelson/Cox – Introduzione alla biochimica di Lehninger - Zanichelli NB Probabilmente per chimica organica ed inorganica si farà un esonero (ipoteticamente a novembre) “Ma guardate l'idrogeno tacere nel mare, guardate l'ossigeno al suo fianco dormire, soltanto una legge che io riesco a capire ha voluto sposarli senza farli scoppiare...” Da: Il chimico in: «Non all'amore né al denaro nè al cielo» di Fabrizio De Andrè Questo passo fa capire a fondo come gli elementi chimici dall’avere di per sé una reattività specifica, possano, tramite un legame, divenire inerti. La chimica studia la materia (l’acqua, la composizione dell’atmosfera, l’azoto) e le trasformazioni che essa subisce e quindi la reattività chimica. Nel momento in cui si parlerà della biochimica in ambito metabolico dobbiamo anche tenere conto, in parte, dei fenomeni fisici, pertanto definiamo quelle che comunemente si chiamano: trasformazioni chimiche: il materiale di partenza è trasformato in un materiale diverso. Come la reazione del sodio (un metallo esplosivo a contatto con l'acqua) con il cloro (un gas corrosivo giallo-verde) per dare un sale, il cloruro di sodio trasformazioni fisiche: esse non cambiano il materiale di partenza, ma ne modificano lo stato fisico. Ne sono un esempio l'evaporazione dell'acqua o la fusione del ferro. La materia è tutto ciò che occupa uno spazio, tutto ciò che ha massa e volume. Essa esiste in tre fasi: solida, liquida e gassosa e si può distinguere in: Miscugli: omogenei ed eterogenei Sostanze pure: porzione o tipo di materia. Una sostanza pura è un tipo di materiale con proprietà che non possono essere modificate con un'ulteriore purificazione (elementi e composti). Se si considera un solo tipo di atomo questo definisce un vero e proprio elemento. Ognuno degli atomi ha un simbolo specifico che consiste di una o due lettere, derivanti dal nome antico o attuale dell'elemento (O, N, C, Al…). Il composto, invece, è una sostanza costituita da atomi di almeno due elementi diversi in rapporto definito e specifico (H2O, CH4). Man mano che gli elementi aumentano e si raggiunge l’eterogeneità si arriva alla vera definizione di composto e quindi alla netta differenza tra quest’ultimo e un elemento. La molecola è un raggruppamento di atomi: è la più piccola parte di un composto che ha le proprietà chimiche caratteristiche di quel composto. Pertanto è importante capire la natura degli atomi per stabilire come le varie molecole biologiche garantiscono il mantenimento della funzionalità delle attività dell’organismo. Una molecola può essere anche costituita da due o più atomi dello stesso elemento (𝐻2, 𝑂2...). Una miscela/miscuglio è un insieme di sostanze diverse in proporzioni variabili: Le 5 sostanze presenti mantengono la propria identità chimica e la miscela è separabile nei singoli componenti con mezzi fisici (centrifugazione, filtrazione, distillazione, cromatografia, ecc.). Ad esempio considerando il cloruro di sodio è possibile isolare gli elementi costituenti, il cloro (un non-metallo molto reattivo) ed il sodio (metallo altamente reattivo): Il sodio brucia in acqua in maniera esplosiva, mentre il cloro è un gas di colore giallo-verde capace di distruggere i tessuti viventi ed è tossico da inalare: è stato usato come arma chimica nella I guerra mondiale, viene usato per uccidere batteri nell'acqua di piscine e del rubinetto ed è un potente agente sbiancante. Il NaCl è notoriamente innocuo. Questo è l’esempio della stabilità che una molecola può raggiungere tramite l’incontro di due elementi non casuali e dimostra come sia forte la suddetta interazione che andrà a caratterizzare la struttura del solido cristallino, quale il sale da cucina. UNITÀ DI MISURA L’ATOMO L’atomo è la più piccola parte di un elemento di cui ne rispecchia le caratteristiche chimico- fisiche. A partire dalle scoperte del 1899 diversi studiosi, tra cui lo stesso Thomson, identificarono, cercando di studiare composti come l’acqua, che poteva esserci una dicotomia tra cariche positive e negative presenti in quei determinati composti. Bohr, nel 1913, identificò il sistema planetario in cui individuò il nucleo, maggiormente positivo, e una serie di elementi che chiamò appunto elettroni che viaggiano attorno al nucleo con delle orbite che sono dette quantizzate. Rutherford, nel 1911, pose le basi per l’orbita degli elettroni Schroedinger, nel 1925, descrisse l’elettrone come un’onda e definì la probabilità di occupazione della regione di spazio intorno al nucleo: l’orbitale. 6 L’atomo di Rutherford è il modello a cui si fa solitamente riferimento, in particolare si identifica un nucleo e gli elettroni che orbitano attorno senza collassare, considerando in tutto ciò distanze elevate dall’elettrone rispetto al nucleo; infatti, non tutti gli elettroni entrano in gioco nel formare i legami o nella reattività dell’elemento, ma sono soprattutto gli elettroni più esterni che influiscono su quest’ultima. L’atomo è costituito da 3 tipi di particelle diversamente cariche tra loro: neutroni e protoni (vengono anche indicati con il termine generale di nucleoni perché contenuti nel nucleo). I protoni hanno carica positiva, mentre i neutroni non sono provvisti di carica. elettroni, con carica negativa Le caratteristiche chimiche di un atomo sono definite dal numero di elettroni e protoni, dunque vengono definiti: Il numero di massa, che corrisponde alla somma di protoni e neutroni. Il numero atomico, che definisce il numero di protoni. NB L’idrogeno nello stato in cui è presente in natura, non contiene neutroni ma solamente un protone ed un elettrone, pertanto si dice che è un atomo non ionizzato (Z = n protoni = n elettroni) così come l’elio. ISOTOPI Quando si ha lo stesso numero atomico e differente numero di massa, si hanno gli ISOTOPI ( o NUCLIDI). Nel caso degli isotopi dell’idrogeno si ha: il prozio (idrogeno classico), il deuterio ed il trizio (che non è presente in natura e a differenza degli altri è molto radioattivo a causa dell’instabilità del suo nucleo). Anche il carbonio, che si presenta con numero atomico 6 e numero di massa 12, può variare il suo valore di massa (e dunque il numero di neutroni) creando degli isotopi come il carbonio 13 e il carbonio 14 (il più radioattivo, utilizzato in molti esperimenti, ad esempio per il conteggio dell’età degli alberi). Perché alcuni isotopi sono radioattivi? La radioattività, in realtà, non dipende solo dal fatto che ci sia un neutrone in più, ma anche dal fatto che questa variazione rende il nucleo instabile: il nucleo tende ad espellere queste parti in più per ritornare stabile, tale processo va sotto il nome di decadimento radioattivo. Becquerel, uno studioso polacco, studiò i raggi X sfruttando un minerale d’uranio: mise il minerale in un cassetto dove vi era una lastra fotografica coperta da carta, il giorno seguente prese la lastra e vide che era 7 impressionata su un punto e da lì capì che l’uranio aveva sviluppato qualcosa. Due anni dopo Marie Curie definì il concetto di emissione delle radiazioni con il termine di radioattività. Radioattività: emissione spontanea di particelle nucleari e/o radiazioni che si accompagna a un processo di disintegrazione nucleare (decadimento radioattivo). Nonostante il decadimento radioattivo sia veloce la durata può avvicinarsi anche a molti anni, facendo sì che ci sia un’espulsione di particelle, sotto forma di energia, ovvero calore. Rutherford mise il polonio in un blocco di piombo (uno degli elementi più forti, capace d’impedire che ci sia una trasmissione di radiazioni) permettendo così il passaggio e l’emissione di tali radiazioni in un campo elettrico, notando poi che si potevano distinguere particelle: alpha: cariche positivamente in quanto si muovevano verso il polo negativo. Corrispondono ad un nucleo di elio costituito da 2 protoni e 2 elettroni. beta: cariche negativamente in quanto si muovevano verso il polo positivo. Fondamentalmente sono degli elettroni. gamma: queste radiazioni non risentono del campo elettrico e che sono delle radiazioni elettromagnetiche corrispondenti all’emissione di fotoni. Sono neutre. Si può avere l’espulsione di protoni o neutroni, l’importante che questi elementi continuino a produrre radiazioni fino a che non si stabilizzano e ciò può accadere anche nel giro di anni. L’immagine evidenzia, a seconda del tipo di radiazione, la differente intensità. La radiazione alpha pur non essendo particolarmente penetrante è molto dannosa, la beta invece è moderatamente penetrante ed infine le radiazioni gamma sono le più penetranti, anche a causa della loro velocità (velocità della luce). Vi sono altre radiazioni come “ beta + “ o anche dette positroni (e+), molto sfruttate in medicina. Questa tipologia di isotipo è molto rara in natura ma creabili artificialmente. La peculiarità dei positroni risiede nella stabilità e nell’essere molto penetranti. Sull’esistenza degli isotopi si basa l’uso dei traccianti radioattivi in ambito medico e/o biologico. Si possono utilizzare composti marcati radioattivamente, appunto i “traccianti radioattivi”, per seguire il destino di singoli tipi di molecole, come il glucosio. Un esempio dell’utilizzo medico di composti radioattivi è la PET, ovvero la tomografia ad emissione di positroni. Si tratta di un esame diagnostico in grado di evidenziare il successo chemioterapico in pazienti oncologici valutando l’attività metabolica delle loro cellule. Occorre somministrare al paziente un farmaco contenente un elemento radioattivo, ad esempio il fluoro 18 (fluorodeossiglucosio). 8 Per comprendere bene il funzionamento della PET occorre conoscere i meccanismi base che contraddistinguono le cellule cancerose dalle cellule sane: le cellule cancerose consumano quantità eccessive di glucosio (ndr: modificano l’attività di GLUT-1 , ciò consente loro di crescere più delle cellule “normali”). Il fluorodeossiglucosio è un analogo radioattivo del glucosio, dunque le cellule lo metabolizzano in egual modo. Ecco perché la PET consente di visualizzare l’efficacia chemioterapica: nel referto sarà possibile, attraverso la diversa colorazione, distinguere le aree ancora colpite dal tumore dalle aree in cui la chemioterapia ha avuto maggiore efficacia. La colorazione caratteristica dell’esame diagnostico di cui si sta parlando è dovuta all’emissione di fotoni: quando il positrone contenuto nel farmaco somministrato (emesso tramite decadimento) si interfaccia con l’elettrone contenuto nella cellula umana genera appunto il fotone, la cui intensità varierà a seconda dell’attività metabolica. Dunque il referto avrà sfumature differenti in corrispondenza di aree metabolicamente più o meno attive. ( La prof.ssa ha solo accennato l’utilizzo degli isotopi a positroni in ambito medico: la rec risulta poco chiara e difficilmente comprensibile se trascritta, ragion per cui abbiamo direttamente approfondito tramite libro di testo l’argomento) Tecniche diagnostiche che utilizzano i traccianti radioattivi possono utilizzare diversi elementi, non per forza il fluoro, ad esempio sono utili anche azoto, carbonio ed ossigeno. Allo stesso modo non per forza questi esami vedono esclusivamente l’attività metabolica delle cellule cancerose, ma ad esempio possono essere utili per analizzare i flussi sanguigni in un dato organo o il metabolismo cerebrale, sempre al fine di distinguere meccanismi fisiologici da condizioni patologiche. Per quanto riguarda l’attività del cervello (che si nutre di glucosio) per l’analisi viene utilizzato un isotopo del carbonio. In passato fu scoperto, in associazione tra soggetto sano e soggetto schizofrenico, che il cervello di uno schizofrenico consuma solo il 20% di glucosio rispetto ad un soggetto normale. PS. Non è chiaro se il consumo del glucosio sia il 20% rispetto ad un soggetto normale (come scritto nelle slide), o il 20% in meno rispetto ad un soggetto normale (come detto a voce dal docente). EFFETTI DANNOSI DELLE RADIAZIONI Le radiazioni possono avere effetti molto dannosi sulla vita cellulare: possono danneggiare il DNA (mutazioni genetiche), le proteine (denaturazione, perdita di funzione), i lipidi (rottura delle membrane cellulari). L'esposizione prolungata a radiazioni emesse da sostanze radioattive può determinare quindi la comparsa di tumori e un precoce invecchiamento degli organi colpiti. Il meccanismo principale d'azione è l'estrazione di elettroni da molecole biologiche e la rottura di legami chimici, che può portare alla formazione di radicali liberi altamente reattivi. EFFETTI POSITIVI DELLE RADIAZIONI Le radiazioni però possono essere utilizzate nella terapia dei tumori (radioterapia): le cellule tumorali sono più sensibili di altre alle radiazioni stesse. Grazie alla radioterapia si evita il decorso della patologia interrompendo la proliferazione e l’attività metabolica delle cellule cancerose. Sostanze radioattive possono essere usate anche a scopo diagnostico come "traccianti“ per esaminare la funzione di un organo o il destino di una sostanza all'interno dell'organismo. 9 PREVENIRE I DANNI DA RADIAZIONI Per prevenire i danni da radiazioni occorre poterne misurare l'emissione e il grado di esposizione delle persone ad esse esposte. Per quanto si possa limitare l'esposizione a possibili fonti di radiazione, limitando all'indispensabile le radiografie e tecniche diagnostiche che utilizzano materiale radioattivo, nessun abitante della Terra è immune dall'esposizione a radiazioni. Lo stesso corpo umano emette deboli quantità di radiazioni, derivanti da isotopi radioattivi presenti nei tessuti (in gran parte K) e derivanti dal normale scambio di sostanze con l'ambiente. Diversi studi hanno dimostrato che esiste una diversa sensibilità da un tessuto all’altro, ad esempio il tessuto gastrointestinale e quello nervoso sono più resistenti alle radiazioni, se paragonati ad esempio al midollo osseo. L’entità degli effetti che le radiazioni hanno sull’organismo dipende dal grado di esposizione: 0-25 : nessun effetto osservabile 25-50: lieve diminuizione dei globuli bianchi (leucopenia) 50-100: leucopenia accentuata 100-200: nausea, vomito, perdita di capelli 200-500: emorragie, ulcere, possibile morte >500: morte 10 LEZIONE 2 - 2/10/2024 MODELLO “PLANETARIO” DELL’ATOMO DI RUTHERFORD E DI BOHR Nella lezione precedente abbiamo cominciato la parte che riguarda chimica inorganica, cercando di comprendere meglio il significato della struttura dell’atomo finalizzata alla formazione di legami. La teoria di Rutherford prevedeva che il nucleo, costituito da protoni e neutroni, in egual numero, fosse la parte centrale dell’atomo e che gli elettroni ruotassero intorno ad esso seguendo delle orbite. Rutherford aveva però dei limiti: ipotizzando il modello planetario, infatti, secondo i principi della fisica classica, l’elettrone, orbitando intorno al nucleo, avrebbe dovuto perdere progressivamente energia finendo per precipitare sul nucleo portando al collasso dell'atomo. Perché ciò non accade? A risolvere il dilemma fu Bohr. Infatti egli iniziò a definire la sua teoria sul modello atomico. Il modello dell’atomo di Bohr proponeva una rotazione dell’elettrone su orbite circolari intorno al nucleo, senza irradiare energia. Queste orbite, che sono -man mano- sempre più distanti dal nucleo, vengono definite livelli elettronici. Nell’immagine, infatti, possiamo vedere il nucleo rappresentato in centro da una carica positiva (+), dovuta ai protoni presenti, e si può notare che gli elettroni, in blu, possono occupare sia le orbite vicine al nucleo sia quelle più lontane. La distanza degli elettroni dal nucleo è ristretta a determinati valori, perciò possiamo definirla “distanza quantizzata”. Un elettrone che si trova più vicino al nucleo, ovvero allo stato fondamentale, è più stabile e per “promuoverlo” ad un livello superiore, ovvero lo stato eccitato, occorre somministrare una certa quantità di energia pari alla differenza di energia tra i due livelli. Questo concetto ci permette di comprendere meglio la reattività degli atomi, poiché sono gli elettroni più lontani dal nucleo che reagiscono. Riassumendo: A seconda della distanza dal nucleo, l’elettrone possiede un valore ben determinato di energia: quanto è più vicino al nucleo il livello in cui si muove, tanto è minore l’energia posseduta dall’elettrone. Ogni elettrone tende ad occupare il più basso livello energetico possibile, perché ciò corrisponde ad una maggiore stabilità. PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE DI HEISENBERG E IL PRINCIPIO DI ESCLUSIONE DI PAULI Nonostante si riuscì a definire il concetto di orbita quantizzata, Heisenberg, con il principio di indeterminazione, capì che non si poteva stabilire con precisione la posizione dell’elettrone nell’orbita e, contemporaneamente, la sua velocità. Il principio di indeterminazione di Heisenberg aprì la strada nella chimica non tanto al concetto di orbita, precedentemente definito da Bohr, ma al concetto di orbitale. Si può quindi ipotizzare una quantizzazione che definisce la posizione dell'elettrone e presuppone che l’elettrone sarà più stabile quanto più vicino al nucleo, in contrapposizione allo stato più eccitato dell’elettrone più lontano dal nucleo. Heisenberg in questo modo fornisce la definizione di orbitale come la rappresentazione grafica della probabilità di 11 trovare l’elettrone in un determinato luogo nello spazio tridimensionale. Questo nuovo sviluppo del concetto di elettrone situato in un orbitale permette poi di comprendere meglio la reattività diversa dei vari atomi, reattività che si può dedurre anche dalla tavola periodica degli elementi. Il concetto di orbitale fu ulteriormente ampliato da Schrodinger, il quale definì il modello di atomo moderno. Schrodinger notò come gli orbitali elettronici possano assumere forme diverse da quella sferica e diversi orientamenti nello spazio, pur mantenendo la definizione di orbitale di Heisenberg. Ciò contribuì all’identificazione anche grafica degli orbitali e dei loro comportamenti. (Queste illustrazioni servono a capire come funziona l’atomo e a capire come si rapportano tra loro gli orbitali stessi a formare una molecola. Tuttavia è un argomento di chimica inorganica che non abbiamo tempo di approfondire, ma è utile per capire la formazione di legami che vedremo successivamente) Orbitali s, rappresentati da una sfera di cui si possono avere diverse grandezze come mostrato in figura Orbitali p, definiti da una forma più allungata dovuta a una distribuzione della probabilità di trovare gli elettroni in un determinato punto diversa da quella degli orbitali s. Sono caratterizzati da 3 direzioni diverse. Orbitali d, ancora più complessi Le diverse forme degli orbitali giustificano anche la geometria delle molecole e la diversa reattività degli atomi. In aggiunta alla rivisitazione del moto degli elettroni in orbitali ci furono altri studi che consentirono di definire il numero massimo di elettroni presenti in un orbitale. Il principio di esclusione di Pauli definì il concetto fondamentale secondo cui un orbitale non può essere occupato da più di due elettroni. Riprendendo il concetto di livello energetico, visto nel modello di Bohr (nonostante presentasse orbite circolari) più l’orbita sarà vicina al nucleo più l’orbitale sarà piccolo. - primo livello: 1 orbitale = max 2 elettroni - secondo livello: 4 orbitali = max 8 elettroni - terzo livello: 9 orbitali =max 18 elettroni Maggiore sarà il numero di elettroni che ruotano attorno al nucleo maggiori saranno gli orbitali. 12 LA TAVOLA PERIODICA DEGLI ELEMENTI Prendendo in considerazione i concetti precedentemente esposti è stato possibile creare una classificazione degli elementi, organizzati nella tavola periodica degli elementi. Il primo che si cimentò nella classificazione degli elementi fu Mendeleev che propose un'organizzazione della tavola fondata principalmente sul peso degli atomi e del loro comportamento, differenziando anche quelli che sono cationi e anioni. Il concetto di orbitale, integrato anche al principio di esclusione di Pauli, permise poi la creazione della tavola periodica degli elementi così come viene utilizzata oggi. Dalla tavola periodica si può facilmente ricavare il numero di elettroni presenti in ciascun atomo e dei livelli elettronici che stabiliscono se gli elettroni sono presenti in un primo livello e un primo orbitale o a seguire riempiendo a mano mano gli orbitali successivi. Queste due informazioni si possono ricavare leggendo orizzontalmente o verticalmente la tavola periodica. Si possono distinguere quelli che sono i gruppi (verticali) e i periodi (orizzontali). I periodi si identificano con numeri come 1, 2, 3 etc fino ad un massimo di 7. I periodi indicano i livelli elettronici che l’elemento possiede, in particolare il cosiddetto strato di valenza. I gruppi invece si identificano con i numeri romani, saltando la zona centrale della tavola periodica, e sono 8. Il gruppo evidenzia il numero degli elettroni di valenza che fondamentalmente rappresenta la reattività di un dato elemento fino, per l’appunto, ad un massimo di 8. Gli elettroni presenti sullo strato di valenza sono quelli in grado di formare legami con altri atomi. Ad esempio l’idrogeno si trova nel gruppo 1 e nel periodo 1, avrà quindi 1 elettrone di valenza nel livello 1 che sarà in grado di legarsi; sempre nel periodo 1 si avrà poi l’elio che con 2 elettroni completerà l’unico orbitale presente sul primo livello e facendo parte dell’ottavo gruppo presenterà una conformazione elettronica che giustifica la sua non reattività con solo 2 elettroni. Prendendo invece il carbonio nel periodo 2 e nel gruppo 4 avrà 6 elettroni in totale di cui 2 riempiranno l’orbitale nel primo livello e 4 elettroni di valenza nel secondo livello che potranno formare legami. A seguire poi si troveranno l’azoto con 5 elettroni di valenza sul secondo livello e l’ossigeno con 6 elettroni di valenza sul secondo livello, il fluoro con 7 elettroni di valenza, fino al riempimento di tutti gli orbitali del secondo livello con il neon, gas nobile, verificando il principio di esclusione di Pauli. 13 In sostanza si possono identificare vari livelli e da lì capire che, se sul primo livello ci possono stare al massimo due elettroni, nel caso l'elemento presenti un maggior numero di elettroni si dovrà saltare al secondo livello, per avere poi diversi tipi di strati che giustificano per esempio la presenza del sodio (Na) nel primo gruppo. Si potrebbe inoltre notare la colorazione differente dei vari elementi, indicazione di comportamenti chimici diversi che verrà approfondita successivamente. Nella tavola periodica possiamo notare anche una classificazione fisica degli elementi liquidi, artificiali o sotto forma di gas, come ad esempio nel caso dell'ultima colonna della tavola detta dei gas nobili. Per identificare meglio i vari elementi a livello chimico e il loro comportamento spesso viene utilizzata una grafica molto semplificata che permette di vedere il riempimento degli orbitali secondo il principio di esclusione di Pauli e di conseguenza anche la disposizione degli elettroni nello strato di valenza (vd immagini). Alcune specie chimiche per caricare a uno stato stabile, con quindi tutti gli orbitali dell’ultimo livello completi, nelle reazioni chimiche tenderanno a strappare, cedere o condividere elettroni, creando quindi anche specie chimiche cariche come il catione H+ (protone), che quindi perde un elettrone, o lo ione H- che acquista un elettrone assumendo la conformazione elettronica dell’elio (He). STRATO O GUSCIO DI VALENZA Lo strato (o guscio) di valenza è il livello elettronico più esterno. Esso condiziona la reattività chimica di un elemento, poiché gli elettroni in esso contenuti sono quelli che partecipano alle reazioni chimiche e determinano la formazione o rottura dei legami chimici. PROPRIETÀ PERIODICHE DEGLI ELEMENTI La reattività degli elementi viene giustificata da diverse proprietà periodiche della tavola periodica degli elementi, derivanti dalla distribuzione degli elettroni sugli orbitali. Le proprietà sono 4: 1. Raggio atomico: definito come la metà della distanza tra i nuclei di due atomi di un elemento legati da legame covalente o metallico. Aumenta dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra. 2. Energia di ionizzazione (I): definita come l’energia minima richiesta per rimuovere un elettrone da un atomo neutro. Maggiori saranno gli elettroni presenti sullo strato di valenza più l’elemento sarà capace di attrarne altri e quindi di rimuovere elettroni da un atomo neutro. É comportamento paragonabile alla affinità elettronica, e preclude la conferma dell’elettronegatività. 3. Affinità elettronica (AE): ovvero la variazione di energia, che si accompagna all’aggiunta di un elettrone all’atomo neutro, per produrre un anione. Identifica la capacità di un atomo di diventare anione e di attrarre, in base all’energia di ionizzazione, gli elettroni. Aumenta dal basso verso l’alto e da sinistra verso destra. 4. Elettronegatività: (la più importante ed evidenziata dalle altre 3), serve a spiegare meglio la distribuzione degli elettroni negli orbitali e a giustificare la creazione di legami tra atomi. E’ definita come l’attrazione esercitata da un 14 atomo su elettroni impegnati in un legame con un secondo atomo. La differenza di elettronegatività tra due elementi diversi o uguali permette di distinguere la formazione di un legame al posto di un altro. L’ elettronegatività, come l’affinità elettronica e l’energia di ionizzazione, cresce dal basso verso l’alto e da sinistra verso destra. SCALA DI PAULING (elettronegatività) Pauling definì una sorta di scala che evidenzia la crescente elettronegatività. Si vede come idrogeno, carbonio, azoto e ossigeno abbiano un elettronegatività crescente (anticipa gli elementi principali che troviamo nelle nostre molecole). Il grafico mostra i vari picchi associati all’ idrogeno, il carbonio, l’azoto, l’ossigeno, il sodio, il magnesio e a seguire e le distribuzioni differenti in base al relativo insieme universo, crosta terrestre o corpo umano. In minima parte si possono trovare elementi che, nonostante sembrino a livello quantitativo molto meno presenti, risultano comunque fondamentali in alcune molecole. La tavola periodica (in foto) può identificare elementi più abbondanti (in rosa) o in tracce (in giallo come ferro, magnesio o rame) sia strutturalmente in alcune molecole sia perché presenti in enzimi o altre strutture. ELEMENTI PRINCIPALI NEL NOSTRO ORGANISMO Si possono poi identificare alcuni elementi principali nel nostro organismo come idrogeno, carbonio, ossigeno e azoto. L’ossigeno è l’elemento più rappresentativo con il 65%: fondamentale come accettore ultimo nei processi metabolici o come componente per l’acqua. Il carbonio (18%) è presente in molti scheletri di molecole organiche così come l’idrogeno (10%). L’azoto (3%) è presente nelle proteine e negli enzimi (proteine). Il calcio e il fosforo (biochimica d’organo) importanti per mantenere la funzionalità ossea. Inoltre ci sono: lo zolfo, presente in alcuni amminoacidi; il potassio; il sodio; il cloro, necessario per formare acido cloridrico; il ferro, presente nell’emoglobina senza cui non si potrebbe legare l’ossigeno; il magnesio, importante per stabilizzare delle molecole di cui una tra tutte l'adenosintrifosfato (ATP). ELEMENTI IMPORTANTI PER LA NUTRIZIONE Tra gli elementi importanti per la nutrizione si trova il calcio, presente in compartimenti come quello osseo, fondamentale per enzimi calcio dipendenti e per la presenza a livello funzionale nei nervi, nei muscoli o negli ormoni; il fosforo presente soprattutto nel trifosfato, fondamentale per stabilire il legame che giustifica la sua resa energetica durante la rottura del legame dell’ATP; il magnesio che può essere 15 stabilizzante su molecole come ATP; il sodio e il potassio, i sali più importanti nel nostro organismo che giustificato l’avvenimento di alcuni eventi come la contrazione muscolare. ELEMENTI IN TRACCE Tra gli elementi in tracce si trova lo iodio, necessario per alcuni ormoni come quelli tiroidei; alcuni enzimi della catena respiratoria invece richiedono rame, zinco, manganese nel poli magnesio per permettere l’azione di alcuni enzimi; il cobalto presente solo in tracce, ma fondamentale nella vitamina B12; il selenio nelle patate, essenziale per l’azione di una proteina antiossidante che è la proteina E. Nella tavola periodica si possono distinguere macroelementi (rosso) e oligoelementi (blu), questi ultimi sono presenti in tracce, ma sono comunque fondamentali per il nostro metabolismo. REATTIVITÀ CHIMICA DEGLI ELEMENTI E LA REGOLA DELL’OTTETTO Come è stato precedentemente detto, ogni elemento è caratterizzato da una propria reattività. Al contrario i gas nobili (o inerti) assumono un comportamento differente da tutti gli altri elementi: essi, infatti, non reagiscono. Come mai avviene questo fenomeno? Perché si parla di gas nobili o inerti? Come detto precedentemente la reattività chimica di un elemento dipende dagli elettroni di valenza e quindi dal numero atomico. Lewis definì una grafica a punti che identifica le possibilità degli elettroni di creare legami. Più elettroni sono presenti nello strato di valenza più sarà elevata l’elettronegatività dell’atomo, perché tenderà a voler raggiungere la stabilità. L’inerzia dell’ottavo gruppo, il gruppo dei gas nobili, è legata al fatto che lo strato di valenza risulta completamente saturo di elettroni. Regola dell’ottetto formulata da Lewis: quando si forma un legame chimico, gli atomi acquistano, cedono o mettono in comune un numero di elettroni tale che si raggiunga l’ottetto, infatti, una molecola con otto elettroni nello strato più esterno risulta stabile. Tutte le molecole cercano infatti di essere stabili raggiungendo la configurazione tipica di un gas nobile. L’idrogeno, fa eccezione, perché può avere un massimo di due elettroni nello strato più esterno e quindi tende a prendere la configurazione elettronica dell’elio completando l’orbitale; il carbonio cerca di raggiungere l’ottetto aggiungendo 4 elettroni raggiungendo la configurazione del Neon; il sodio che ha solo un elettrone nello stato di valenza e lo perderà per raggiungere la configurazione elettronica del neon piuttosto che attrarre 7 elettroni. 16 LEGAMI CHIMICI Come si legano gli atomi e perché in base alla loro configurazione elettronica si comportano in un determinato modo e non in un altro? DEFINIZIONE BASE DI LEGAME CHIMICO: Il legame chimico è ciò che tiene uniti almeno due atomi uguali o diversi fra loro. Viene generalmente viene indicato attraverso dei trattini (es: C-C, H-H) che uniscono i simboli degli elementi chimici interessati. I legami chimici dipendono dalla disponibilità di elettroni nello strato di valenza, i quali possono formare un certo numero di legami, a seconda delle necessità, per arrivare all’ottetto. I legami chimici si possono distinguere in due macro categorie: legami forti e legami deboli. La forza di un legame, o la sua debolezza, è determinata dall’energia necessaria per crearlo o distruggerlo. Più è difficile rompere il legame più sarà forte e più stabile sarà la molecola. LEGAMI FORTI I legami forti possono ulteriormente distinguersi in legame ionico, che già nella nomenclatura presenta la sua caratteristica principale, la formazione di ioni, in legame covalente (polare o apolare) e in legame dativo, molto meno comune. 1. LEGAME IONICO In questo legame sono coinvolti elementi che molto facilmente perdono o acquistano elettroni per arrivare all’ottetto, elementi che quindi hanno una grande differenza di elettronegatività (superiore a 1,7-2). Se si considera che l'elettronegatività ha un andamento crescente da sinistra verso destra risulterà più facile la creazione di un legame ionico tra elementi molto distanti fra loro. Quando si parla di perdita di elettroni prevarrà la carica positiva e si viene a formare un catione. Quando si parla di acquisto di uno o più elettroni, che garantiscono la presenza di una maggiore carica negativa sempre rispetto alla configurazione neutra bilanciata di un atomo, si viene a formare un anione. Esempio del composto ionico per eccellenza è il sale da cucina, il cloruro di sodio (NaCl). Il sodio appartiene al primo gruppo (1 elettrone nello strato di valenza) e il cloro appartiene al settimo gruppo (7 elettroni nello strato di valenza). Calcolando la differenza di elettronegatività tra il cloro con un valore molto elevato e il sodio con un valore molto basso si nota come il valore ottenuto superi di gran lunga la soglia dell’ 1,7 necessaria per creare un legame ionico (3,16-0,93 = 2,23), ciò implica anche che il legame ionico sarà molto forte. Guardando l’immagine si nota come il cloro, con 7 elettroni nello strato di valenza, attrarrà l’unico elettrone nello stato di valenza del sodio, completando l’ottetto, e assumendo una carica negativa (anione Cl-), mentre il sodio completerà a sua volta l’ottetto, ma assumerà una carica positiva (catione Na+). Poiché questo legame è caratterizzato dall’attrazione di atomi con cariche di segno opposte si parla anche di attrazione elettrostatica. I legami ionici, proprio perché sono molto forti, giustificano la forma fisica solida, attribuita ai composti in cui sono presenti. Questi composti, come il sale, sono solidi cristallini, infatti, si viene a creare un vero e 17 proprio reticolo cristallino che vede l’associazione molto vicina e molto regolare degli ioni. Nel caso del cloruro di sodio (sale da cucina) un anione cloro viene circondato da 6 cationi sodio e, viceversa, ciascun catione sodio da 6 anioni cloro. Questo reticolo può essere facilmente disgregato dall’acqua, infatti, essa a contatto con il sale è in grado di dissociare il sodio e il cloro e quindi di “sciogliere” il sale. Le caratteristiche dei composti ionici: Si trovano allo stato solido a temperatura ambiente (giustificato dalla forza del legame); Hanno punti di fusione e di ebollizione molto elevati; L’attrazione fra gli ioni è forte per cui occorre molta energia per separarli; L’acqua è in grado di indebolire i legami (le interazioni ioniche) all’interno di un reticolo cristallino e favorire la scomposizione in ioni. Le reazioni di rottura di legami mediante l’acqua sono dette reazioni di IDROLISI; I composti ionici sono caratterizzati da una grande rigidità geometrica data dal reticolo cristallino. Molti ioni sono importanti in campo biomedico, come ad esempio di sodio, potassio, magnesio e calcio. Alcuni elementi come il ferro presentano più stati di ossidazione e diverse funzionalità: il ferro in uno stato 2+ si trova nell’emoglobina e serve per trasportare l’ossigeno in tutto il corpo, mentre lo stato ossidato 3+ non sarebbe adatto per tale fine. Al legame ionico si prestano bene i primi due gruppi della tavola periodica, che tendono a perdere gli elettroni nello strato di valenza e a formare cationi monovalenti (come il sodio) o bivalenti (come il magnesio). Gli alogeni (elementi del 7 gruppo) invece facilmente si trovano con una carica negativa data la loro forte elettronegatività e tendono ad acquistare facilmente un elettrone e vengono definiti anioni monovalenti. I composti ionici sono anche forti elettroliti (si definisce elettrolita una sostanza la cui soluzione acquosa conduce elettricità), essi in ambiente acquoso tendono a dissociarsi, in anioni e cationi, e a condurre corrente elettrica. Si può applicare una corrente elettrica nel sistema in cui è stata posta, per esempio, una soluzione acquosa e del sale e si può osservare come gli anioni si dirigono verso l’elettrodo positivo e i cationi verso l’elettrodo negativo. 2. LEGAME COVALENTE Il legame covalente, a differenza di quello ionico che vede un’acquisizione o una perdita di elettroni, riguarda una compartecipazione degli elettroni di due atomi. Si parla di legame covalente nel momento in cui l’elettronegatività è inferiore di 1,7 (circa 2). In particolare può essere diviso in: - puro: identifica possibile presenza di differente carica su un atomo o sull’altro - polare Per esempio nel caso di due atomi di cloro, che hanno la stessa elettronegatività, non si può giustificare una eventuale formazione di ioni in quanto nessuno dei due atomi tende ad attrarre o a cedere maggiormente gli elettroni. Quindi i due atomi condividono due elettroni raggiungendo l’ottetto come si vede sfruttando la grafica a punti di Lewis (nel caso di elettroni 18 condivisi si utilizza un trattino). Su ciascun cloro sono quindi presenti 6 elettroni liberi e i due in condivisione. Esistono poi altri tipi di grafica che utilizzano una sorta di indicazione di orbitale o la creazione di orbitali molecolari che derivano dalla fusione, attraverso una linea netta, dei due orbitali atomici, con forma sferica per semplificazione. Oppure in alternativa vengono disegnati i due orbitali sferici che contengono solo gli elettroni di legame e vengono fatti intersecare in modo tale che gli elettroni di legame siano presenti in entrambi gli orbitali. Nel caso del legame covalente, per esempio, gli atomi di idrogeno possono mettere in condivisione l’unico elettrone che posseggono creando una molecola di H2. Si può rappresentare la molecola anche con una grafica semplificata attraverso un trattino che mostra appunto gli elettroni condivisi. La maggior parte delle molecole che verranno analizzati saranno caratterizzate da legami covalenti e quindi raffigurate con un trattino. IBRIDAZIONE Spesso si possono avere legami tra orbitali diversi come tra gli orbitali s e p, che portano portano alla formazione di orbitali misti (dalla combinazione di orbitali dello stesso atomo si ottiene un numero di orbitali ibridi pari alla somma degli orbitali combinati tra loro); in questo caso si parla quindi di ibridazione degli orbitali. La formazione di orbitali misti è finalizzata a creare l’orbitale molecolare più stabile. Ciò giustifica il comportamento ad esempio del carbonio che può avere orbitali ibridi quando si lega con l’idrogeno. Si possono quindi spesso avere orbitali sp (sp3 quando si ha un legame singolo, sp2 quando si ha un legame doppio e sp con un legame triplo). I legami covalenti più importanti vengono indicati con le lettere greche: legame sigma (σ) se un legame singolo, un legame orizzontale e vede la condivisione di un solo doppietto elettronico; legame pi greco (π), presente ne I legami doppi e tripli. Il legame pi greco avviene quando si verifica una sovrapposizione di orbitali al di sopra e al di sotto del legame sigma creando una nuvola elettronica. Quali sono le caratteristiche del legame semplice sigma o del legame doppio pi greco? I legami legami doppi sono più corti dei legami semplici poiché la condivisione di elettroni in quella zona della molecola fa sì che ci sia un’attrazione maggiore tra atomi. Di conseguenza oltre alla diversa lunghezza dei legami sarà anche più difficile rompere il doppio legame a causa della presenza della nuvola elettronica tipica del legame pi greco. GEOMETRIA DELLE MOLECOLE Generale si rappresentano le molecole attraverso una grafica di tipo planare e semplificata, ma nella realtà bisogna tenere presente anche la distribuzione nello spazio dei legami. Per esempio il carbonio se forma 4 legami si dispone come al centro di un tetraedro regolare e i legami partono dal carbonio verso l’esterno del tetraedro formatosi. Gli angoli di legame variano in base alla formazione di una molecola piuttosto che un’altra e sono influenzati dalla presenza di doppietti elettronici e di legami singoli o doppi. 19 Una caratteristica fondamentale è la possibilità di rotazione della molecola attorno a un legame semplice, attività che risulta impossibile nel caso di un doppio o triplo legame, siccome rendono la geometria della molecola planare. La possibilità di rotazione è molto importante poiché permette a strutture, come quelle delle proteine, di cambiare conformazione. La presenza di un doppio legame in alternanza con legami singoli giustifica, inoltre, una reattività diversa (in chimica organica giustifica fenomeni come la risonanza). LEGAME COVALENTE PURO si ha un legame covalente puro quando la differenza di elettronegatività è inferiore a 1 (condivisione al 50% degli elettroni di legame tra i due atomi) o spesso nulla , ovvero quando due atomi dello stesso elemento si uniscono fra di loro (oppure quelli che hanno una differenza di elettronegatività molto bassa come nel caso del legame tra carbonio e idrogeno). In questo tipo di legame si riscontra una condivisione degli elettroni di legame uguale poiché nessuno dei due atomi tende ad attrarre o a cedere maggiormente gli elettroni di legame (la distanza degli elettroni di due nuclei risulta equivalente). LEGAME COVALENTE POLARE Quando, nonostante si abbia un legame covalente, la differenza di elettronegatività aumenta allora la molecola più elettronegativa attira maggiormente il doppietto di legame. Si identificheranno cariche parziali positive (delta +) e negative (delta -) sugli atomi. Si crea quando l’idrogeno reagisce con azoto, ossigeno e zolfo. Per essere più precisi si ha un legame covalente polare quando la differenza di elettronegatività è tra 1 e 1,7 circa (percentuale di condivisione maggiore in un atomo e minore nell’altro, a favore dell’atomo più elettronegativo). La presenza di molecole polarizzate fa sì che l’interazione tra molecole polari giustifichi una determinata reattività con altre molecole polari; portando a una maggiore (o minore) solubilità delle molecole in solventi polari e non. Alcuni esempi di molecole polarizzate possono essere l’acqua, costituita da idrogeno e ossigeno che esprime una maggiore attrazione degli elettroni di legame rispetto all’idrogeno per cui avrà una carica parziale negativa delta -, ma anche l’ammoniaca (NH3), in cui l’azoto ha una parziale carica negativa e l’idrogeno, ha una parziale carica positiva. Digressione: Una parziale carica positiva favorisce la protonazione. La protonazione può essere considerata come una sorta di legame dativo, in cui il doppietto elettronico arriva solo da parte di una molecola che vede una protonazione da parte del legame con l’idrogeno circolante sotto forma di ione. La protonazione cambia la geometria di legame così come gli orbitali e si nota a livello dell’angolo di legame. Nel caso dell'ammoniaca protonata si forma un angolo di legame maggiore che fra l’altro risulta essere un angolo di legame uguale alla molecola di carbonio con 4 legami che prende la forma di un tetraedro. LEGAME COVALENTE DATIVO Nel legame dativo vengono condivisi due elettroni, ma entrambi sono messi a disposizione da un solo atomo e l’altro li accetta, non c’è quindi una vera e propria condivisione, ma una sorta di donazione univoca. 20 Possono essere degli esempi la formazione di alcune anidridi, che vedono elementi come lo zolfo che presenta un doppietto non condiviso e che può essere donato all’ossigeno per formare anidride solforosa, oltre che nella formazione di alcuni acidi con e l’acido idrico, l’acido cloroso e soprattutto l’acido ortofosforico dove il fosforo è un grado di cedere in blocco 2 elettroni per formare il legame dativo. Il legame covalente dativo viene identificato attraverso una freccia che parte dall’atomo che dona verso l’atomo ricevente. 21 LEZIONE 3 - 3/10/2024 LEGAMI DEBOLI: DI VAN DER WAALS E A IDROGENO La prof.ssa prosegue il discorso sui legami chimici: nella lezione precedente (2/10/2024) sono stati trattati i due legami forti, nella lezione odierna verranno invece presentati i legami deboli quali legame di Van Der Waals e legame ad idrogeno. Parlando di legami chimici occorre ricordare l’importanza dell’elettronegatività: quando la differenza di elettronegatività tra due atomi risulta essere elevata il legame che si forma è definito ionico, la diseguaglianza tra i due valori della proprietà periodica in questione fa sì che l’elemento più elettronegativo attragga maggiormente a sé gli elettroni. Anche nei legami covalenti la differenza di elettronegatività influisce sull’attrazione dei doppietti elettronici posti in condivisione nella formazione del legame. Se la differenza di elettronegatività è pressoché nulla (e quindi i valori di elettronegatività sono molto simili, se non uguali) si formerà un legame covalente puro (es. legame tra carbonio ed idrogeno, o tra due atomi dello stesso elemento). Al contrario, se i due valori sono molto diversi si otterrà un legame covalente polare: l’atomo più elettronegativo attrarrà maggiormente a sé gli elettroni portando alla formazione di una parziale carica negativa su di esso ed una parziale carica positiva sull’atomo meno elettronegativo. L’immagine riassume il concetto appena spiegato. Due atomi di idrogeno, avendo la stessa elettronegatività, instaurano un legame covalente puro caratterizzato da una pari distribuzione delle cariche nei due atomi. Fluoro ed idrogeno invece hanno un’elevata differenza di elettronegatività: il fluoro attrae maggiormente gli elettroni, creando su di sé una parziale carica negativa (δ-) , mentre l’idrogeno avrà una parziale carica positiva (δ+). Dalla formazione di dipoli temporanei o permanenti scaturiscono interazioni elettrostatiche tra dipoli vicini. Difatti esistono dei legami, o più precisamente delle forze, intermolecolari che si instaurano nelle molecole biologiche modificandone lo stato fisico. A differenza dei legami ionici o covalenti, che sono “forti”, i legami che verranno affrontati in questa lezione sono deboli e costituiscono, come già detto, interazioni di tipo elettrostatico. Verranno analizzate due tipologie di legami deboli, fondamentali nella biochimica metabolica per giustificare la variazione di stato fisico, e sono: i legami di Van Der Waals o forze di London (prendono il nome dai rispettivi studiosi che, essendo arrivati alle stesse nozioni e conclusioni, vengono entrambi accostati alla stessa tipologia di legame. ) e i legami ad idrogeno (come si evince dal nome stesso, l’elemento fondamentale nella formazione del legame è proprio H). Per comprendere quanto questi legami siano deboli è utile servirsi del legame covalente come mezzo di paragone: l’energia contenuta nel legame covalente è 100-1000 volte maggiore rispetto a quella presente nel legame di London, e circa 10 volte più intensa di quella di un legame ad idrogeno. L’immagine consente di comprendere, tramite una grafica molto semplificata, la formazione di un dipolo. Riferendosi ad un atomo qualsiasi la distribuzione e la posizione degli elettroni (rappresentata in blu) non è mai fissa ma varia nel tempo: 22 può essere centrale, più concentrata a destra o a sinistra. Il passaggio di elettroni attorno all’atomo è molto rapido ed è dovuto all’interazione con altre molecole, non alla singola molecola. Se una molecola con dipolo istantaneo si avvicina ad un’altra crea su quest’ultima un dipolo indotto, originando una reazione a catena per cui la parte carica negativamente di una molecola si avvicinerà alla componente positiva della successiva inducendo, ogni volta, un nuovo dipolo. Sono definite forze attrattive fluttuanti proprio perché cambiano nel tempo. Ma nonostante la temporaneità si tratta, come per ogni legame, di una stabilizzazione. I dipoli istantanei indotti sono associati alla variazione dello stato fisico e pur essendo deboli, se sommate tra loro, garantiscono una coesione sufficiente da mantenere la sostanza nella fase liquida o nella fase solida. L’immagine mostra la formazione continua di dipoli istantanei indotti tra le molecole. Affinché un legame debole si realizzi e mantenga le sue caratteristiche intrinseche devono verificarsi determinate condizioni: distanza: la vicinanza tra atomi o molecole è condizione necessaria affinché si realizzino interazioni temporanee dipolo-dipolo. Più le molecole sono distanti più i legami risultano deboli, fino ad annullarsi. Ad esempio, la forza di London diminuisce in ragione della sesta potenza della distanza (ciò 6 = 64 significa che se la distanza raddoppia, la forza di London diminuisce di 64 volte, dato che 2) peso molecolare: maggiore è la dimensione della molecola maggiore sarà il numero di elettroni che la polarizzano. Dunque più le molecole sono grandi più rimangono coese, perché ne scaturisce un legame più forte. forma: a parità di peso molecolare occorre considerare la forma della molecola. Una forma allungata consente una maggiore vicinanza tra i dipoli della molecola, dunque ne deriva un legame più stabile rispetto a quello che può nascere da una molecola più raggomitolata. La forza di legame può venir meno se, pur avendo una forma allungata, la molecola presa in oggetto ha delle ramificazioni: in questo caso vi sarebbe un ingombro maggiore che ostacola il mantenimento del legame di Van Der Waals. (un esempio pratico: è molto più facile accostare i tronchi di alberi senza rami piuttosto che accostare tronchi di alberi con molte ramificazioni). temperatura: all’aumentare della temperatura diminuisce la forza di legame. Per comprendere meglio questo concetto è utile far riferimento ai passaggi di stato: in un composto solido le molecole sono molto vicine tra loro, ma se si aumenta la temperatura fino alla liquefazione si nota un distanziamento sempre maggiore tra le molecole, che raggiunge l’apice nello stato gassoso in cui la dispersione è tale da impedire il mantenimento del legame (ma ci sarà comunque un numero minimo di forze di London). 23 ACCENNI AGLI ALCANI come esempio delle caratteristiche di legame Un esempio che tiene conto del peso molecolare, della forma e della temperatura, sono gli alcani. Gli alcani sono molecole caratteristiche della chimica organica (idrocarburi), molto piccole e formate solo da carbonio ed idrogeno. La dimensione dell’idrocarburo dipende dal numero di carboni presenti nello scheletro carbonioso: più le molecole sono piccole più l’alcano è allo stato gassoso perché non riesce a stabilire legami sufficienti di coesione come quelli che invece si formerebbero tra molecole più complesse. da 1 a 5 atomi di carbonio: alcani gassosi da 6 a 20: alcani liquidi (es. benzine, cheroseni, oli lubrificanti) da 20 atomi di carbonio in poi: alcani solidi, come le paraffine IL LEGAME AD IDROGENO Visionando il grafico in figura si notano i diversi punti di ebollizione appartenenti a composti binari, ovvero composti costituiti da idrogeno ed un elemento x della tavola periodica, scelto in base al periodo d’appartenenza (asse delle ascisse). La scelta di prendere in considerazione gli elementi in base al periodo della tavola periodica deve far pensare all'elettronegatività. Difatti è questa la discriminante da cui derivano le differenti temperature d’ebollizione. Tra tutti i composti è impossibile non notare che l’acqua ha un punto di ebollizione decisamente più alto rispetto a tutti gli altri composti considerati: perché oltre alle forze di London presenta legami ad idrogeno, più forti. Affinché si crei il legame ad idrogeno la molecola deve avere un atomo fortemente elettronegativo che possa legarsi ad un atomo di idrogeno. L’idrogeno infatti fa da ponte tra due atomi con parziale carica negativa (dotati di elevata elettronegatività) quali possono essere azoto, ossigeno e fluoro. E’ necessario ricordare che il legame ad idrogeno è comunque un legame debole, sempre dipendente dalla presenza di un dipolo, con una sola differenza: in questo caso il dipolo è permanente (ma rimane comunque un livello di fluttuazione ed è sempre necessaria la stretta vicinanza tra molecole affinché il legame si realizzi). L’esempio più eclatante del legame ad idrogeno è la molecola d’acqua, ma anche l’ammoniaca (NH3) è caratterizzata dalla stessa interazione debole. La presenza di più legami ad idrogeno consente la realizzazione di tutti i legami possibili, ma di base vengono realizzati solo quelli necessari al mantenimento del composto nel suo stato fisico. Ad esempio l’acqua liquida è costituita solamente da 3 legami ad idrogeno, mentre il ghiaccio avendo una struttura cristallina più rigida necessita di 4 legami ad idrogeno. I doppietti elettronici non condivisi, come quelli presenti nell’ossigeno o nell’idrogeno, conferiscono alla molecola una parziale carica negativa e favoriscono la formazione del legame ad idrogeno. Come si può vedere dall’immagine solitamente vengono utilizzati dei trattini per mostrare la presenza di un’interazione debole e facile da rompere (per i legami covalenti si utilizza il tratto netto). 24 E’ possibile individuare un accettore ed un donatore dell’idrogeno che fa da ponte: tendenzialmente fungono da accettori l’ossigeno o l’azoto, mentre il donatore è un altro atomo elettronegativo. Esempi di legami ad idrogeno di importanza biologica: tra il gruppo ossidrilico dell’alcool e l’acqua tra un gruppo carbonilico e l’acqua (ad esempio tra il carbonilico del chetone e l’acqua) tra due basi azotate complementari (in modo da garantire la stabilità della doppia elica): l’interazione tra le basi è garantita dai legami ad idrogeno, nello specifico due legami tra adenina e timina e tre tra citosina e guanina. Quest’interazione consente di mantenere una struttura ripetitiva e stabile per tutta la dimensione del DNA. tra enzima e substrato: in questo caso il complesso enzima-substrato è mantenuto da interazioni ioniche (NB non sono legami ionici ma interazioni tra cariche diverse presenti sui due elementi soggetti al legame), legami ad idrogeno ed interazioni idrofobiche. CARATTERISTICHE CHIMICO FISICHE DELL’H20 L’acqua è fondamentale per la vita: costituisce il 75% del peso corporeo di un neonato, il 60% del peso di un adulto (di cui il 40% fa riferimento ad acqua intracellulare ed il 20% ad acqua extracellulare es. plasma, liquidi interstiziali). L’adulto ricambia giornalmente il 6% del contenuto idrico totale. L’importanza biologica dell’acqua è strettamente correlata alla sua capacità di formare legami ad idrogeno. Le principali caratteristiche sono: elevato punto di ebollizione (-80° teorici considerando solo le forze di Van Der Waals, 100° contando anche i legami ad idrogeno) elevato punto di fusione (-90° teorici e 0° effettivi) elevata tensione superficiale importanti proprietà solventi : le molecole per sciogliersi in acqua devono essere o ioniche o polari (ndr il simile scioglie il simile, i composti apolari come ad esempio l’olio non possono essere sciolti in acqua.) La solubilità di un composto dipende dalla capacità delle sue molecole di interagire con l’acqua (devono essere circondate da un alone di idratazione). La dissoluzione dello zucchero da cucina in acqua è un esempio di interazione dipolo-dipolo (NB il saccarosio non può essere “rotto” separando le sue parti, per cui viene solubilizzato nella sua totalità), mentre ad esempio la dissoluzione di sale da cucina è un esempio di interazione ione-dipolo. Il sale si scioglie perché l’acqua riesce a penetrare il reticolo cristallino circondando le molecole per formare un alone di idratazione (le molecole d’acqua si dispongono in modo da mantenere la componente carica negativamente verso il sodio, mentre la componente più positiva sarà rivolta verso il cloro. 25 SOLUZIONI E SOLUBILITÀ Le soluzioni sono miscugli omogenei, tendenzialmente si tratta di solidi disciolti in un liquido: il solido prende il nome di SOLUTO (ed è presente in quantità minore) mentre il liquido in cui è solubilizzato si chiama SOLVENTE (sostanza nell’ammontare maggiore). Nelle soluzioni omogenee i soluti: si diffondono uniformemente in tutta la soluzione (dunque non sono distinguibili) non si separano mediante filtrazione ma possono essere separati tramite evaporazione se sono invisibili la soluzione risulta trasparente se colorati possono dare colore alla soluzione Una soluzione è definita satura se contiene la quantità massima di soluto solubilizzabile ad una data temperatura. Può verificarsi la formazione di precipitato (residuo di soluto sul fondo della soluzione), in questo caso la soluzione è sovrasatura. Al contrario, definiamo una soluzione “insatura” quando il soluto è presente in quantità inferiore e dunque la soluzione è ancora in grado di sciogliere altri grammi di soluto. In una soluzione satura vi è un equilibrio dinamico tra il soluto sciolto e quello non sciolto. La solubilità di una soluzione dipende da diversi parametri, come: tipo di soluto tipo di solvente pressione (se ad esempio il soluto è un gas) temperatura La solubilità di una sostanza in un solvente indica la massima quantità di soluto che può essere sciolta in un solvente, senza che si formi un precipitato. Il modo più semplice per determinare la solubilità di una soluzione è valutarne la concentrazione. Per esprimere la concentrazione di un soluto in una soluzione possiamo utilizzare varie diciture, quali: - grammi per cento peso/peso ⇒ g di soluto in 100 g di soluzione - grammi per cento peso/volume ⇒ g di soluto in 100 mL di soluzione - per cento volume/volume ⇒ mL di soluto in 100 mL di soluzione Definendo le soluzioni è utile ricorrere alle moli come unità di concentrazione. La mole (mol) è la quantità di sostanza in grammi pari al peso atomico o molecolare. Le reazioni avvengono non solo in base alla quantità in grammi ma anche alle quantità in moli: ci deve essere equimolarità. Ad esempio, nella formazione di acqua, se vogliamo far reagire idrogeno molecolare ed ossigeno molecolare non possiamo utilizzare 2 kg di H2 ed 1 kg di O2, infatti occorre considerare che una molecola di O2 pesa 32 g mentre una molecola di H2 pesa 2 g. Affinché la reazione avvenga dobbiamo far in modo di combinare quantità uguali di molecole: occorre dunque un valore di riferimento standard: il numero di Avogadro, che corrisponde al numero di particelle che in grammi pesano come l’unità di formula ed ha un valore di 6, 022 x 10.23 Vi sono delle nozioni base indispensabili per lo studio della chimica inorganica: L’unità di massa atomica (u.m.a) corrisponde alla dodicesima parte dell’isotopo 12C → equivale ad 26 un dalton:1, 66 10−24 Il peso atomico è la media ponderale di tutti i pesi atomici degli isotopi dell’elemento, cioè si riferisce alla percentuale di abbondanza naturale degli isotopi. Il peso molecolare è la somma dei pesi atomici di tutti gli atomi contenuti in una molecola. La legge della conservazione della massa, che enuncia: in una reazione chimica la massa dei reagenti è esattamente uguale alla massa dei prodotti LA CONCENTRAZIONE DI UNA SOLUZIONE La concentrazione di un soluto in una soluzione può essere espressa in termini di: MOLARITÀ ⇒ moli di soluto per litro di soluzione MOLALITÀ ⇒ moli di soluto in 1 kg di solvente L’immagine sottostante mostra i passaggi che consentono di passare da una modalità di espressione della concentrazione ad un’altra. Vi sono delle concentrazioni plasmatiche di alcuni soluti che devono necessariamente essere mantenute stabili in precisi valori, come mostrato nell’immagine. INTERAZIONI IDROFOBICHE: soluti apolari Nelle soluzioni apolari il soluto si dispone in modo da formare il clatrato (nucleo idrofobico): se si mettono delle gocce d’olio nell'acqua queste si raggrupperanno per formare un cuore idrofobico in modo da avere meno contatto possibile con il solvente. Questo raccoglimento in un unico luogo della soluzione origina una riduzione d’entropia. 27 LE PROPRIETÀ COLLIGATIVE DELLE SOLUZIONI Sono definite “ proprietà colligative" quelle proprietà del solvente che vengono modificate dall’interazione dello stesso con il soluto. Esse dipendono dal rapporto del numero di particelle di soluto sul numero di particelle del solvente e non dalla natura chimica, dalla forma o dalla dimensione. Aggiungendo al solvente una quantità di soluto ottengo: abbassamento della tensione di vapore (il sale nell’acqua che bolle fa diminuire il numero di particelle che evaporano) innalzamento ebullioscopico (il sale nell’acqua fa alzare la temperatura a cui bolle) abbassamento crioscopico (acqua da sola e acqua e zucchero hanno diversi punti di congelamento, la seconda soluzione ha bisogno di più tempo per congelarsi) aumento della pressione osmotica PRESSIONE OSMOTICA Nell’immagine abbiamo un becher in cui inseriamo un secondo contenitore più piccolo, non sigillato, che possa comunicare con il becher in cui è inserito, facendo passare solamente il solvente e non il soluto (ad esempio chiudendo il fondo con una garza o qualche altro materiale filtrante) Supponiamo di avere il soluto solo nel contenitore interno: notiamo che alcune molecole presenti nel contenitore più esterno tenderanno a migrare nel contenitore minore per solubizzarne il contenuto. Si raggiungerà quindi, grazie a questo flusso d’acqua, una condizione di equilibrio rispetto alla concentrazione nei due contenitori (che ora si equivarrà). La pressione osmotica è la pressione esercitata dalla colonna idrostatica di altezza h (corrisponde alla differenza tra i livelli di liquido nei due recipienti dell’immagine) ed è direttamente proporzionale a: molarità del soluto temperatura assoluta fattore di van’t Hoff ⇒ numero di particelle liberate in soluzione da ogni unità formula del soluto costante dei gas ⇒ 0.821 litri x atm/k/mol Da queste informazioni è possibile ricavare la formula della pressione osmotica: Con il termine OSMOSI si intende il passaggio spontaneo di solvente attraverso una membrana semipermeabile da una soluzione a minore osmolarità verso una soluzione a maggiore osmolarità. L'OSMOLARITÀ Ha origine dalla combinazione tra molarità e coefficiente di van’t Hoff ⇒ OSM= Mxi E’ importante perché le concentrazioni molari di alcune sostanze nell’organismo sono in continuo cambiamento e quindi è fondamentale mantenere correttamente le condizioni di osmosi. Il plasma sanguigno ha un valore di osmolarità pari a 0,3 ismoli/litro (300 milliosmolare), derivante dai soluti in esso disciolti. 28 L’osmolarità fisiologica, che sia riferita al plasma o ai liquidi organici, deve essere pari a 300 mOSM. Di conseguenza, definiremo: isoosmolare o isotonica una soluzione avente la stessa osmolarità dei liquidi fisiologici ipoosmolare o ipotonica una soluzione avente un’osmolarità inferiore rispetto a quella fisiologica iperosmolare o ipertonica una soluzione che abbia un valore di osmolarità maggiore del fisiologico. Se per qualche motivo un paziente avesse bisogno di una flebo è fondamentale che questa sia isotonica, in modo da non variare l’equilibrio osmotico presente nelle cellule dell’organismo. Ad esempio la flebo fisiologica si chiama così proprio perché è una soluzione di NaCl allo 0,9% : questo significa che in 100 mL di soluzione sono contenuti 0,9 grammi di NaCl. Considerando il peso molecolare del cloruro di sodio (58,44 g/mol) possiamo calcolare la molarità dividendo i grammi al litro per il peso molecolare, ottenendo 0.154 M. Dato che il fattore di van’t Hoff è 2, l’osmolarità sarà 0.308. E’ fondamentale evitare in ogni modo la variazione della concentrazione osmotica a livello sanguigno, per non danneggiare le cellule del sangue. Finché il globulo rosso è in una soluzione isotonica si ha un flusso uguale di acqua dall’interno della cellula all’esterno e viceversa. Se invece il globulo fosse posto in un plasma ipertonico (e quindi ricco di soluti) ne conseguirebbe un flusso d’acqua verso l’esterno (con l’obiettivo di diluire l’ambiente circostante) che renderebbe la cellula raggrinzita,ciò implicherebbe la morte cellulare. Allo stesso modo, il globulo rosso morirebbe per lisi se fosse posto in un ambiente ipotonico (con pochi nutrienti), in quanto l’acqua entrerebbe in esso provocandone la lisi. Anche le pareti vascolari sono delle barriere semipermeabili e come tali sono soggette ad osmosi: a volte dopo un trauma si verifica il cosiddetto edema, ovvero un aumento di acqua nei tessuti (come l’edema cerebrale). In questi casi è possibile ripristinare la condizione fisiologica utilizzando l’osmolarità: si somministra al paziente un farmaco ad elevata concentrazione e facilmente metabolizzabile , come può essere il mannitolo al 20%, in modo da far aumentare immediatamente l’osmolarità del plasma. In questo modo l’acqua contenuta nei tessuti verrà richiamata all’interno delle cellule del sangue, permettendo il riassorbimento e la diminuzione dell’edema. Un altro esempio che dimostra quanto il mantenimento dell’osmolarità fisiologica sia importante per la salute è il diabete di tipo 2 o insulino-resistente: nei soggetti affetti vi è una maggiore quantità di zucchero nel circolo sanguigno e l’unico modo per diminuirne le quantità è eliminarlo tramite l’urina. Vi è quindi un richiamo d’acqua nell’urina tramite i tubuli renali, questo flusso d’acqua deve essere strettamente controllato, perché in caso contrario si rischia il coma iperosmolare. NB per avere glicosuria (residui di zucchero nelle urine) la quantità di glucosio deve essere almeno 170 mg % (peso/volume). Sullo stesso concetto (ndr. osmolarità) si basa la conservazione gli alimenti con elevate quantità di zucchero o sale: i batteri vivono in ambiente isotonico o ipotonico, se li poniamo in una condizione di ipertonicità ne consegue necessariamente una perdita di acqua con successiva morte cellulare. Ecco perché non vi è contaminazione batterica negli alimenti conservati con questa tecnica. 29 LEZIONE 4 - 4/10/2024 REAZIONI CHIMICHE Nella scorsa lezione è stato visto come, a seconda delle caratteristiche degli atomi e, conseguentemente delle molecole, si possano formare determinati legami; in primis, tra gli atomi a formare delle molecole e poi, successivamente, legami tra queste. Il legame più importante in ambito biologico è quello covalente, sia semplice (sigma), sia doppio o dritto, in cui i doppietti di legami coinvolti hanno una configurazione tale per cui i legami sono più forti e più difficili da rompere. Come avvengono le reazioni chimiche? Nelle reazioni chimiche ci si trova sempre di fronte ad un reagente (o reagenti) che andrà a definire, avvenuta la reazione chimica, una rottura o una formazione di legami, per formare il prodotto (o prodotti) della reazione. Es. formazione dell’acqua; La prima equazione in alto, presenta i reagenti separati dai prodotti attraverso una freccia che indica la direzione verso cui avviene la trasformazione chimica. Se si ponesse un’equazione di questo tipo, è ovvio che non sarebbe bilanciata; contando il n. di atomi di H rispetto a quelli di O, i conti non tornerebbero. Per questo motivo si inseriscono i coefficienti stechiometrici che rispettano la legge della conservazione di massa (che giustifica il calcolo in termini di grammi e, in questo modo, fa sì che ci sia una correlazione con il peso atomico e il peso molecolare e quindi anche con il coefficiente stechiometrico), giustificando, dunque, la vera reazione. Cioè, saranno due molecole di H2, più una di ossigeno biatomico, a formare due molecole di H2O. Nella parte in basso dell’immagine presente a destra, è possibile osservare anche gli orbitali. La raffigurazione conferma quelle che sono le modificazioni anche a livello delle molecole, mantenendo, però, le geometrie. Tutte le reazioni chimiche sono una cessione o acquisizione di elettroni, perché gli elettroni sono coloro che entrano in gioco per formare i legami, per cui se si rompe un legame e ne si formano degli altri, si ha sempre questo tipo di cessione o acquisizione. Quando la cessione/acquisizione è parziale si ha la formazione di legami covalenti, quando è totale si ha la formazione di legami ionici. Ci deve essere una corrispondenza tra il numero degli elettroni ceduti e il numero degli elettroni acquistati. Tutti i processi biochimici umani possono essere definiti come delle ossidazioni o delle riduzioni in base a questo scambio di elettroni. L’immagine a destra mostra l’andamento del metabolismo in termini catabolici e anabolici, questi sono il sunto di reazioni di ossidoriduzioni. In particolare, il catabolismo vede reazioni di ossidazione, mentre le reazioni anaboliche, quindi per esempio la costruzione di nuove molecole o l’utilizzo dell’energia per compiere un lavoro, vedono delle reazioni di riduzione. 30 Il numero degli elettroni ceduti deve essere uguale al numero degli elettroni acquistati, dunque il catabolismo è accompagnato anche da una reazione di riduzione e l’anabolismo da una di ossidazione. Nell’immagine a destra è presente un esempio di ossidoriduzione: si hanno due atomi di sodio che reagiscono con una molecola di cloro (non esiste da solo, ma solo come in forma biatomica), per formare due molecole di cloruro di sodio. Nella formazione del legame sarà il sodio a cedere un elettrone al cloro, che completerà l’ottetto. Quando si parla di ossidazione vi è una cessazione di uno o più elettroni. Il sodio subisce l’ossidazione, ma sarà chiamato riducente. Il riducente è colui che trasferisce gli elettroni su colui che subisce la riduzione, ovvero il cloro, che viene chiamato ossidante. L’ossidante viene così chiamato per l’ossigeno che è un forte ossidante, e dunque per la sua elettronegatività attrae gli elettroni. Ciò che avviene è l’ossidazione del sodio e la riduzione del cloro, ovvero una reazione di ossidoriduzione. Dunque, il riducente cede gli elettroni (quindi si ossida); l’ossidante riceve gli elettroni (quindi si riduce). Un’ossidazione è sempre accoppiata ad una riduzione, si parla di ossidoriduzione. L’ossidoriduzione avviene nel metabolismo degli esseri umani: le reazioni cataboliche corrispondono a reazioni di ossidazione e determinano la liberazione di energia. Reazioni che vedono la riduzione di composti specifici che a loro volta si ossidano per trasportare gli elettroni hanno come e fine ultimo la produzione di adenosinatrifosfato (ATP). L’ossidazione del metano, combustibile che viene utilizzato per riscaldare le abitazioni o il gas della cucina, vede una reazione di ossidazione. Quello che viene prodotto è energia come fonte di calore e la restante parte di CO2. L'ossidazione dei carboidrati e dei grassi negli organismi viventi porta alla produzione di H2O, CO2 ed energia, in parte dispersa come calore (mantenimento temperatura corporea di 37°C), in parte conservata in legami chimici ad alta energia, quali quelli, come detto poc'anzi, dell'adenosintrifosfato (ATP). Le reazioni di riduzione, invece, richiedono apporto di energia dall'esterno e consumo di ATP (ad esempio, la sintesi di nuove molecole nel nostro organismo). CINETICA CHIMICA Le reazioni chimiche non avvengono alla stessa velocità. La branca della chimica che si occupa di studiare il mondo delle reazioni chimiche, prende il nome di cinetica chimica. La stessa reazione può avvenire a velocità diverse, sia spontaneamente sia attraverso un innesco che possa favorire la reazione a una velocità superiore. Es. l’ossidazione della cellulosa nei fogli di carta può, a causa dell’ossigeno atmosferico, subire un’ossidazione molto lenta nel giro di anni, ma che produce una parziale e piccola combustione della cellulosa, ovvero l’ingiallimento dei fogli. Quando, invece, viene innescata da una fiamma e viene bruciato il libro, l’ossidazione avviene più rapidamente. La velocità è differente, ma la reazione è la medesima. Dunque, la cinetica chimica studia la velocità a cui avvengono le reazioni chimiche e i fattori che la influenzano, come rallentarla o accelerarla e che possono dare anche un esito differente. 31 Una reazione che viene portata ad una velocità eccessiva può produrre degli effetti come lo smog; la fermentazione, invece, vede una velocità di reazione molto lenta che richiede anche una tempistica diversa. Perché interessa sapere a che velocità vanno le nostre reazioni e perché è importante mantenere un certo tipo di non variabilità con questa velocità? Perché si può stabilire la differenza tra lo stato di salute e stato di malattia. Come si misura la velocità di una reazione? Nell’esempio si osserva una reazione come quella presente nell’immagine a destra, quindi di decomposizione del pentossido di diazoto in diossido di azoto e ossigeno. Nel diagramma si vede come se si valuta, nello trascorrere del tempo, la variazione delle concentrazioni molari sia dei reagenti che scompaiono e sia della formazione dei prodotti, si hanno degli andamenti diversi, che evidenziano nel tempo una velocità differente. Per cui, si valuta la velocità come la variazione (Δ) della concentrazione in un determinato intervallo di tempo (Δt). Per indicare la velocità di scomparsa del reagente, si valuta il rapporto tra la variazione della concentrazione del pentossido di diazoto e il Δt. Nella frazione è presente un segno meno, perché si deve pensare che la concentrazione iniziale vada a diminuire. Per indicare la velocità di formazione dei prodotti, si valuta il rapporto tra la variazione della concentrazione di biossido di azoto, più preponderante, e Δt. Si può essere più precisi abbreviando il più possibile il tempo in cui viene misurata la velocità. Scegliendo un punto della curva, si traccia una tangente ad esso, e su questa tangente si calcola la velocità in quel determinato istante, quindi la velocità istantanea. Se viene posta su un grafico la reazione precedente, partendo dalla concentrazione di pentossido di diazoto, è possibile vedere come su vari punti, tracciando le tangenti, si possa eliminare la velocità istantanea. Si può notare, inoltre, una diminuzione della velocità istantanea che è in funzione della concentrazione di reagente che si consuma. In cinetica chimica si preferisce misurare la velocità istantanea iniziale della reazione, misurata cioè quando è virtualmente presente solo il reagente e non si è ancora accumulato del prodotto. La velocità iniziale aumenta in funzione diretta della concentrazione iniziale. Più reagenti si hanno e più la velocità della reazione aumenta in maniera proporzionale. Tutto questo serve a definire l’equazione di velocità, che mette in relazione la velocità di reazione istantanea con la concentrazione dei reagenti. L’andamento della reazione nel tempo, attraverso una costante k, può essere semplificato. K è la costante di velocità e viene ricavata 32 sperimentalmente, ha delle caratteristiche che, per quella determinata reazione, ne gestiscono la velocità. K è: - specifica per una data reazione; - determina la pendenza della retta; - aumenta con l'aumentare della temperatura (tornando all’esempio della cellulosa, applicando un innesco, come la fiamma, si aumenta la velocità di combustione, quindi è stata aumentata la k); - indipendente dalla concentrazione dei reagenti (se si modifica la concentrazione, cambia la velocità ma non la k). SPONTANEITA’ DI UNA REAZIONE Quando si parla di spontaneità si fa riferimento ad una reazione che può avvenire senza aiuti esterni. Si suppone di avere una reazione, in cui, all’inizio, si presentano solamente due reagenti A e B. Man mano che la reazione avviene in modo spontaneo, è possibile avere una riduzione dei reagenti rispetto alla formazione dei prodotti, C e D che aumentano. Può anche avvenire la reazione inversa, in cui C e D saranno i nuovi reagenti e la freccia sarà rivolta da destra verso sinistra; man mano inizieranno a formarsi i precedenti reagenti, che saranno i nuovi prodotti della reazione, ovvero A e B. Come si fa a definire, in una reazione, che l’andamento possa andare di più verso destra o ritornare a sinistra? Innanzitutto, bisogna tenere conto del contributo energetico necessario affinché determinate reazioni possano avvenire. Bisogna anche considerare due grandezze fisiche, spesso in conflitto tra loro, importanti affinché una reazione possa avvenire in modo spontaneo, definite: energia (o calore) entropia (o disordine) Dal punto di vista della spontaneità, la reazione chimica tende alla diminuzione del contenuto di energia delle sostanze coinvolte e all’aumento del disordine. Le reazioni spontanee avvengono senza aiuti esterni; inoltre, se una reazione è spontanea, non significa che debba avvenire ad una velocità rapida. È necessario un apporto di energia per compiere un lavoro o per fornire calore. È necessario, per cui, fare un bilancio energetico delle reazioni chimiche. Quando si parla di energia, si definiscono due tipologie: energia potenziale = l'energia posseduta da un oggetto in virtù della sua posizione (una palla posizionata all’inizio di una discesa, ha un’energia potenziale che le permetterà di giungere a terra maggiore rispetto a quella della palla alla fine della discesa); energia cinetica = l'energia posseduta da un oggetto a causa del suo moto Anche durante la formazione di interazioni elettrostatiche o nella formazione del legame ionico, quando due cariche sono separate hanno un’energia potenziale maggiore, quando si attraggono il potenziale è minore e sono anche più stabili. Questo concetto è importante perché qualunque evento fisico o chimico procede nel senso di ridurre il contenuto energetico di un sistema. Per questo motivo il concetto di ridurre il contenuto energetico di un sistema si applichi bene sia agli atomi che alle molecole, che possono essere visti come minuscoli depositi di energia. 33 La formazione di legami o gli eventi di ossidoriduzione, sono finalizzati a una riduzione del contenuto energetico. Per questo motivo, partendo dal concetto di energia espressa come calore, possiamo distinguere delle reazioni: Esotermiche: reazioni in cui l'energia E contenuta nelle molecole dei prodotti è minore rispetto quella presente nelle molecole dei reagenti. → Rilasciano la differenza di energia sotto forma di calore. Endotermiche: reazioni in cui l'energia E contenuta nelle molecole dei prodotti è maggiore di quella presente nelle molecole dei reagenti.→ Assorbono la differenza di energia dall'ambiente, sotto forma di calore. Calcolando il ΔE è possibile stabilire se una reazione è esotermica o endotermica: A destra è possibile visionare la raffigurazione del concetto spiegato precedentemente; se è presente un masso che rotola dalla cima della collina, è ovvio che la sua energia potenziale sia maggiore (in questo caso si tratta del reagente) rispetto a quando arriva in basso (prodotto). Si compie, dunque, una variazione del contenuto energetico. In questo caso è una reazione esotermica, il reagente diminuisce di energia, formando un prodotto con energia potenziale minore. Quando si ha, invece, la reazione inversa in termini endotermici, è necessario un apporto di energia che, nel caso dell’immagine, è rappresentata dalla persona che sta spingendo il masso verso l’alto, permettendo il verificarsi della reazione. In questo caso si tratta di una reazione endotermica, in quanto i reagenti, all’inizio, hanno una bassa energia potenziale, salendo si avrà un apporto di energia sempre più alto, che determinerà un prodotto con elevata energia potenziale. VARIAZIONE DI ENTALPIA (ΔH) In realtà è più corretto considerare queste variazioni di energia come scambio di calore. Parlando di calore, si fa riferimento alla grandezza entalpia. La variazione di entalpia (H), è indicata come ΔH. Le reazioni chimiche che si verificano negli organismi viventi avvengono in condizioni di pressione costante ed in soluzioni acquose che non variano mai significativamente il proprio volume. Lo scambio di energia realizzato nel corso di una reazione chimica si traduce soprattutto in uno scambio di calore con l'ambiente. Le reazioni esotermiche ed endotermiche possono essere distinte anche in relazione a ΔH: VARIAZIONE DI ENTROPIA (ΔS) Lo scambio di energia tra sistema (reazione chimica) e ambiente non è il solo fattore che determina la spontaneità (e quind

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