Bachtin - Epos e romanzo PDF
Document Details
Uploaded by Deleted User
Bachtin
Tags
Summary
This document delves into Bakhtin's analysis of the novel's unique position as a literary genre. It points out the novel's ongoing evolution in contrast to other completed literary forms. The text argues that the novel, born in modern times, is inherently linked to its era and fundamentally distinct from established genres like the epic or tragedy. This essay examines the interaction of genres within a specific period of literature and how the novel disrupts and reshapes other forms.
Full Transcript
Epos e romanzo. Sulla metodologia dello studio del romanzo* * Epos i roman. O metodologii issledovanija romana. Lo studio del romanzo come genere letterario si distingue per particolari difficoltà. Ciò è determinato dalla natura specifica dello stesso oggetto: il r...
Epos e romanzo. Sulla metodologia dello studio del romanzo* * Epos i roman. O metodologii issledovanija romana. Lo studio del romanzo come genere letterario si distingue per particolari difficoltà. Ciò è determinato dalla natura specifica dello stesso oggetto: il romanzo è l'unico genere letterario in divenire e ancora incompiuto. Le forze che formano un genere letterario agiscono sotto i nostri occhi: la nascita e il divenire del genere romanzesco avvengono nella piena luce del giorno storico. L'ossatura del romanzo in quanto genere letterario è ancora lungi dall'essersi consolidata, e noi non siamo ancora in grado di prevederne tutte le possibilità plastiche. Gli altri generi letterari in quanto tali, cioè come forme solide per la colata dell'esperienza artistica, ci sono noti in un aspetto ormai compiuto. L'antico processo della loro formazione si trova fuori dell'osservazione storicamente documentata. Troviamo l'epopea come un genere non solo da tempo compiuto, ma già anche profondamente invecchiato. Lo stesso può dirsi, con alcune riserve, anche degli altri generi letterari principali, persino della tragedia. La loro vita storica a noi nota è la loro vita in quanto generi compiuti con un'ossatura solida e ormai poco plastica. Ognuno di essi ha il suo canone, che agisce nella letteratura come una forza storica reale. Tutti questi generi letterari o, in ogni caso, i loro elementi principali sono molto più vecchi della scrittura e del libro e in vario grado conservano fino a oggi la loro natura orale e sonora. Dei grandi generi letterari solo il romanzo è più giovane della scrittura e del libro ed esso soltanto è organicamente adatto alle nuove forme della percezione muta, cioè [p. 446] la lettura. Ma, soprattutto, il romanzo non ha un canone come gli altri generi letterari: storicamente validi sono soltanto singoli esemplari di romanzo, ma non un canone di genere in quanto tale. Lo studio degli altri generi letterari è analogo allo studio delle lingue morte; lo studio del romanzo, invece, è analogo allo studio delle lingue vive, e giovani. E questo crea la straordinaria difficoltà di una teoria del romanzo. Questa teoria, infatti, in sostanza ha un oggetto di studio completamente diverso da quello di una teoria degli altri generi letterari. Il romanzo non è semplicemente un genere letterario tra gli altri. E' l'unico genere in divenire tra generi da tempo compiuti e in parte già morti. E' l'unico genere procreato e nutrito dall'epoca moderna della storia universale e perciò ad essa profondamente affine, mentre gli altri grandi generi sono stati ricevuti da essa in eredità in forma compiuta e non fanno che adattarsi - chi meglio, chi peggio - alle nuove condizioni di esistenza. In confronto ad essi il romanzo è un essere di un'altra razza. Convive male con gli altri generi. Lotta per il suo dominio nella letteratura e, dove vince, gli altri vecchi generi letterari si disgregano. Non a caso la miglior storia del romanzo antico - il libro di Erwin Rohde - non racconta tanto la sua storia quanto raffigura il processo di disgregazione di tutti i grandi generi letterari alti sul terreno dell'antichità classica. E' molto importante e interessante il problema dell'interazione dei generi letterari nell'unità della letteratura di un dato periodo. In certe epoche - nel periodo classico della letteratura greca, nel secolo aureo di quella romana, nell'epoca del classicismo - nella grande letteratura (cioè nella letteratura dei gruppi sociali dominanti) tutti i generi letterari in una certa misura si completano armonicamente a vicenda e tutta la letteratura, come insieme di generi, è in notevole misura un tutto organico di ordine superiore. Ma una cosa è caratteristica: il romanzo in questo tutto non entra mai, non partecipa all'armonia dei generi. In queste epoche il romanzo conduce un'esistenza non ufficiale al di là della soglia della grande letteratura. Nel tutto organico della letteratura, gerarchicamente organizzato, entrano soltanto i generi letterari compiuti con una loro fisionomia determinata e precisa. Essi possono limitarsi e completarsi a vicenda, conservando la loro [p. 447] natura di genere. Sono uniti e affini tra loro per intime peculiarità strutturali. Le grandi poetiche organiche del passato - di Aristotele, Orazio, Boileau - sono permeate da un senso profondo del tutto della letteratura e dell'armonicità con cui in questo tutto si combinano i vari generi. E' come se esse sentissero concretamente questa armonia dei generi letterari. Sta qui la forza, l'irripetibile totale pienezza e inesauribilità di queste poetiche. Esse ignorano tutte sistematicamente il romanzo. Le poetiche scientifiche del XIX secolo sono prive di questa totalità: sono eclettiche, descrittive, tendono a una pienezza non viva e organica, ma astrattamente enciclopedica e si orientano non verso la possibilità effettiva di coesistenza di determinati generi nel tutto vivente della letteratura di una data epoca, ma verso la loro coesistenza in una crestomazia il più possibile completa. Esse, naturalmente, non ignorano più il romanzo, ma lo aggiungono semplicemente (al posto d'onore) ai generi letterari esistenti (come genere tra i generi, esso entra anche nella crestomazia; ma nel tutto vivente della letteratura il romanzo entra in modo del tutto diverso). Il romanzo, come abbiamo già detto, convive male con gli altri generi letterari. Non si può neppure parlare di un'armonia sulla base della reciproca limitazione e del reciproco complemento. Il romanzo parodia gli altri generi (proprio in quanto generi), smaschera la convenzionalità delle loro forme e del loro linguaggio, soppianta alcuni generi e ne introduce altri nella sua propria struttura, reinterpretandoli e riqualificandoli. Gli storici della letteratura sono inclini a volte a vedere in questo soltanto una lotta di correnti e scuole letterarie. Tale lotta, naturalmente, c'è, ma essa è un fenomeno marginale e storicamente esiguo. Dietro di essa bisogna saper vedere la più profonda e storica lotta dei generi letterari, il divenire e il crescere dell'ossatura di genere della letteratura. Fenomeni di particolare interesse si osservano nelle epoche in cui il romanzo diventa il genere letterario dominante. Tutta la letteratura allora è presa da un processo di divenire e da una sorta di «criticismo di genere». Ciò ha avuto luogo in alcuni periodi dell'ellenismo, nell'epoca del tardo medioevo e nel Rinascimento, ma in modo particolarmente intenso e vivido a partire dalla metà del XVIII secolo. Nelle epoche di [p. 448] dominio del romanzo quasi tutti gli altri generi letterari si «romanzizzano»: si romanzizza il dramma (ad esempio, il dramma di Ibsen e Hauptmann, e tutto il dramma naturalistico), il poema (ad esempio, il Childe Harold e in particolare il Don Giovanni [Don Juan, an Epic Satir] di Byron), persino la lirica (un esempio netto è la lirica di Heine). Anche i generi che tenacemente conservano la loro vecchia canonicità, acquistano il carattere della stilizzazione. In generale ogni rigorosa fermezza di un genere letterario contro la volontà artistica dell'autore comincia a sapere di stilizzazione, se non di stilizzazione parodica. In presenza del romanzo come genere letterario dominante cominciano a risuonare in modo nuovo le lingue convenzionali degli altri generi canonici rigorosi, in modo diverso da come risuonavano nelle epoche in cui il romanzo non c'era nella grande letteratura. Le stilizzazioni parodiche dei generi e degli stili diretti occupano nel romanzo un posto essenziale. Nell'epoca dell'ascesa creativa del romanzo - e in particolare nei periodi di preparazione di questa ascesa - la letteratura è inondata di parodie e di travestimenti di tutti i generi letterari nobili (proprio dei generi, e non di singoli scrittori e correnti), parodie che preannunziano, accompagnano e abbozzano il romanzo. Ma è caratteristico che il romanzo non permetta ad alcuna sua varietà di stabilizzarsi. Attraverso tutta la storia del romanzo passa, in modo sistematico, la parodia o il travestimento delle varietà dominanti e di moda di questo genere le quali tendono a stereotiparsi: le parodie del romanzo cavalleresco (la prima parodia del romanzo cavalleresco di avventure appartiene al XIII secolo, il Dit d'aventures) del romanzo barocco, del romanzo pastorale (Il pastore stravagante [Le Berger extravagant] di Sorel), del romanzo sentimentale (in Fielding, il Grandison Secondo [Grandison der Zweite] di Musäus), ecc. Questa autocriticità è la singolare caratteristica del romanzo come genere letterario in divenire. In che cosa si esprime la romanzizzazione, soprarilevata, degli altri generi letterari? Essi diventano più liberi e più plastici, il loro linguaggio si rinnova grazie alla differenziazione interna della lingua extraletteraria e grazie agli strati «romanzeschi» della lingua letteraria, si dialogizzano, in essi penetrano ampiamente il riso, l'ironia, lo humour, elementi di autoparodia e infine - ed è questa la cosa più importante - il [p. 449] romanzo porta in essi la problematicità, la specifica incompiutezza semantica e il vivo contatto con l'età contemporanea incompiuta e diveniente (col presente aperto). Tutti questi fenomeni, come vedremo, si spiegano con la trasposizione dei generi letterari in una nuova zona particolare di costruzione delle immagini artistiche (la zona di contatto col presente nella sua apertura), zona per la prima volta conquistata dal romanzo. Certo, il fenomeno della romanzizzazione non può essere spiegato soltanto con l'influsso immediato e diretto del romanzo. Anche là dove questo influsso può essere stabilito e mostrato con sicurezza, esso si intreccia indissolubilmente con l'azione immediata di quei mutamenti nella realtà che determinano anche il romanzo e che hanno condizionato il dominio del romanzo nella data epoca. Il romanzo è l'unico genere letterario in divenire e quindi esso riflette il divenire della stessa realtà in modo più profondo, essenziale, sensibile e rapido. Solo chi diviene può capire il divenire. Il romanzo è diventato il protagonista del dramma dello sviluppo letterario dell'età moderna proprio perché esso esprime meglio di tutti le tendenze del divenire del mondo moderno: è infatti l'unico genere letterario procreato dal mondo moderno e gli è in tutto e per tutto consunstanziale. Il romanzo sotto molti aspetti ha anticipato e anticipa il futuro sviluppo di tutta la letteratura. Perciò, conquistato il predominio, favorisce il rinnovamento di tutti gli altri generi letterari e li contagia di divenire e di apertura. Esso li attrae imperiosamente nella propria orbita proprio perché questa orbita coincide con la tendenza principale di sviluppo di tutta la letteratura. Sta qui la straordinaria importanza del romanzo anche come oggetto di studio per la teoria e la storia della letteratura. Gli storici della letteratura, purtroppo, di solito riducono questa lotta del romanzo con gli altri generi compiuti e tutti i fenomeni della romanzizzazione alla vita e alla lotta di scuole e correnti. Chiamano, ad esempio, il poema romanzizzato «poema romantico» (ed è giusto) e pensano di aver così detto tutto. Dietro la superficie variopinta e rumorosa del processo letterario non vedono i grandi ed essenziali destini della letteratura e del linguaggio, i cui protagonisti sono prima di tutto i generi, mentre le correnti e le scuole sono personaggi di secondo o di terzo ordine. La teoria della letteratura manifesta, nei riguardi del romanzo, la sua totale impotenza. Con gli altri generi letterari essa lavora in modo sicuro e preciso, poiché si tratta di un oggetto definito e compiuto, netto e chiaro. In tutte le epoche classiche del suo sviluppo questi generi conservano la loro stabilità e canonicità; le loro variazioni secondo le epoche, le correnti e le scuole sono marginali e non toccano la loro consolidata ossatura di genere. Tutto sommato, la teoria di questi generi letterari compiuti finora non ha potuto aggiungere quasi nulla di essenziale a ciò che era stato fatto da Aristotele. La sua poetica resta il fondamento incrollabile della teoria dei generi (anche se a volte egli si trova a tale profondità che è difficile accorgersene). Tutto va bene finché non si tocca il romanzo. Ma già i generi romanzizzati mettono la teoria in un vicolo cieco. Col problema del romanzo la teoria dei generi letterari si trova di fronte alla necessità di una ristrutturazione radicale. Grazie al paziente lavoro degli studiosi si è accumulato un materiale storico enorme e si è illuminata una serie di questioni legate all'origine di singole varietà di romanzo, ma il problema del genere nel suo complesso non ha trovato una soddisfacente soluzione di principio. Si continua a considerarlo come un genere tra gli altri generi, si cerca di stabilirne la differenza, come genere letterario compiuto, dagli altri generi letterari compiuti, si cerca di scoprirne il canone interno come sistema determinato di caratteristiche di genere stabili e solide. I lavori sul romanzo si riducono, nella stragrande maggioranza dei casi, alla registrazione e alla descrizione più complete possibili delle varietà romanzesche, ma come risultato di queste descrizioni non si riesce mai a dare una formula comprensiva per il romanzo come genere. Anzi, i ricercatori non riescono a indicare neppure una caratteristica determinata e sicura del romanzo senza fare una qualche riserva che annulli interamente questa caratteristica in quanto si riferisce al romanzo come genere letterario. Ecco degli esempi di queste caratteristiche «con riserva»: il romanzo è un genere a più piani, anche se esistono splendidi romanzi a un solo piano; il romanzo è un genere basato sull'intreccio intenso e sulla dinamicità, anche se esistono romanzi che raggiungono una descrittività pura, estrema per la letteratura; il romanzo è un genere problematico, anche se la [p. 451] produzione romanzesca di massa è un modello, inaccessibile a ogni altro genere, di letteratura avvincente e spensierata; il romanzo è una storia d'amore, anche se i massimi esempi di romanzo europeo sono del tutto privi dell'elemento amoroso; il romanzo è un genere prosastico, anche se esistono splendidi romanzi in versi. L'elenco di simili «caratteristiche di genere» del romanzo, distrutte da una riserva coscienziosamente aggiunta, potrebbe naturalmente allungarsi. Molto più interessanti e coerenti sono le definizioni normative del romanzo date dai romanzieri stessi, i quali avanzano una determinata variante di romanzo e la dichiarano l'unica sua forma giusta, necessaria e attuale. Tale, ad esempio, è la nota prefazione di Rousseau alla Novella Eloisa, la prefazione di Wieland a Agatone e di Wezel a Tobia Knaut; tali sono le numerose dichiarazioni dei romantici intorno a Wilhelm Meister e a Lucinda, ecc. Queste dichiarazioni, che non cercano di abbracciare tutte le varietà del romanzo in una definizione eclettica, partecipano però al vivente divenire del romanzo come genere. Esse spesso riflettono in modo profondo e fedele la lotta del romanzo con gli altri generi e con se stesso (sotto forma di altre varianti dominanti e di moda del romanzo) in una determinata fase del suo sviluppo. Esse si avvicinano di più alla comprensione della posizione particolare del romanzo nella letteratura, posizione che non è commensurabile con quella degli altri generi. Particolare significato in questo senso ha una serie di enunciazioni che accompagnano la creazione del nuovo tipo di romanzo nel XVIII secolo. Questa serie si apre con i ragionamenti di Fielding sul romanzo e il suo eroe nel Tom Jones. Continua con la prefazione di Wieland all'Agatone e col suo anello più essenziale, il Saggio sul romanzo di Blanckenburg. E si compie, in sostanza, con la teoria del romanzo data più tardi da Hegel. Di tutte queste enunciazioni, che riflettono il divenire del romanzo in una sua fase essenziale (Tom Jones, Agatone, Wilhelm Meister), sono caratteristiche le seguenti richieste poste al romanzo: 1) il romanzo non deve essere «poetico» nel senso in cui lo sono gli altri generi letterari; 2) il protagonista del romanzo non deve essere «eroico» né nel senso epico né nel senso tragico di questa parola: esso deve unire in sé aspetti positivi e negativi, bassi e alti, comici e seri; 3) il protagonista deve essere mostrato non come [p. 452] compiuto e immutabile, ma come diveniente, mutante, educato dalla vita; 4) il romanzo deve diventare per il mondo moderno ciò che l'epopea era per il mondo antico (questa idea fu espressa in tutta la chiarezza da Blanckenburg e poi ripetuta da Hegel). Tutte queste affermazioni-richieste hanno un aspetto assai essenziale e produttivo: la critica, dal punto di vista del romanzo, degli altri generi letterari e del loro rapporto con la realtà, la critica cioè della loro enfatica e banale eroicizzazione, del loro carattere convenzionale, della loro poeticità angusta e inanimata, della loro monotonia e astrattezza, della compiutezza e immutabilità dei loro protagonisti. Qui, in fondo, si fa una critica di principio della letterarietà e poeticità proprie degli altri generi letterari e delle precedenti varietà di romanzo (il romanzo eroico barocco e il romanzo sentimentale di Richardson). Queste enunciazioni sono convalidate in notevole misura anche dalla pratica di questi romanzieri. Qui il romanzo - sia la sua pratica sia la sua teoria a questa legata - si presenta in modo esplicito e cosciente come un genere letterario critico e autocritico, che deve rinnovare le basi stesse della letterarietà e poeticità dominante. Il confronto del romanzo con l'epos (e la loro contrapposizione) è, da un lato, un momento nella critica degli altri generi letterari (in particolare, dello stesso tipo della eroicizzazione epica) e, dall'altro, ha lo scopo di elevare il significato del romanzo come genere dominante della nuova letteratura. Le affermazioni-richieste da noi citate sono una vetta del processo di autocoscienza del romanzo. Non sono, evidentemente, una teoria del romanzo. Esse non si distinguono neppure per una grande profondità filosofica. Eppure esse sulla natura del romanzo come genere letterario non dicono di meno, se non di più delle esistenti teorie del romanzo. In seguito faccio un tentativo di trattare il romanzo appunto come genere letterario in divenire, che avanza alla testa del processo di sviluppo di tutta la letteratura dell'età moderna. Non costruisco una definizione del canone, agente nella letteratura (nella sua storia), del romanzo come sistema di stabili caratteristiche di genere. Ma cerco di sondare le peculiarità strutturali di fondo di questo che è il più plastico dei generi letterari, peculiarità che determinano la direzione [p. 453] della sua propria mutevolezza e la direzione del suo influsso e della sua azione sulla restante letteratura. Trovo tre peculiarità di fondo che differenziano in via di principio il romanzo da tutti gli altri generi letterari: 1) la tridimensionalità stilistica del romanzo, legata alla coscienza plurilinguistica che si realizza in esso; 2) il mutamento radicale delle coordinate temporali del personaggio letterario nel romanzo; 3) la nuova zona di costruzione del personaggio letterario nel romanzo, zona che è appunto quella del massimo contatto col presente (l'età contemporanea) nella sua incompiutezza. Tutte queste tre peculiarità del romanzo sono organicamente legate tra loro, e tutte sono determinate da un preciso momento di rottura nella storia dell'umanità europea: la sua uscita da una condizione semipatriarcale socialmente isolata e chiusa e il passaggio a nuovi legami e rapporti internazionali e interlinguistici. Per l'umanità europea si aprì, e diventò un fattore determinante della sua vita e del suo pensiero, la molteplicità delle lingue, delle culture e dei tempi. La prima peculiarità stilistica del romanzo, peculiarità legata all'attivo plurilinguismo del mondo, della cultura e della coscienza letteraria moderni è stata da me considerata in un'altra mia comunicazione (1). Mi limito a ricordare succintamente l'essenziale. Il plurilinguismo ha avuto luogo sempre (esso è più antico del monolinguismo canonico e puro), ma non era un fattore creativo, e la scelta artistica intenzionale non era il centro creativo del processo linguistico-letterario. Il greco classico sentiva e le «lingue» e le epoche della lingua, i molteplici dialetti letterari greci (la tragedia è un genere letterario plurilinguistico), ma la coscienza creativa si realizzava in lingue pure chiuse (anche se di fatto eterogenee). Il plurilinguismo era regolato e canonizzato tra i generi letterari. La nuova coscienza culturale e letteraria vive in un mondo attivamente plurilinguistico. Il mondo è diventato tale una volta per sempre e irreversibilmente. E' finito il periodo della coesistenza isolata e chiusa delle lingue nazionali. Le [p. 454] lingue si illuminano reciprocamente: una lingua può vedersi soltanto alla luce di un'altra lingua. E' finita anche la coesistenza ingenua e consolidata delle «lingue» all'interno di una data lingua nazionale, cioè la coesistenza dei dialetti territoriali, dei dialetti e dei gerghi sociali e professionali, della lingua letteraria, delle lingue dei generi letterari all'interno della lingua letteraria, delle epoche della lingua, ecc. Tutto ciò si è messo in movimento ed è entrato in un processo di attiva azione e illuminazione reciproca. La parola, la lingua sono ormai sentite in modo diverso e oggettivamente hanno smesso di essere quello che erano. In questa reciproca illuminazione interna ed esterna delle lingue ogni data lingua, anche quando resti assolutamente immutata la sua composizione linguistica (fonetica, lessico, morfologia, ecc.), è come se nascesse di nuovo e diventa qualitativamente diversa per la coscienza che con essa crea. In questo mondo attivamente plurilinguistico tra la lingua e il suo oggetto, cioè il mondo reale, si stabiliscono rapporti del tutto nuovi, gravidi di enormi conseguenze per tutti i generi letterari compiuti, che si sono formati nelle epoche del monolinguismo isolato e chiuso. A differenza degli altri grandi generi letterari il romanzo si è formato ed è cresciuto proprio quando si attivizzava acutamente il plurilinguismo esterno e interno, che del romanzo è il naturale elemento. E' per questo che il romanzo si è potuto mettere alla testa del processo di sviluppo e di rinnovamento della letteratura in senso linguistico e stilistico. Nella relazione già ricordata ho cercato di illuminare la profonda originalità stilistica del romanzo, determinata dal suo legame con il plurilinguismo. Passo alle due altre peculiarità che riguardano ormai i momenti tematici della struttura del genere romanzesco. Queste peculiarità si manifestano e si chiariscono nel modo migliore mediante un confronto del romanzo con l'epopea. Dal punto di vista del nostro problema l'epopea come genere letterario determinato è caratterizzata da tre aspetti costitutivi: 1) oggetto dell'epopea è il passato epico nazionale, il «passato assoluto», secondo la terminologia di Goethe e di Schiller; 2) fonte dell'epopea è la tradizione nazionale (e non l'esperienza individuale e la libera invenzione che ne deriva); 3) il mondo epico è separato dal presente, cioè dal tempo del [p. 455] cantore (dell'autore e dei suoi ascoltatori), da una distanza epica assoluta. Soffermiamoci in modo più particolareggiato su ognuno di questi aspetti costitutivi dell'epopea. Il mondo dell'epopea è il passato eroico nazionale, il mondo degli «inizi» e delle «vette» della storia nazionale, il mondo dei padri e dei progenitori, il mondo dei «primi» e dei «migliori». Il fatto non è che questo passato costituisca il contenuto dell'epopea. La collocazione del mondo raffigurato nel passato, la sua appartenenza al passato è un aspetto formale costitutivo dell'epopea come genere letterario. L'epopea non è stata mai un poema sul presente, sul proprio tempo (diventando solo per i posteri un poema sul passato). L'epopea, come determinato genere letterario a noi noto, è stata fin dal principio poema sul passato, e l'atteggiamento dell'autore (cioè di chi pronuncia la parola epica), immanente all'epopea e costitutivo per essa, è quello di un uomo che parla di un passato per lui inaccessibile, l'atteggiamento pieno di venerazione di un postero. La parola epica per il suo stile, per il tono e il carattere del suo sistema d'immagini è infinitamente lontana dalla parola di un contemporaneo che parli a un contemporaneo, rivolgendosi a contemporanei («Onegin, mio buon amico, nacque sulle rive della Neva, dove forse sei nato tu, o hai brillato, mio lettore...») Sia il cantore sia l'ascoltatore, immanenti all'epopea come genere letterario, si trovano in uno stesso tempo e a uno stesso livello assiologico (gerarchico), mentre il mondo raffigurato degli eroi è a un livello assiologico- temporale completamente diverso e inaccessibile, separato dalla distanza epica. Tra essi fa da mediatore la tradizione nazionale. Raffigurare l'evento a un livello assiologico-temporale identico al proprio e a quello dei propri contemporanei (e quindi anche sulla base dell'esperienza e dell'invenzione personale) significa compiere un rivolgimento radicale e passare dal mondo epico in quello romanzesco. Certo, anche il «mio tempo» può essere percepito come tempo epico eroico, dal punto di vista del suo significato storico, in modo distanziato, come da una lontananza dei tempi (non a partire da me stesso, contemporaneo, ma alla luce del futuro), mentre il passato può essere percepito familiarmente (come il mio passato). Ma così noi percepiamo non il [p. 456] presente nel presente e non il passato nel passato; noi ci togliamo dal «mio tempo», dalla zona del suo contatto familiare con me. Noi parliamo dell'epopea come di un genere letterario reale giunto fino a noi. Lo troviamo già completamente pronto, persino cristallizzato e quasi necrotizzato. La sua perfezione, coerenza e assoluta iningenuità artistica dicono che si tratta di un genere letterario vecchio, con un lungo passato. Ma su questo passato possiamo solo fare delle congetture, ed è necessario dire esplicitamente che le nostre congetture al proposito per ora sono assai infide. Le ipotetiche canzoni originarie, che hanno preceduto la formazione delle epopee e la creazione della tradizione epica come genere letterario e che erano canzoni sui contemporanei e costituivano un'eco immediata a eventi appena compiuti, queste ipotetiche canzoni non ci sono note. Sulla natura di queste originarie canzoni degli aedi o cantilene possiamo fare congetture soltanto. E non abbiamo alcuna ragione di credere che esse fossero più simili ai più tardi canti epici (a noi noti) che, ad esempio, al nostro corsivo di attualità o a stornelli sui temi del giorno. Le canzoni epiche eroicizzanti sui contemporanei, a noi accessibili e del tutto reali, sono nate dopo la formazione delle epopee, sul terreno ormai dell'antica e possente tradizione epica. Esse trasferiscono sugli avvenimenti e sui personaggi contemporanei la forma epica già pronta, cioè trasferiscono su di essi la forma assiologico-temporale del passato, li associano al mondo dei padri, degli inizi e delle vette ed è come se li canonizzassero in vita. Nell'ordinamento patriarcale i rappresentanti dei gruppi dominanti in un certo senso appartengono come tali al mondo dei «padri» e sono separati dagli altri da una distanza quasi «epica». L'associamento epico dell'eroe contemporaneo al mondo degli antenati e degli iniziatori è un fenomeno specifico, cresciuto sul terreno di una tradizione epica da tempo pronta e quindi tanto poco atta a spiegare l'origine dell'epopea quanto, ad esempio, l'ode neoclassica. Quale ne sia l'origine, l'epopea reale giunta sino a noi è una forma di genere assolutamente compiuta e assai perfetta, il cui elemento costitutivo è il riporto del mondo da essa raffigurato nel passato assoluto degli inizi e delle vette nazionali. Il passato assoluto è una specifica categoria assiologica (gerarchica). [p. 457] Per la concezione epica del mondo «inizio», «primo», «fondatore», «antenato», «precedente», ecc. sono categorie non puramente temporali, ma assiologico-temporali, sono cioè un superlativo assiologico-temporale che si realizza sia nei riguardi degli uomini sia nei riguardi di tutte le cose e gli eventi del mondo epico: in questo passato tutto è bene, e tutto ciò che è sostanzialmente buono (il «primo») è soltanto in questo passato. Il passato epico assoluto è l'unica fonte e principio di tutto il bene anche per i tempi successivi. Così afferma la forma dell'epopea. La memoria e non la conoscenza è la facoltà e la forza creativa fondamentale della letteratura antica. Così è stato, e non si può mutare la cosa; la tradizione riguardante il passato è sacra. Non c'è ancora la coscienza della relatività di ogni passato. L'esperienza, la conoscenza e la pratica (il futuro) determinano il romanzo. Nell'epoca ellenistica nasce il contatto con gli eroi del ciclo epico troiano; l'epos si trasforma in romanzo. Il materiale epico è trasposto in quello romanzesco, nella zona del contatto, passando attraverso la fase della familiarizzazione e del riso. Quando il romanzo diventa il genere letterario dominante, la disciplina filosofica dominante diventa la teoria della conoscenza. Il passato epico non a caso è chiamato «passato assoluto»: esso, come contemporaneamente anche il passato assiologico (gerarchico), è privo di ogni relatività, cioè è privo di graduali passaggi puramente temporali che lo leghino al presente. Un confine assoluto lo delimita da tutti i tempi successivi, e prima di tutto dal tempo in cui si trovano il cantore e i suoi ascoltatori. Questo confine, quindi, è immanente alla forma stessa dell'epopea ed è sentito e risuona in ogni parola. Distruggere questo confine significa distruggere la forma dell'epopea come genere letterario. Ma proprio perché è separato da tutti i tempi successivi, il passato epico è assoluto e perfetto. Esso è chiuso come un cerchio e in esso tutto è terminato e compiuto interamente. Nel mondo epico non c'è posto per alcuna incompiutezza, apertura, problematicità. Non vi è lasciata alcuna scappatoia verso il futuro; è autosufficiente e non richiede né presuppone alcuna continuazione. Le definizioni temporali e assiologiche sono qui fuse in un unico tutto inscindibile (come lo sono anche negli antichi strati semantici del linguaggio). Tutto ciò che è associato a questo passato è associato ipso facto all'autentica essenzialità e significatività, ma insieme acquista compiutezza e finitezza e si priva, per così dire, di ogni diritto e possibilità di reale continuazione. La compiutezza e la chiusura assolute sono il singolare aspetto del passato epico assiologico-temporale. Passiamo alla tradizione. Il passato epico, che un confine invalicabile delimita dai tempi successivi, si conserva e si manifesta soltanto sotto forma di tradizione nazionale. L'epopea si appoggia soltanto su questa tradizione. Il fatto non è che la fonte concreta dell'epopea sia la tradizione: importante è che l'appoggio sulla tradizione sia immanente alla forma dell'epopea come è immanente il passato assoluto. La parola epica è parola fondata sulla tradizione. Il mondo epico del passato assoluto per sua natura è inaccessibile all'esperienza personale e non ammette un punto di vista e una valutazione personali. Non lo si può vedere, palpare, toccare, non lo si può guardare da qualsiasi punto di vista, non lo si può provare, analizzare, scomporre, penetrare. Esso è dato soltanto come tradizione, sacra e incontestabile, che comporta una valutazione universale ed esige per sé un atteggiamento rispettoso. Ripetiamo e sottolineiamo: non si tratta delle fonti concrete dell'epopea, né dei suoi momenti di contenuto, né delle dichiarazioni dei suoi autori, ma si tratta del suo aspetto formale (più esattamente, contenutistico- formale) costitutivo del genere dell'epopea: l'appoggio sulla tradizione impersonale incontestabile, l'universalità della valutazione e del punto di vista che esclude ogni possibilità di un diverso modo di vedere, il profondo rispetto per l'oggetto della raffigurazione e per la stessa parola detta su di esso in quanto parola della tradizione. Il passato assoluto, come oggetto dell'epopea, e la tradizione incontestabile, come sua unica fonte, determinano anche il carattere della distanza epica, cioè il terzo aspetto costitutivo dell'epopea come genere letterario. Il passato epico, come abbiamo detto, è chiuso in sé e delimitato da una barriera insuperabile dai tempi successivi e prima di tutto dal presente, che eternamente dura, dei figli e dei posteri, nel quale si trovano il cantore e gli ascoltatori dell'epopea, si compie l'evento della loro vita e si attua il racconto epico. D'altro lato, la tradizione delimita il mondo dell'epopea [p. 459] dall'esperienza personale, da ogni nuovo riconoscimento, da ogni iniziativa personale per comprenderlo e interpretarlo, da nuovi punti di vista e valutazioni. Il mondo epico è compiuto totalmente non solo come evento reale di un passato lontano, ma anche nel suo senso e nel suo valore: non lo si può mutare, né reinterpretare, né rivalutare. E' pronto, compiuto e immutabile e come fatto reale e come senso e come valore. E' questo a determinare l'assoluta distanza epica. Il mondo epico può solo essere accolto con venerazione, ma non lo si può toccare, ed è fuori della sfera dell'umana attività che trasforma e reinterpreta. Questa distanza esiste non soltanto rispetto al materiale epico, cioè agli eventi e agli eroi raffigurati, ma anche rispetto al punto di vista da cui essi sono considerati e alle valutazioni che ne sono date; il punto di vista e la valutazione si sono saldati con l'oggetto in un tutto inscindibile: la parola epica è inseparabile dal suo oggetto poiché della sua semantica è caratteristica l'assoluta saldatura dei momenti oggettuali e spazio-temporali con quelli assiologici (gerarchici). Questa assoluta saldatura e la conseguente illibertà dell'oggetto hanno potuto essere superate soltanto nelle condizioni di un attivo plurilinguismo e di una reciproca illuminazione delle lingue (allora l'epopea divenne un genere letterario semiconvenzionale e semimorto). Grazie alla distanza epica, che esclude ogni possibilità di attività e mutamento, il mondo epico acquista la sua straordinaria compiutezza non solo dal punto di vista del contenuto, ma anche da quello del suo senso e valore. Il mondo epico si costruisce nella zona dell'immagine assoluta di lontananza fuori della sfera di un possibile contatto col presente che diviene, è incompiuto e quindi reinterpreta e rivaluta. I tre aspetti costitutivi dell'epopea da noi caratterizzati, in maggiore o minor misura sono intrinseci anche agli altri generi letterari alti dell'antichità e del medioevo. Alla base di tutti questi compiuti generi letterari alti c'è la stessa valutazione dei tempi, la stessa funzione della tradizione, un'analoga distanza gerarchica. Per nessun genere letterario alto la realtà contemporanea come tale è oggetto ammissibile di raffigurazione. La realtà contemporanea può entrare nei generi letterari alti soltanto ai suoi strati gerarchicamente superiori, già distanziati dalla loro posizione nella stessa realtà. Ma, entrando nei generi letterari alti (ad esempio, nelle odi di [p. 460] Pindaro, in Simonide), gli avvenimenti, i vincitori e gli eroi dell'età contemporanea «alta» sono come associati al passato, sono intrecciati attraverso vari anelli e legami di mediazione nel tessuto unitario del passato e della tradizione eroica. Essi ricevono la propria altezza e il proprio valore attraverso questa associazione al passato come fonte di ogni autentica essenzialità e validità. Essi, per così dire, sono tolti dall'età contemporanea con la sua incompiutezza, inconclusione, apertura, con la sua possibilità di reinterpretazioni e rivalutazioni. Sono elevati al livello assiologico del passato e acquistano in esso la loro compiutezza. Non si può dimenticare che il «passato assoluto» non è il tempo nel nostro senso limitato e esatto della parola, ma è una categoria gerarchica assiologico- temporale. Non si può essere grandi nel proprio tempo, la grandezza fa sempre appello ai posteri per i quali essa diventa passato (si troverà in un'immagine di lontananza), diventa oggetto di memoria e non oggetto di viva visione e contatto. Nel genere letterario del «monumento» il poeta costruisce la propria immagine sul futuro piano di lontananza dei posteri (cfr. le iscrizioni dei despoti orientali e le iscrizioni di Augusto). Nel mondo della memoria il fenomeno si trova in un contesto particolarissimo, in un sistema regolato da leggi del tutto particolari rispetto al mondo della visione viva e del contatto pratico e familiare. Il passato epico è una forma particolare di percezione artistica dell'uomo e dell'evento. Forma che copriva quasi del tutto la percezione e la raffigurazione artistica in generale. La raffigurazione artistica è raffigurazione sub specie aeternitatis. Si può e si deve raffigurare e eternare con la parola artistica soltanto ciò che è degno di essere ricordato, che deve essere conservato nella memoria dei posteri; per i posteri si crea un'immagine, e nell'anticipabile piano di lontananza dei posteri questa immagine si forma. L'età contemporanea per l'età contemporanea (l'età che non pretende la memoria) è registrata nella creta, l'età contemporanea per il futuro (per i posteri) è registrata nel marmo e nel bronzo. E' importante la correlazione dei tempi: l'accento assiologico non cade sul futuro, non si serve il futuro, non di fronte al futuro esistono i meriti (essi sono di fronte all'eternità extratemporale), ma si serve la memoria futura del passato, [p. 461] si serve l'ampliamento del mondo del passato assoluto, il suo arricchimento con nuove immagini (a spese dell'età contemporanea), di un mondo che si contrappone sempre per principio a ogni passato transeunte. Nei compiuti generi letterari alti conserva il suo significato anche la tradizione, benché la sua funzione nella creazione personale aperta diventi più convenzionale che nell'epopea. In complesso, il mondo della grande letteratura dell'epoca classica è proiettato nel passato, nel piano di lontananza della memoria, ma non nel reale passato relativo, legato al presente da ininterrotti passaggi temporali, sibbene nel passato assiologico degli inizi e delle vette. Questo passato è distanziato, compiuto e chiuso come un cerchio. Il che non significa, naturalmente, che in esso non vi sia alcun movimento. Al contrario, le categorie temporali relative, al suo interno, sono elaborate in modo ricco e sottile (le sfumature del «prima», del «poi», della successione dei momenti, della rapidità, della durata, ecc.); si ha un'alta tecnica di rappresentazione artistica del tempo. Ma tutti i punti di questo tempo compiuto e chiuso in un cerchio sono ugualmente lontani dal tempo reale e dinamico dell'età contemporanea; esso nel suo complesso non è localizzato in un processo storico reale, non è in correlazione col presente e col futuro, e, per così dire, contiene in se stesso tutta la pienezza dei tempi. Insomma, tutti i generi letterari alti dell'epoca classica, cioè tutta la grande letteratura, si costruiscono nella zona dell'immagine di lontananza fuori di ogni possibile contatto col presente nella sua incompiutezza. La realtà contemporanea come tale, cioè la realtà che conserva il suo vivo volto contemporaneo, non poteva, come già abbiamo detto, diventare oggetto di raffigurazione dei generi letterari alti. La realtà contemporanea era una realtà di livello «inferiore» rispetto al passato epico. Meno di tutto essa poteva servire da punto di partenza della interpretazione e valutazione artistica. Il punto focale di questa interpretazione e valutazione poteva trovarsi solo nel passato assoluto. Il presente è qualcosa di transeunte, un fluire, un'eterna continuazione senza principio e senza fine; è privo di vera compiutezza e, quindi, di essenza. Il futuro era pensato o come una continuazione sostanzialmente indifferente del presente o come una fine, una morte finale, una catastrofe. Le categorie assiologico- temporali dell'inizio assoluto e della fine assoluta hanno un significato esclusivo nella percezione del tempo e nelle ideologie dei tempi passati. L'inizio è idealizzato, la fine è incupita (la catastrofe, il «crepuscolo degli dèi»). Questa percezione del tempo e la gerarchia dei tempi da essa determinata compenetrano tutti i generi letterari alti dell'antichità e del medioevo. Sono penetrati così a fondo nelle fondamenta stesse dei generi letterari che continuano a vivere in essi anche nelle epoche successive, fino al XIX secolo e persino oltre. L'idealizzazione del passato nei generi letterari alti ha un carattere ufficiale. Tutte le espressioni esterne della forza e della verità dominanti (di tutto ciò che è compiuto) sono organizzate entro la categoria assiologico-gerarchica del passato, nell'immagine di lontananza (dal gesto e dalla veste allo stile, tutto è simbolo del potere). Il romanzo, invece, è legato all'elemento eternamente vivo della parola non ufficiale e del pensiero non ufficiale (la forma festosa, il discorso familiare, la profanazione). I morti sono amati in un altro modo, essi sono tolti dalla sfera del contatto, di loro si può e si deve parlare in un altro stile. La parola pronunciata su un morto è stilisticamente molto diversa dalla parola pronunciata su un vivo. Nei generi letterari alti ogni potere e privilegio, ogni gravità e altezza escono dalla zona del contatto familiare per entrare nel piano di lontananza (la veste, l'etichetta, lo stile del discorso dell'eroe e lo stile del discorso su di lui). Nell'orientarsi verso la compiutezza si manifesta la classicità di tutti i generi letterari non romanzeschi. La realtà contemporanea, il «basso» presente fluente e transeunte, questa «vita senza inizio e senza fine» è stata oggetto di raffigurazione soltanto nei generi letterari bassi. Ma prima di tutto essa era oggetto principale di raffigurazione nella sfera vastissima e ricchissima della creazione comica popolare. In un'altra mia relazione (2) ho cercato di mostrare l'enorme significato che questa sfera ha - sia nel mondo antico sia nel medioevo - per la nascita e la formazione della parola romanzesca. E' proprio qui - nel riso popolare - che vanno [p. 463] cercate le vere radici folcloriche del romanzo. Il presente, l'età contemporanea come tale, l'«io in persona» e i «miei contemporanei» e il «mio tempo» erano in origine oggetto di riso ambivalente, allegro e distruttivo simultaneamente. Proprio qui si va formando un atteggiamento radicalmente nuovo verso la lingua, verso la parola. Accanto alla raffigurazione diretta - derisione della viva età contemporanea - qui fioriscono la parodia e il travestimento di tutti i generi letterari alti e le immagini alte del mito nazionale. Il «passato assoluto» degli dèi, dei semidèi e degli eroi qui - nelle parodie e in particolare nei travestimenti - si «contemporaneizza»: è abbassato, raffigurato al livello dell'età contemporanea, nell'ambiente quotidiano di questa, nel suo linguaggio basso. Da questo elemento del riso popolare sul terreno classico cresce direttamente una sfera alquanto vasta e varia di letteratura che gli antichi chiamavano in modo espressivo «spondogëloion», cioè la sfera del «serio-comico». Ne facevano parte i mimi, con intreccio rudimentale, di Sofrone, tutta la poesia bucolica, la favola, la prima memorialistica (56(2)epidûmïai di Ione di Chio, 56(2)homilïai di Crizia), i pamphlets; gli antichi vi facevano rientrare anche i «dialoghi socratici» (come genere letterario), e vi rientrano poi la satira romana (Lucilio, Orazio, Persio, Giovenale), la vasta letteratura dei «simposi» e, infine, la satira menippea (come genere letterario) e i dialoghi del tipo di quelli di Luciano. Tutti questi generi letterari, compresi dal concetto del «serio-comico», sono i veri predecessori del romanzo; anzi alcuni di essi sono generi di tipo puramente romanzesco, che contengono in germe, e a volte in forma sviluppata, gli elementi principali delle più importanti varietà successive del romanzo europeo. Il vero spirito del romanzo come genere letterario in divenire vi è presente in un grado infinitamente maggiore che nei cosiddetti «romanzi greci» (l'unico genere letterario antico insignito di questo nome). Il romanzo greco ha esercitato un forte influsso sul romanzo europeo proprio nell'epoca barocca, cioè proprio quando cominciò l'elaborazione della teoria del romanzo (l'abate Huet) e si precisava e si imponeva il termine stesso di «romanzo». Perciò tra tutte le opere romanzesche dell'antichità esso si è attaccato solo al romanzo greco. Invece i generi letterari serio-comici da noi enumerati, benché [p. 464] privi della solida ossatura di composizione e di intreccio che noi siamo abituati a esigere dal genere romanzesco, anticipano i più essenziali momenti dello sviluppo del romanzo moderno. Questo riguarda soprattutto i dialoghi socratici che, parafrasando Friedrich Schlegel, possono essere chiamati «romanzi di quel tempo», e poi la satira menippea (compreso il Satyricon di Petronio), la cui funzione nella storia del romanzo è enorme e non ancora abbastanza valutata dagli studiosi. Tutti questi generi serio-comici sono stati la prima ed essenziale tappa dello sviluppo del romanzo come genere letterario in divenire. In che cosa consiste lo spirito romanzesco di questi generi letterari serio-comici? Su che cosa si fonda il loro significato come prima tappa del divenire del romanzo? Loro oggetto e, cosa ancora più importante, loro punto iniziale di comprensione, valutazione e organizzazione è la realtà contemporanea. Per la prima volta l'oggetto della raffigurazione letteraria seria (anche se nello stesso tempo comica) è dato senza alcuna distanza, al livello dell'età contemporanea, in una zona di immediato e brutale contatto. Persino là dove da oggetto di raffigurazione di questi generi serve il passato e il mito, la distanza epica manca, poiché il punto di vista è dato dall'età contemporanea. Un particolare significato in questo processo di distruzione della distanza spetta al principio comico di questi generi, attinto dal folclore (dal riso popolare). E' appunto il riso a distruggere la distanza epica e in generale ogni distanza gerarchica che allontana l'oggetto in senso assiologico. Nell'immagine di lontananza l'oggetto non può essere comico; perché diventi tale è necessario avvicinarlo; tutto ciò che è comico è vicino; tutta la creazione comica lavora in una zona di massimo avvicinamento. Il riso ha la forza straordinaria di avvicinare l'oggetto; esso introduce l'oggetto in una zona di brusco contatto, dove si può familiarmente tastarlo da tutte le parti, capovolgerlo, rivoltarlo, guardarlo dall'alto e dal basso, spezzarne l'involucro esteriore, gettare uno sguardo nel suo interno, dubitarne, scomporlo, smembrarlo, denudarlo e smascherarlo, studiarlo liberamente, sottoporlo a esperimento. Il riso distrugge la paura e il rispetto di fronte all'oggetto, di fronte al mondo, fa di questo l'oggetto di un contatto familiare e così ne prepara [p. 465] l'analisi assolutamente libera. Il riso è un fattore essenzialissimo nella creazione di quel presupposto di impavidità senza il quale è impossibile una cognizione realistica del mondo. Avvicinando e familiarizzando l'oggetto, il riso è come se lo consegnasse nelle mani impavide di una prova analitica - sia scientifica sia artistica - e di una libera invenzione sperimentale che serve ai fini di questa prova. La familiarizzazione comica linguistico-popolare del mondo è una tappa estremamente importante e necessaria nel divenire della libera creazione scientifico-conoscitiva e artistico-realistica dell'umanità europea. Il piano della raffigurazione comica è un piano specifico in senso sia temporale sia spaziale. La funzione della memoria qui è minima; la memoria e la tradizione nel mondo del comico non hanno nulla da fare; si deride per dimenticare. E' la zona del contatto il più familiare e brusco possibile: il riso - le ingiurie - le busse. In sostanza è una detronizzazione, cioè il ritiro dell'oggetto dal suo piano di lontananza, la distruzione della distanza epica, l'assalto e la distruzione del piano di lontananza in generale. In questo piano (il piano del riso) l'oggetto può essere irriverentemente aggirato da tutte le parti; anzi, la schiena e il posteriore dell'oggetto (nonché le viscere che non si debbono mettere in mostra) acquistano in questo piano un significato particolare. L'oggetto è spezzato e denudato (lo spogliano dell'addobbo gerarchico): ridicolo è un oggetto nudo, ridicola è la veste «vuota» tolta e separata dal corpo. Si ha un'operazione comica di smembramento. Il comico è giocato (cioè contemporaneizzato); oggetto del gioco è la simbolica artistica originaria dello spazio e del tempo: l'alto, il basso, il davanti, il di dietro, il prima, il poi, il primo, l'ultimo, il passato, il presente, il breve (l'istantaneo), il lungo, ecc. Domina la logica artistica dell'analisi, dello smembramento, dell'uccisione. Noi disponiamo di un magnifico documento che riflette la nascita simultanea del concetto scientifico e della nuova immagine romanzesca in prosa. I dialoghi socratici. Tutto è caratteristico in questo splendido genere letterario, nato al declino dell'antichità classica. E' caratteristico che esso sorga come apomnemoneumata, cioè come genere letterario di tipo memorialistico, come registrazione di reali conversazioni di [p. 466] contemporanei sulla base della memoria personale (3); è caratteristico, inoltre, che la figura centrale di questo genere letterario sia un uomo che parla e conversa; è caratteristica l'unione nella figura di Socrate, eroe centrale di questo genere letterario, della maschera popolare dello sciocco ottuso, quasi Margite, e dei tratti di un saggio di tipo superiore (nello spirito delle leggende sui sette savi); il risultato di questa unione è la figura ambivalente della dotta ignoranza. E' caratteristica la vanteria ambivalente nel dialogo socratico: io sono più saggio di tutti perché so di non sapere alcunché. Attraverso la figura di Socrate si può osservare il nuovo tipo di eroicizzazione in prosa. Intorno a questa figura sorgono leggende carnevalizzate (ad esempio, il suo rapporto con Santippe); l'eroe si trasforma in un buffone (cfr. la più tarda carnevalizzazione delle leggende intorno a Dante, Pu-skin, ecc.). E' caratteristico, poi, il dialogo raccontato, canonico per questo genere letterario, il dialogo incorniciato dal racconto dialogizzato; è caratteristica la vicinanza, la massima possibile per la Grecia classica, della lingua di questo genere letterario alla lingua popolare colloquiale; è estremamente caratteristico che questi dialoghi abbiano dato inizio alla prosa attica e che fossero legati a un rinnovamento essenziale della lingua della prosa letteraria, a un avvicendarsi di lingue; è caratteristico che questo genere letterario nello stesso tempo sia un sistema piuttosto complesso di stili e persino di dialetti, che entrano in esso come figure di lingue e di stili con diversi gradi di parodicità (abbiamo di fronte, quindi, un genere letterario pluristilistico, come lo è anche il vero romanzo); è caratteristica, poi, la stessa figura di Socrate come splendido esemplare di eroicizzazione prosaico-romanzesca (così diversa da quella epica) e, infine, è profondamente caratteristica, ed è la cosa per noi qui più importante, l'unione tra il riso, l'ironia socratica, tutto il sistema degli svilimenti socratici e l'analisi, seria, alta e per la prima volta libera, del mondo, [p. 467] dell'uomo e del pensiero umano. Il riso socratico (soffocato fino all'ironia) e gli svilimenti socratici (un intero sistema di metafore e similitudini, mutuate dalle sfere basse della vita: mestieri, realtà quotidiana, ecc.) avvicinano e familiarizzano il mondo per analizzarlo in modo impavido e libero. Da punto di partenza serve l'età contemporanea, le persone vive circostanti e le loro opinioni. Di qui, da questa età contemporanea eterogenea e plurivoca, mediante l'esperienza e l'analisi personale, inizia l'orientamento nel mondo e nel tempo (anche nel «passato assoluto» della tradizione). Da punto di partenza esteriore e immediato serve anche un'occasione volutamente fortuita e insignificante (ciò era canonico per questo genere letterario): è come se fosse sottolineato l'oggi e la sua casuale congiuntura (incontro casuale, ecc.). Negli altri generi letterari serio-comici troveremo altri aspetti, sfumature e conseguenze dello stesso spostamento radicale del centro assiologico-temporale di orientamento artistico, dello stesso rivolgimento nella gerarchia dei tempi. Qualche parola sulla satira menippea. Le sue radici folcloriche sono le stesse di quelle del dialogo socratico, al quale essa è legata geneticamente (di solito essa è considerata un prodotto della disgregazione del dialogo socratico). La funzione familiarizzante del riso qui è molto più forte, più netta e più brusca. L'uso libero e disinvolto di bruschi svilimenti e del rovesciamento dei momenti alti del mondo e della concezione del mondo qui possono a volte urtare. Ma all'estrema familiarità comica si uniscono un'acuta problematicità e un utopismo fantastico. Dell'immagine epica di lontananza del passato assoluto non è rimasto nulla; tutto il mondo e tutto ciò che in esso v'è di più sacro sono dati senza alcuna distanza, in una zona di brusco contatto, dove tutto può essere afferrato con le mani. In questo modo totalmente familiarizzato l'intreccio si muove con un'estrema libertà fantastica: dal cielo sulla terra, dalla terra all'inferno, dal presente al passato, dal passato nel futuro. Nelle visioni comiche d'oltretomba della satira menippea gli eroi del «passato assoluto», le personalità delle varie epoche del passato storico (ad esempio, Alessandro il Macedone) e i vivi contemporanei sono messi familiarmente in contatto per conversare e persino per baruffare; è estremamente caratteristico questo incontro di tempi sul piano dell'età contemporanea. Gli intrecci e le situazioni di [p. 468] sfrenata fantasia della satira menippea sono sottomessi a un solo fine: la prova e lo smascheramento delle idee e degli ideologi. Sono intrecci di provocazione sperimentale. E' significativa la comparsa, in questo genere letterario, dell'elemento utopico, anche se incerto e superficiale: l'incompiuto presente incomincia a sentirsi più vicino al futuro che al passato, incomincia a cercare nel futuro i punti di appoggio assiologico, anche se questo futuro per ora è delineato sotto forma di un ritorno dell'età dell'oro di Saturno (sul terreno romano la satira menippea era strettissimamente legata ai saturnali e alla libertà del loro riso). La satira menippea è dialogica, piena di parodie e di travestimenti, pluristilistica, e non teme neppure gli elementi di bilinguismo (in Varrone e in particolare nella Consolazione della filosofia [De consolatione philosophiae] di Boezio). Che la satira menippea possa crescere in un enorme affresco che riflette realisticamente il mondo socialmente molteplice e discordante dell'età contemporanea, è attestato dal Satyricon di Petronio. Per quasi tutti i generi, da noi enumerati, della sfera del «serio- comico» è caratteristica la presenza di un elemento autobiografico e memorialistico intenzionale e aperto. Lo spostamento del centro temporale dell'orientamento artistico, spostamento che pone l'autore e i suoi lettori, da un lato, e i personaggi e il mondo da lui raffigurati, dall'altro, su uno stesso piano assiologico-temporale, su uno stesso livello, che li fa contemporanei, possibili conoscenti e amici e che familiarizza i loro rapporti (ricordo ancora una volta l'inizio manifestamente e accentuatamente romanzesco dell'Onegin), permette all'autore in tutte le sue maschere e sembianze di muoversi liberamente nel campo del mondo raffigurato, campo che nell'epos era assolutamente inaccessibile e chiuso. Il campo della raffigurazione del mondo muta secondo i generi letterari e le epoche di sviluppo della letteratura. Esso è variamente organizzato e in modi diversi limitato nello spazio e nel tempo. Questo campo è sempre specifico. Il romanzo è in contatto con l'elemento dell'incompiuto presente, il che non permette a questo genere letterario di cristallizzarsi. Il romanziere gravita verso tutto ciò che non è ancora compiuto. Egli può apparire nel campo di raffigurazione in qualsiasi posa d'autore, può raffigurare momenti reali [p. 469] della propria vita o alludere ad essi, può polemizzare apertamente coi suoi nemici letterari, ecc. Non si tratta soltanto della comparsa dell'immagine dell'autore nel campo di raffigurazione, ma si tratta del fatto che l'autore vero, formale, primario (l'autore dell'immagine dell'autore) viene a trovarsi in nuovi rapporti reciproci col mondo raffigurato: essi si trovano adesso nelle stesse dimensioni assiologico-temporali, la parola raffigurante dell'autore è sullo stesso piano della parola raffigurata del personaggio e può stabilire con essa (anzi, non può non stabilire) rapporti dialogici e ibride combinazioni. E' proprio questa nuova posizione dell'autore primario, formale nella zona di contatto col mondo raffigurato a rendere possibile la comparsa dell'immagine dell'autore nel campo della raffigurazione. Questo nuovo statuto dell'autore è uno dei risultati più importanti del superamento della distanza epica (gerarchica). Quale enorme significato formale-compositivo e stilistico abbia questo nuovo statuto dell'autore per lo specifico del genere letterario romanzesco è cosa che non ha bisogno di essere spiegata. Consideriamo in questo senso le Anime morte di Gogol'. Come forma della sua epopea Gogol' vagheggiava la Divina commedia e in questa forma credeva di vedere la grandezza del suo lavoro, mentre ciò che gli riusciva era una satira menippea. Egli non poteva uscire dalla sfera del contatto familiare, una volta che era entrato in essa, e non poteva trasferire in questa sfera personaggi positivi distanziati. I personaggi distanziati dell'epopea e i personaggi del contatto familiare non potevano in alcun modo incontrarsi in uno stesso campo di raffigurazione; il patetico irrompeva nel mondo della satira menippea come un corpo estraneo, il patetico positivo diventava astratto e tuttavia esorbitava dall'opera. Passare dall'inferno, con quegli stessi uomini e in quella stessa opera, nel purgatorio e nel paradiso era cosa che non poteva riuscirgli: un passaggio ininterrotto non ci poteva essere. La tragedia di Gogol' è in un certo senso la tragedia del genere letterario (intendendo il genere letterario non in un senso formalistico, ma come zona e campo di percezione e raffigurazione assiologica del mondo). Gogol' perdette la Russia, cioè perdette il piano per la sua percezione e raffigurazione, si smarrì tra la memoria e il contatto familiare (si [p. 470] può dire, grosso modo, che non riuscì a trovare l'opportuno tiraggio del binocolo). Ma l'età contemporanea, come nuovo punto di partenza dell'orientamento artistico, non esclude affatto la raffigurazione del passato eroico, e senza alcun travestimento. Un esempio è la Ciropedia di Senofonte (essa, evidentemente, non entra più nella sfera del serio-comico, ma si trova ai suoi confini). Da oggetto della raffigurazione serve il passato, da protagonista il grande Ciro. Ma punto di partenza della raffigurazione è l'età contemporanea di Senofonte: è questa a dare i punti di vista e i punti di orientamento assiologici. E' caratteristico che il passato eroico scelto non sia quello nazionale, ma quello straniero, barbarico. Il mondo si è ormai aperto; il mondo monolitico e chiuso dei propri (come era nell'epopea) è sostituito dal grande e aperto mondo e dei propri e degli altri. Questa scelta dell'eroicità altrui è determinata da un accentuato interesse, caratteristico dell'età senofontea, per l'Oriente, per la sua cultura, la sua ideologia, le sue forme politico-sociali; dall'Oriente si aspettava la luce. Cominciava già la reciproca illuminazione delle culture, delle ideologie e delle lingue. E' caratteristica, poi, l'idealizzazione del despota orientale: anche qui si fa sentire l'età contemporanea di Senofonte con la sua idea (condivisa da una notevole cerchia di suoi contemporanei) del rinnovamento delle forme politiche greche in uno spirito vicino all'autocrazia orientale. Questa idealizzazione dell'autocrate orientale è profondamente estranea, s'intende, a tutto lo spirito della tradizione nazionale ellenica. E' caratteristica, poi, l'idea, estremamente attuale a quel tempo, dell'educazione dell'uomo; in seguito essa divenne una delle idee dominanti e formanti del moderno romanzo europeo. E' caratteristico, inoltre, il trasferimento, intenzionale e del tutto aperto, dei tratti di Ciro il Giovane, contemporaneo di Senofonte, alla cui spedizione egli partecipò, sulla figura di Ciro il Grande; si sente anche l'influsso della figura di un'altra persona contemporanea e vicina a Senofonte: Socrate; col che si porta nell'opera un elemento memorialistico. E' caratteristica, infine, anche la forma dell'opera: dialoghi incorniciati da un racconto. In tal modo, l'età contemporanea e la sua problematica sono qui il punto di partenza e il centro dell'interpretazione e della valutazione ideologica artistica del passato. Questo passato [p. 471] è dato senza distanza, al livello dell'età contemporanea, anche se nei suoi strati alti e non in quelli bassi, al livello della sua problematica d'avanguardia. Noteremo una certa sfumatura utopistica di quest'opera, il leggero (e incerto) movimento, che vi è riflesso, dell'età contemporanea dal passato verso il futuro. La Ciropedia è un romanzo nel senso sostanziale di questa parola. La raffigurazione del passato nel romanzo non presuppone affatto la modernizzazione di questo passato (in Senofonte ci sono, senza dubbio, elementi di questa modernizzazione). Al contrario, la raffigurazione veramente oggettiva del passato come passato è possibile soltanto nel romanzo. L'età contemporanea con la sua nuova esperienza resta nella forma stessa della visione, nella profondità, nell'acutezza, nella vastità e nella vivacità di questa visione, ma essa non deve affatto penetrare nel contenuto raffigurato come forza che modernizza e deforma l'originalità del passato. Ogni grande e seria età contemporanea, infatti, ha bisogno di un sembiante autentico del passato, dell'autentica lingua estranea di un tempo estraneo. Il rivolgimento, sopra caratterizzato, nella gerarchia dei tempi determina anche il rivolgimento radicale nella struttura dell'immagine artistica. Il presente nel suo, per così dire, «tutto» (anche se esso non è proprio un tutto) è per principio e essenzialmente non compiuto: esso con tutto il suo essere esige una continuazione e va nel futuro, e quanto più attivamente e coscientemente va avanti in questo futuro, tanto più sensibile e sostanziale è la sua incompiutezza. Perciò quando il presente diventa il centro dell'orientamento umano nel tempo e nel mondo, il tempo e il mondo perdono la loro compiutezza sia nel complesso sia in ogni loro parte. Muta radicalmente il modello temporale del mondo: questo diventa un mondo in cui una prima parola (un inizio ideale) non c'è e l'ultima parola non è ancora detta. Per la coscienza artistico-ideologica il tempo e il mondo per la prima volta diventano storici: essi si manifestano, anche se dapprima in modo ancora oscuro e confuso, come divenire, come movimento ininterrotto nel futuro reale, come processo unitario, universale e incompiuto. Ogni avvenimento, quale che esso sia, ogni fenomeno, ogni cosa, insomma ogni oggetto di raffigurazione artistica perde la compiutezza, la desolante finitezza e [p. 472] immutabilità che gli erano intrinseci nel mondo dell'epico «passato assoluto», che un inaccessibile confine delimita dal non finito e continuante presente. Attraverso il contatto col presente l'oggetto è coinvolto nel processo incompiuto del divenire del mondo e assume l'impronta dell'incompiutezza. Per quanto sia da noi lontano nel tempo, esso è legato al nostro incompleto presente da ininterrotti passaggi temporali, entra in rapporto con la nostra incompiutezza, col nostro presente, mentre il nostro presente avanza verso un incompiuto futuro. In questo incompiuto contesto si perde l'immutabilità semantica dell'oggetto: il suo senso e significato si rinnovano e crescono a mano a mano che si svolge ulteriormente il contesto. Nella struttura dell'immagine artistica ciò porta a mutamenti radicali. L'immagine acquista una specifica attualità. Essa entra in rapporto - in una forma e in una misura variabile - con l'evento di vita che continua anche ora, del quale anche noi - autore e lettori - siamo sostanzialmente partecipi. Si crea così una zona radicalmente nuova di costruzione delle figure nel romanzo, zona di contatto estremamente ravvicinato dell'oggetto di raffigurazione col presente nella sua incompiutezza e quindi anche col futuro. Dell'epos è caratteristica la profezia, del romanzo la predizione. La profezia epica si attua interamente nell'ambito del passato assoluto (se non nel dato epos, nell'ambito della tradizione che lo abbraccia) e non riguarda il lettore e il suo tempo reale. Il romanzo, invece, vuole presagire i fatti, predire e influire sul futuro reale, sul futuro dell'autore e dei lettori. Il romanzo ha una problematicità nuova, specifica; di esso è caratteristica l'eterna reinterpretazione, cioè rivalutazione. Il centro dell'attività che interpreta e giustifica il passato è trasferito nel futuro. E' insopprimibile il «modernismo» del romanzo che confina con un'ingiusta valutazione dei tempi. Ricordiamo la rivalutazione del passato nel Rinascimento («le tenebre dell'età gotica»), nel XVIII secolo (Voltaire), nel positivismo (lo smascheramento del mito, della leggenda, dell'eroicizzazione, l'estremo rifiuto della memoria e l'estremo - fino all'empirismo - restringimento del concetto di «conoscenza», il «progressismo» meccanicistico come supremo criterio). Tratterò ora alcuni aspetti artistici peculiari legati a ciò che si è detto. L'assenza di compiutezza e esauribilità interna porta a un netto rafforzamento delle esigenze di una compiutezza e esauribilità esterna e formale, soprattutto d'intreccio. In modo nuovo si pone il problema dell'inizio, della fine e della completezza. L'epopea è indifferente all'inizio formale e può essere incompleta (cioè può ricevere una fine quasi arbitraria). Il passato assoluto è chiuso e compiuto sia nel tutto sia in ogni sua parte. Perciò ogni parte può essere foggiata e presentata come un tutto. L'intero mondo del passato assoluto (ed esso è unitario dal punto di vista d'intreccio) non può essere abbracciato in una sola epopea (ciò significherebbe narrare tutta la tradizione nazionale), ed è difficile abbracciarne persino un suo segmento appena ragguardevole. Ma in questo non c'è niente di male perché la struttura del tutto si ripete in ogni parte e ogni parte è compiuta e tonda come il tutto. Si può cominciare il racconto quasi da ogni momento e si può finirlo quasi in ogni momento. L'Iliade è un ritaglio casuale del ciclo troiano. La sua fine (l'inumazione di Ettore) dal punto di vista romanzesco non potrebbe in alcun modo essere una fine. Ma la compiutezza epica non ne soffre per nulla. Lo specifico «interesse della fine» - come finirà la guerra? chi vincerà? che ne sarà di Achille?, ecc. - per quel che riguarda il materiale epico è assolutamente escluso per motivi sia interni sia esterni (l'aspetto di intreccio della tradizione era tutto noto in anticipo). Lo specifico «interesse del seguito» (che cosa avverrà dopo?) e l'«interesse della fine» (come andrà a finire?) sono caratteristici soltanto del romanzo e sono possibili soltanto nella zona della vicinanza e del contatto (nella zona dell'immagine di lontananza essi sono impossibili). Nell'immagine di lontananza si dà un avvenimento tutto intiero e l'interesse d'intreccio (l'ignoranza) è impossibile. Il romanzo, invece, specula sulla categoria dell'ignoranza. Si dànno varie forme e metodi di uso dell'eccedenza dell'autore (di ciò che il protagonista non sa e non vede). E' possibile un uso di intreccio (esterno) dell'eccedenza e un uso dell'eccedenza per un compimento sostanziale (e per una particolare esteriorizzazione romanzesca) dell'immagine dell'uomo. C'è anche il problema di un'altra possibilità. Le peculiarità della zona romanzesca si manifestano in modo diverso nelle diverse varietà di romanzo. Il romanzo può essere privo di problematicità. Prendiamo, ad esempio, il romanzo d'avventure e d'appendice. In esso non c'è una problematicità né filosofica né politico-sociale, non c'è psicologia; attraverso nessuna di queste sfere, quindi, può esserci un contatto con l'avvenimento incompiuto della vita contemporanea e nostra. L'assenza di distanza e la zona di contatto sono usate qui in modo diverso: invece della nostra noiosa vita ci propongono, è vero, un surrogato, però di una vita interessante e brillante. Queste avventure possono essere rivissute con partecipazione, con questi personaggi ci si può identificare; simili romanzi possono quasi diventare un sostituto della propria vita. Nulla di simile ci può essere nei riguardi dell'epopea e degli altri generi letterari distanziati. Qui si manifesta anche il pericolo specifico di questa zona romanzesca di contatto: nel romanzo possiamo entrare noi stessi (né nell'epopea né negli altri generi letterari distanziati si può mai entrare). Di qui la possibilità di fenomeni come la sostituzione della vita personale con la lettura smodata dei romanzi o coi sogni modellati sui romanzi (il protagonista delle Notti bianche [Belye no-ci]), come il bovarismo, come la comparsa nella vita di personaggi romanzeschi di moda: i delusi, i demoniaci, ecc. Gli altri generi letterari sono capaci di generare simili fenomeni solo quando essi sono romanzizzati, cioè trasposti nella zona romanzesca di contatto (ad esempio, i poemi di Byron). Al nuovo orientamento temporale e alla zona di contatto è legato un altro fenomeno di estrema importanza nella storia del romanzo: i suoi particolari rapporti coi generi extraletterari, cioè di vita e di ideologia. Già nel periodo della sua nascita il romanzo e i generi letterari che lo avevano anticipato si basavano su varie forme extrartistiche di vita personale e sociale, soprattutto su quelle retoriche (c'è persino una teoria che fa derivare il romanzo dalla retorica). Anche nelle epoche successive del suo sviluppo il romanzo si è servito in modo ampio e sostanziale delle forme delle lettere, dei diari, delle confessioni, delle forme e dei metodi della nuova retorica forense, ecc. Il romanzo, che si costruisce nella zona di contatto con l'avvenimento incompiuto dell'età contemporanea, spesso passa i confini dello specifico artistico-letterario, [p. 475] trasformandosi ora in una predicazione morale, ora in trattato filosofico, ora in diretto intervento politico, o degenerando nella sincerità grezza, non illuminata nella forma, della confessione, nel «grido del cuore», ecc. Tutti questi fenomeni sono estremamente caratteristici del romanzo come genere letterario in divenire. I confini tra artistico e extrartistico, tra letteratura e non letteratura, ecc., infatti, non sono stati stabiliti dagli dèi una volta per sempre. Ogni specifico è storico. Il divenire della letteratura non è soltanto crescita e mutamento di essa all'interno dei confini incrollabili dello specifico, ma investe questi stessi confini. Il processo di mutamento dei confini delle sfere della cultura (compresa la letteratura) è processo estremamente lento e complesso. Singole violazioni dei confini dello specifico (come quelle sopra indicate) non sono che sintomi di questo processo, il quale si svolge a una grande profondità. Nel romanzo come genere letterario in divenire questi sintomi di mutamento dello specifico si manifestano in modo molto più frequente e netto e sono più indicativi poiché il romanzo avanza alla testa di questi mutamenti. Il romanzo può servire da documento per presagire le sorti ancora lontane e grandi dello sviluppo della letteratura. Ma il mutamento dell'orientamento temporale e della zona di costruzione delle immagini in nulla si manifesta in modo così profondo e sostanziale come nel rifacimento dell'immagine dell'uomo nella letteratura. Si tratta però di una questione grande e complessa che, nei limiti della presente relazione, io posso soltanto sfiorare in modo rapido e superficiale. L'uomo dei generi letterari alti e distanziati è l'uomo del passato assoluto e dell'immagine di lontananza. Come tale, egli è del tutto compiuto e concluso. Egli è compiuto a un alto livello eroico, ma è compiuto e esasperatamente completo, è tutto qui, dal principio alla fine, coincide con se stesso, è assolutamente uguale a se stesso. Inoltre egli è tutto esteriorizzato. Tra la sua vera essenza e la sua parvenza esteriore non c'è la minima divergenza. Tutte le sue potenzialità sono realizzate fino in fondo nella sua posizione sociale esteriore, in tutto il suo destino, persino nel suo aspetto; fuori di questo suo destino determinato e di questa sua determinata posizione di lui non resta alcunché. Egli è diventato tutto ciò che poteva essere ed egli poteva essere solo ciò che è diventato. Egli [p. 476] è tutto esteriorizzato anche in un senso più elementare, quasi letterale: in lui tutto è aperto e detto ad alta voce, il suo mondo interiore e tutte le sue caratteristiche, manifestazioni e azioni esteriori si trovano su uno stesso piano. Il punto di vista da cui egli guarda se stesso coincide interamente con quello da cui lo guardano gli altri, la società (la sua collettività), il cantore, gli ascoltatori. Consideriamo in questo senso il problema dell'«autoglorificazione» in Plutarco, ecc. Nel piano di lontananza l'«io in persona» esiste non in sé e per sé, ma per i posteri, nella memoria anticipabile dei posteri. Io prendo coscienza di me, della mia immagine in un piano distanziato; la mia autocoscienza mi è estraniata in questo piano distanziato della memoria; mi vedo con gli occhi dell'altro. Questa coincidenza delle forme - dei punti di vista da cui si guarda sé e l'altro - ha un carattere ingenuo e globale e non c'è ancora divergenza tra essi. Non c'è ancora la confessione, cioè autosmascheramento. Il raffigurante coincide col raffigurato (4). Egli vede e sa in se stesso solo ciò che vedono e sanno in lui gli altri. Tutto ciò che può dire di lui l'altro, l'autore, egli può dirlo di sé da solo e viceversa. In lui non c'è nulla da cercare, nulla da indovinare, né lo si può smascherare o provocare: egli tutto è all'esterno, in lui non c'è involucro e nucleo. Inoltre l'uomo epico è privo di ogni iniziativa ideologica (ne sono privi sia i protagonisti sia l'autore). Il mondo epico conosce solo un'unica e unitaria concezione del mondo interamente compiuta, ugualmente obbligatoria e indubitabile per i protagonisti, per l'autore e per gli ascoltatori. L'uomo epico è privo anche di iniziativa linguistica; il mondo epico conosce un'unica e unitaria lingua compiuta. Perciò né la concezione del mondo né la lingua possono servire da fattori di limitazione e formazione delle figure umane, della loro individualizzazione. Gli uomini qui sono delimitati, formati, individualizzati da varie situazioni e destini, ma non da varie «verità». Neppure gli dèi sono separati dagli uomini grazie a una particolare verità: essi hanno la stessa lingua, la stessa [p. 477] concezione del mondo, lo stesso destino, la stessa estrinsecazione. Queste peculiarità dell'uomo epico, condivise sostanzialmente anche dagli altri generi letterari alti distanziati, creano la straordinaria bellezza, integrità, purezza cristallina e compiutezza artistica di questa immagine dell'uomo, ma nello stesso tempo esse generano la sua limitatezza e una certa sua irrealtà nelle nuove condizioni di esistenza dell'umanità. La distruzione della distanza epica e il passaggio dell'immagine dell'uomo dal piano di lontananza nella zona di contatto con l'incompiuto evento del presente (e quindi anche del futuro) porta a una radicale ricostruzione dell'immagine dell'uomo nel romanzo (e in seguito in tutta la letteratura). In questo processo una funzione enorme è stata svolta dalle fonti folcloriche, comico-popolari del romanzo. La prima e assai essenziale tappa del divenire è stata la familiarizzazione comica dell'immagine dell'uomo. Il riso distrusse la distanza epica e cominciò a studiare l'uomo in modo libero e familiare: a rivoltarlo in fuori e a smascherare il disaccordo tra l'esterno e l'interno, tra la possibilità e la sua realizzazione. Nell'immagine dell'uomo fu introdotta un'importante dinamica: la dinamica del disaccordo e della discordanza tra momenti diversi di questa immagine; l'uomo cessò di coincidere con se stesso e quindi anche l'intreccio cessò di esaurire l'uomo fino in fondo. Da tutte queste discrepanze e discordanze il riso traeva prima di tutto effetti comici (ma non soltanto comici), mentre nei generi letterari serio- comici dell'antichità da esse crescevano già anche immagini di un altro ordine, come, ad esempio, l'immagine grandiosa di Socrate, integra ed eroica in modo nuovo e complesso. E' caratteristica la struttura artistica dell'immagine delle grandi maschere popolari che hanno esercitato un influsso enorme sul divenire dell'immagine dell'uomo nel romanzo nelle fasi più importanti del suo sviluppo (i generi letterari serio-comici dell'antichità, Rabelais, Cervantes). L'eroe epico e l'eroe tragico sono nulla fuori del loro destino e dell'intreccio da esso determinato; essi non possono diventare eroi di un altro destino, di un altro intreccio. Le maschere popolari - Macco, Pulcinella, Arlecchino - al contrario, possono attuare qualunque destino e figurare in qualunque posizione (cosa che essi fanno a volte anche nei limiti di una sola commedia), [p. 478] ma essi stessi non si esauriscono mai in quelli e conservano sempre al di là di ogni posizione e di ogni destino una loro gaia eccedenza, conservano sempre un loro volto umano semplice ma inesauribile. Perciò queste maschere possono agire e parlare fuori dell'intreccio; anzi, proprio nei loro interventi fuori d'intreccio - nei trices delle atellane, nei lazzi della commedia italiana - essi scoprono meglio il loro volto. Né l'eroe epico né l'eroe tragico per loro natura possono intervenire in una pausa fuori d'intreccio e in un intervallo di rappresentazione: non ne hanno né il volto, né il gesto, né la parola; in questo sta la loro forza e in questo sta anche la loro limitatezza. L'eroe epico e l'eroe tragico sono eroi che muoiono per loro natura. Le maschere popolari, invece, non muoiono mai: nessun intreccio delle atellane e delle commedie italiane e di quelle francesi italianizzate contempla e può contemplare la morte effettiva di Macco, Pulcinella o Arlecchino. Sono però moltissime quelle che contemplano le loro morti comiche fittizie (con la successiva rinascita). Sono eroi delle libere improvvisazioni e non eroi della tradizione, eroi di un processo vitale sempre contemporaneo, indistruttibile ed eternamente rinnovantesi e non eroi del passato assoluto. Queste maschere e la loro struttura (la non coincidenza con se stesso in ogni data situazione, cioè la gaia eccedenza, l'inesauribilità, ecc.), ripetiamo, hanno esercitato un influsso enorme sullo sviluppo dell'immagine romanzesca dell'uomo. Questa struttura si conserva anche in essa, ma in una forma più complicata, approfondita nel contenuto e seria (o serio-comica). Uno dei principali temi interni del romanzo è appunto il tema della non adeguatezza del personaggio al suo destino e alla sua posizione. L'uomo o è più grande del suo destino o è più piccolo della sua umanità. Egli non può diventare tutto e interamente funzionario, proprietario terriero, mercante, fidanzato, geloso, padre, ecc. Se il protagonista del romanzo diventa pur tuttavia tale, cioè si sistema interamente nella sua posizione e nel suo destino (come avviene coi personaggi di genere e di costume e con la maggior parte dei personaggi secondari del romanzo), l'eccedenza di umanità può realizzarsi nell'immagine del protagonista principale; sempre questa eccedenza si realizza nell'orientamento contenutistico-formale [p. 479] dell'autore, nei metodi della sua visione e raffigurazione dell'uomo. La stessa zona di contatto col presente incompiuto e quindi col futuro crea la necessità di questa non coincidenza dell'uomo con se stesso. In esso restano sempre potenzialità irrealizzate e esigenze inattuate. C'è il futuro, e questo futuro non può non riguardare l'immagine dell'uomo, non può non avere in essa radici. L'uomo non è incarnabile interamente nell'esistente carne storico-sociale. Non ci sono forme che possano interamente incarnare tutte le sue umane possibilità e esperienze e nelle quali egli possa esaurire se stesso tutto fino all'ultima parola - come l'eroe epico e l'eroe tragico, - forme che egli possa riempire fino all'orlo, senza nello stesso tempo straboccarne. Resta sempre un'eccedenza irrealizzata d'umanità, resta sempre un bisogno di futuro e un posto necessario per questo futuro. Tutte le vesti esistenti sono strette (e quindi comiche) addosso all'uomo. Ma questa umanità eccedente inincarnabile può realizzarsi non nel protagonista, sibbene nel punto di vista dell'autore (ad esempio, in Gogol'). La realtà romanzesca è una delle possibili realtà, non è necessaria, è casuale, reca in sé altre possibilità. L'integrità epica dell'uomo si disgrega nel romanzo anche lungo altre linee: compare una discordanza essenziale tra l'uomo interno ed esterno, grazie alla quale oggetto dell'esperienza e della raffigurazione - dapprima sul piano comico, familiarizzante - diventa la soggettività dell'uomo; compare la specifica discordanza degli aspetti: dell'uomo per se stesso e dell'uomo visto dagli altri. Questa disgregazione della totalità epica (e tragica) dell'uomo nel romanzo nello stesso tempo si unisce alla preparazione di una sua nuova totalità complessa a un più alto grado di sviluppo umano. Infine, l'uomo acquista nel romanzo uno spirito d'iniziativa ideologica e linguistica che muta il carattere della sua immagine (un nuovo e superiore tipo di individualizzazione dell'immagine). Già nella fase antica del divenire del romanzo compaiono splendide immagini di eroi-ideologi: tale è l'immagine di Socrate, tale è l'immagine di Epicuro ridente nel cosiddetto Romanzo ippocratico, tale è l'immagine profondamente romanzesca di Diogene nella vasta letteratura dialogica dei cinici e nella satira menippea (qui essa si avvicina nettamente all'immagine della maschera popolare), tale, infine, [p. 480] è l'immagine di Menippo in Luciano. Il protagonista del romanzo, di regola, è in diverso grado un ideologo. Questo è lo schema, piuttosto astratto e semplificato, del rifacimento dell'immagine dell'uomo nel romanzo. Tiriamo un po' le somme. Il presente nella sua incompiutezza, come punto di partenza e centro di orientamento artistico-ideologico, è un grandioso rivolgimento nella coscienza creativa dell'uomo. Nel mondo europeo questo riorientamento e questa distruzione della vecchia gerarchia dei tempi ha trovato un'essenziale espressione, nella sfera dei generi letterari, al confine dell'antichità classica e dell'ellenismo e, nel mondo moderno, nell'epoca del tardo medioevo e del Rinascimento. In queste epoche si pongono le basi del genere letterario del romanzo, anche se i suoi elementi erano preparati già da tempo, mentre le sue radici affondano nel terreno del folclore. Tutti gli altri grandi generi in queste epoche erano già da tempo compiuti, vecchi, quasi ossificati. Il romanzo, invece, come genere letterario fin dal principio si è andato formando e sviluppando sul terreno di un nuovo senso del tempo. Il passato assoluto, la tradizione, la distanza gerarchica non hanno svolto alcuna funzione nel processo della sua formazione come genere letterario (essi hanno avuto una funzione insignificante soltanto in singoli periodi dello sviluppo del romanzo, quando esso fu sottoposto a una certa epicizzazione, come, ad esempio, il romanzo barocco); il romanzo si è formato proprio nel processo di distruzione della distanza epica, nel processo di familiarizzazione comica del mondo e dell'uomo, di svilimento dell'oggetto della raffigurazione artistica al livello della realtà contemporanea incompiuta e fluente. Fin dal principio il romanzo si è costruito non nell'immagine di lontananza del passato assoluto, ma nella zona del contatto immediato con questa età contemporanea incompiuta. Alla sua base si sono poste l'esperienza personale e la libera invenzione creativa. La nuova immagine romanzesca, lucida e prosaica, e il nuovo concetto critico e scientifico, fondato sull'esperienza, si sono formati fianco a fianco e simultaneamente. Il romanzo, in tal modo, fin dal principio è stato fatto di un'altra pasta rispetto a tutti gli altri generi letterari compiuti, esso è di un'altra natura, con esso e in esso in una certa misura è nato il futuro di tutta la letteratura. Perciò, una volta nato, egli non è potuto [p. 481] diventare semplicemente un genere letterario tra gli altri e non ha potuto costruire i suoi reciproci rapporti con essi nella forma di una coesistenza pacifica e armoniosa. In presenza del romanzo tutti i generi letterari cominciano ad avere un'altra risonanza. Comincia la lunga lotta per la romanzizzazione degli altri generi letterari, per il loro inserimento nella zona del contatto con la realtà incompiuta. La via di questa lotta è stata complessa e tortuosa. La romanzizzazione della letteratura non è affatto l'imposizione agli altri generi letterari di un canone di genere letterario ad essi improprio ed estraneo. Infatti di un simile canone il romanzo è del tutto privo. Esso per natura non è canonico. E' plasticità per eccellenza. E' un genere che eternamente cerca, eternamente indaga se stesso e rivede tutte le proprie forme costituite. Soltanto così può essere un genere che si costruisce nella zona del contatto immediato con la realtà in divenire. Perciò la romanzizzazione degli altri generi letterari non significa la loro sottomissione a canoni estranei, bensì la loro liberazione da tutto ciò che di convenzionale, necrotico, enfatico e inerte frena il loro sviluppo, da tutto ciò che accanto al romanzo li trasforma in stilizzazioni di forme superate. Ho sviluppato le mie tesi in una forma alquanto astratta. Le ho illustrate solo con alcuni esempi tratti dalla fase antica del divenire del romanzo. La mia scelta è determinata dal fatto che da noi si sottovaluta nettamente il significato di questa fase. Se anche si parla della fase antica del romanzo, ci si riferisce, per tradizione, al «romanzo greco» soltanto. La fase antica del romanzo ha un significato enorme per una corretta comprensione della natura di questo genere letterario. Ma sul terreno antico il romanzo effettivamente non poteva sviluppare tutte le possibilità che si sono rivelate nel mondo moderno. Abbiamo notato che in alcuni fenomeni dell'antichità il presente incompiuto comincia a sentirsi più vicino al futuro che al passato. Ma, data l'assenza di prospettiva della società antica, questo processo di riorientamento verso il futuro reale non poteva compiersi: questo futuro reale infatti non c'era. Per la prima volta questo riorientamento si è compiuto nel Rinascimento. In quest'epoca il presente, l'età contemporanea per la prima volta si sentì non soltanto continuazione incompiuta del passato, ma anche un certo inizio [p. 482] eroico e nuovo. Percepire al livello dell'età contemporanea significava già non solo svilire, ma anche elevare in una nuova sfera eroica. Il presente nel Rinascimento per la prima volta si sentì con totale chiarezza e consapevolezza infinitamente più vicino e più affine al futuro che al passato. Il processo di divenire del romanzo non si è concluso. Esso entra ora in una nuova fase. Della nostra epoca sono caratteristici l'eccezionale complicarsi e approfondirsi del mondo, l'eccezionale crescita del rigore, della lucidità e del criticismo umano. Questi tratti determineranno anche lo sviluppo del romanzo. (1938, 1941) NOTE: (1) Si veda il saggio Dalla preistoria della parola romanzesca pubblicato nel presente volume. (2) [Dalla preistoria della parola romanzesca (vedi pp. 407-44)]. (3) La «memoria» nelle memorie e nelle autobiografie ha un particolare carattere; è memoria della propria età contemporanea e di se stesso. E' una memoria non eroicizzante; in essa c'è un momento di meccanicità e registrazione (non monumentale). E' una memoria personale senza continuità, limitata dai confini della vita personale (non ci sono né padri né generazioni). Il carattere memorialistico è intrinseco già al genere letterario del dialogo socratico. (4) L'epos si disgrega quando cominciano le ricerche di un nuovo punto di vista da cui guardare se stesso (senza che lo contaminino i punti di vista degli altri). Il gesto romanzesco espressivo sorge come deviazione dalla norma, ma la sua «erroneità» ne scopre proprio l'importanza soggettiva. Dapprima la deviazione dalla norma, poi la problematicità della norma stessa.