Storia del Lavoro e delle Relazioni Industriali PDF (A.A. 2020/2021)
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Il documento analizza l'agitazione contadina nella campagna romana all'epoca della Restaurazione, in particolare l'episodio del 16 maggio 1832. Si discute di fattori economici, politici e sociali che hanno contribuito alla rivolta, fornendo dettagli sull'organizzazione lavorativa e le condizioni di vita dei salariati agricoli. Il documento esplora il contesto storico e le dinamiche che hanno portato all'agitazione contadina.
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STORIA DEL LAVORO E DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI a.a. 2020/2021 DISPENSA AGITAZIONE CONTADINA Roma e l’Agro romano nel periodo pre-unitario: analisi di un’agitazione contadina Lo sviluppo economico di un paese è dato dall’età demografica; il massimo sviluppo in età antica viene raggiunto sotto Costa...
STORIA DEL LAVORO E DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI a.a. 2020/2021 DISPENSA AGITAZIONE CONTADINA Roma e l’Agro romano nel periodo pre-unitario: analisi di un’agitazione contadina Lo sviluppo economico di un paese è dato dall’età demografica; il massimo sviluppo in età antica viene raggiunto sotto Costantino, con 1 milione (306-337). Il minimo storico risale invece a 17000 nel IX-X sec. Nel 1527 con il Sacco di Roma la popolazione vede una crescita. Abbiamo poi diverse date: -1545-1601: da 45.000 a 105.000 -1601-1699: da 105.000 a 138.000 -1701-1794: da 141.000 a 170.000 -1815: 117.000 -1870: 213.000 (Roma non conosce le stagioni di crescita) Nel 1789 c’è la rivoluzione industriale, collegata con l’occupazione francese. E nel 1748 viene realizzata la prima pianta di Roma, chiamata anche “Pianta del Molli”. L’economia era organizzata intorno alla rendita (agraria e immobiliare), ai trasferimenti e al consumo, caratterizzata inoltre da un elevato debito pubblico e da un mercato di capitali ristretto (i capitali all’interno dello stato erano pochi). Lo stato si finanziava attraverso titoli del debito pubblico, che erano molto sicuri in quanto rappresentavano uno strumento di entrata. Il ruolo dello stato era quello di uno Stato dirigentista/interventista che prevedeva due tipologie di influenza, una diretta e una indiretta: a) Influenza diretta : 1.Politiche mercantiliste (basate sul concetto secondo il quale la potenza di una nazione sia accresciuta dalla prevalenza delle esportazioni sulle importazioni ,si parla di surplus commerciale). 2.Corporazioni b) Influenza indiretta: Istituzioni assistenziali e caritative. Una fascia di popolazione vive in condizioni di indigenza. Capitale politica e religiosa Lo Stato Pontificio (Stato della Chiesa fu il suo nome ufficiale fino al 1815, detto anche Stato Ecclesiastico) fu l'entità statuale costituita dall'insieme dei territori su cui la Santa Sede esercitò il proprio potere temporale dal 751 o 756 al 1870, ovvero più di un millennio. Era governato da una teocrazia con a capo il Papa come guida religiosa, politica e militare. Durante la sua esistenza ebbe periodi in cui il suo prestigio e la sua influenza sullo scacchiere politico europeo furono rimarchevoli; la sua proiezione internazionale uscì dai limiti territoriali che le circostanze storiche gli avevano assegnato in relazione al Sacro Romano Impero. I vincoli di vassallaggio dettati dalla Santa Sede condizionarono talvolta importanti stati indipendenti come il Regno di Sicilia, il Regno di Napoli, il Regno d'Inghilterra, il Regno di Francia, il Regno di Spagna, il Regno del Portogallo, la Corona d'Aragona, il Regno d'Ungheria, l'Impero austriaco e altri stati. 1 Terminò la sua esistenza nel 1870, dopo l'annessione al Regno d'Italia di tre legazioni, con gli eventi che seguirono la fine della Seconda guerra d'indipendenza italiana(La seconda guerra d'indipendenza italiana è un episodio del Risorgimento. Fu combattuta dalla Francia e dal Regno di Sardegna contro l'Austria dal 27 aprile 1859 al 12 luglio 1859) e la spedizione dei Mille (1859 - 1861), (La spedizione dei Mille fu uno degli episodi cruciali del Risorgimento. Avvenne nel 1860 quando un migliaio di volontari, al comando di Giuseppe Garibaldi, partì nella notte tra il 5 e il 6 maggio da Quarto alla volta della Sicilia, nel Regno delle Due Sicilie)e con la presa di Roma (La presa di Roma, nota anche come breccia di Porta Pia, fu l'episodio del Risorgimento che sancì l'annessione di Roma al Regno d'Italia)e la successiva annessione della quarta legazione e del circondario di Roma (1870). Roma è la capitale politica e religiosa. I benefici : 1. Domanda di beni e servizi legati al ruolo di capitale. 2.Politica annonaria (Lo stavo, cioè il governo di Roma si occupava dell’approvvigionamento dei beni alimentari) e assistenziale (fornisce assistenza alle persone). 3.Mobilità sociale: ricambio famiglie (All’elezione di un nuovo pontefice si nomina una nuova famiglia pontificia, lo Stato Pontefice era conservatore e soprattutto molto attento alla mobilità sociale). Siamo in una fase di capitalismo italiano, chiamato anche capitalismo collusivo. I costi: 1. Pressione fiscale elevata per i ceti medi (I ceti dominanti erano 2, ovvero il clero e l’aristocrazia; venivano infatti colpiti i ceti produttivi, ceti già deboli tra loro, tutto per evitare di colpire il clero e l’aristocrazia) 2. Stato pervasivo (Lo Stato Pontificio è uno stato periferico). Catasto 1824 a Roma, sistema egualitario nel quale ognuno deve contribuire. Questa società viene toccata e scossa dalla dominazione francese e dalle trasformazioni dell’età contemporanea. Lo Stato Napoleonico invece è uno stato laico, che diffonde innovazioni. Città-Campagna Agro Romano: Organizzato con il sistema del latifondo, cioè coltivazione di cereali e pascolo, ovini, e vi è la presenza della malaria, presente nella primavera inoltrata ed estiva, le aree contaminate, con la presenza di paludi, erano abbandonate in quel periodo. La produzione è insufficiente per la città; il rapporto città-campagna è costituito da ridotti interscambi di uomini e merci, i lavoratori sono prevalentemente contadini per alcuni mesi, altri mesi diventano artigiani. Analisi di un’agitazione contadina nella campagna romana all’epoca della Restaurazione 16 maggio 1832: Avviene l’agitazione contadina, che rappresenta un elemento di microstoria, sviluppatosi nella campagna nei pressi di Roma, ma di estrema importanza della complessa fase di transizione tra ancien régime ed età liberale (La piena età liberale viene raggiunta però nel 1870 con la caduta dello Stato Pontificio). 2 Assume inoltre grande importanza non solo per l’epoca in cui si svolse, segnalandosi come una significativa anticipazione di più mature forme di protesta sociale, ma per il rilievo delle forze economiche, politiche e religiose che coinvolse, dalla Camera di Commercio, al cardinale segretario di stato, fino allo stesso Gregorio XVI. In Italia prima del 1848 non c’erano associazioni, libertà associative, ma solo corporazioni. Lo Statuto del Regno ' o Statuto Fondamentale della Monarchia di Savoia del 4 marzo 1848 (noto come Statuto Albertino, dal nome del re che lo promulgò, Carlo Alberto di Savoia), fu la costituzione adottata dal Regno di Sardegna il 4 marzo 1848 a Torino. Questa protesta si verifica quindi in una fase precedente al coagularsi delle forze sociali in strutture associative ed organizzative stabili. Gli avvenimenti oggetto della nostra analisi segnalano trasformazioni che avvenivano nel profondo del tessuto economico e sociale, e che solo decenni più tardi acquisteranno la forza di affermarsi in modo durevole. I protagonisti di questa vicenda sono i salariati agricoli, i mercanti di campagna e il governo pontificio. La peculiarità del regime fondiario e dell’organizzazione produttiva dell’Agro Romano, incideva sia sull’ambiente umano, sia sul paesaggio e sull’ambiente naturale, che da anni era stato sconvolto, trovando poi in questo e nella malaria, la ragione della propria riproduzione ed immutabilità. C’era in fatti presenza di paludi e malaria. E’ inoltre caratterizzato da scarsità di manodopera locale, quindi assenza di popolazione, e scarsità di capitali, ovvero la carenza di infrastrutture che agevolano lo scambio tra città e campagna, scarsa presenza di strutture rurali, case, abitazioni etc. I salariati agricoli erano chiamati a prestare la loro opera, sia pure temporaneamente, in occasione dei vari lavori stagionali, l’immigrazione era temporanea e le presenze variavano in funzione dell’intensità delle operazioni agricole. Il latifondo è articolato in varie unità produttive. L’unità di superficie è però ridotta, e il capitale fondiari è povero. La rotazione delle coltivazioni avveniva secondo il tradizionale sistema maggese, ci si trovava di fronte ad una agricoltura di tipo estensivo-latifondistico. Siamo in presenza del carattere latifondistico della proprietà fondiaria, concentrato nelle mani della nobiltà e degli enti ecclesiastici, i terreni vengono affittati dai mercanti di campagna, figura originale di grandi affittuari. Anche le condizioni igienico-sanitarie non erano buone, l’incombenza della malaria costringeva gli stessi salariati fissi, a non risiedere presso le varie aziende agrarie o in villaggi rurali ma a fare quotidianamente ritorno a Roma per pernottare. Non vi è dunque una fissa dimora. Inoltre non c’è un’azienda agricola capitalista, e c’è la presenza di una grande novità, ovvero l’ascesa dei Mercanti di campagna. Organizzazione dell’azienda del campo =>>> 1.Fattore: funzione direttiva, si occupa di questioni amministrative e finanziare, 2.Sottofattore: col il compito specifico di dirigere l’attività degli operai avventizi. 3.Capoccia: preparazione del maggese (innovazione del maggese è la rotazione, ovvero si evita di sfruttare il terreno), assunzione bifolchi, 4.Bifolchi: eseguivano il lavoro (relativa stabilità) guidati dal 5.Capoccetta. 6.Buttero: al termine della giornata prendeva in consegna i bovi. 7.Guardia casale: Aveva compiti di custodia e di piccola manutenzione degli edifici dell’azienda. 8.Guardiano: svolgeva mansioni di sorveglianza e difesa dell’azienda in tutta la sua estensione. 9.Dispensiere: curava la conservazione e la distribuzione dei viveri sia per la parte che costituiva integrazione in natura del salario, sia come vendita ai caporali o direttamente ai singoli operai agricoli. I bifolchi erano retribuiti su base mensile e in funzione delle giornate effettivamente lavorate; essi 3 potevano essere licenziati senza preavviso il mercoledì e il sabato di ciascuna settimana, Il reclutamento avveniva sulla piazza di Roma, o nei paesi della Comarca o degli altri circondari laziali. Per questo tipo di lavoro erano rari gli operai provenienti da altre regioni. I veri e propri operai avventizi (solo per alcuni periodi di tempo) erano i cosiddetti monelli o guitti, assunti per l’esecuzione dei vari lavori agricoli che non richiedevano una manodopera qualificata, in definitiva questi svolgevano tutti i lavori più umili. Agitazione contadina del 16 maggio 1832 L’agitazione ebbe inizio mercoledì 16 maggio 1832, giorno non scelto in modo casuale, in quanto insieme al sabato rappresentava il giorno nel quale i bifolchi potevano essere licenziati. I promotori della protesta sono quindi i bifolchi, protesta che viene effettuata da 53 bifolchi appartenenti a 7 tenute, principalmente provenienti dalla tenuta di Torre in Pietra, condotta in affitto dai fratelli Merolli, famiglia di mercanti di campagna, e muniti di bastoni. La direzione di polizia dispose immediatamente un intervento immediato della forza pubblica, anche se non mancavano elementi di incertezza e perfino di incredulità davanti a tale evento. I bifolchi vengono rapidamente fermati a Boccea, 10 arrestati che verranno poi rilasciati il 18 maggio, e già da qui possiamo comprendere l’aria del governo. Stabilità del contratto di lavoro: Le campagne si spopolavano a causa della malaria nelle paludi. La provenienza dei bifolchi era in larga maggioranza laziale, dei paesi del circondariato di Roma e Viterbo, solo due provenienti dall’area romana (provenienza area romana e laziale, c’erano quindi obiettivi comuni, provenivano dalla stessa area e volevano ottenere gli stessi risultati). Il capo delle guardie della polizia, Giovanni Galanti iniziò ad effettuare le prime indagini conoscitive sulla faccenda. Ragioni della rivolta: 1) Motivi economici: insoddisfazione per w in moneta e in natura (Pane inverminato, ovvero che non rispetta gli standard minimi alimentari, che producono frequenti malattie e una mortalità maggiore rispetto agli anni precedenti) - (Questi non vogliono ottenere un superamento dei rapporti contrattuali, ma un ripristino degli equilibri naturali, che i padroni avevano progressivamente violato). Inoltre il sensibile aumento dei prezzi dei beni di consumo primari, nel corso degli ultimi decenni, aveva causato una sfasatura tra dinamica dei prezzi e dei salari, e quindi una diminuzione dei salari reali, era quindi necessaria la concessione di un qualche aumento dei salari nominali. Il salario nominale, detto anche salario monetario, è la quantità di moneta che il lavoratore riceve in un'unità di tempo. Esempio: il compenso mensile di un lavoratore dipendente è di 1.400 euro che rappresenta il suo salario nominale. Il salario reale è rappresentato dalla quantità di beni e servizi che il lavoratore può acquistare sul mercato con il salario nominale percepito. Il salario reale e il salario nominale coincidono solamente quando i prezzi dei beni e dei servizi sono costanti nel tempo. Se, invece, i prezzi aumentano, con la stessa quantità di moneta si possono acquistare meno beni e servizi e, di conseguenza, diminuisce il salario reale e il tenore di vita delle famiglie. Per salario reale si intende il potere d’acquisto del salario nominale, cioè la quantità di beni e servizi che il lavoratore può ottenere con esso. 4 2) Condizioni di vita (spesso vivevano nelle tenute o nelle capanne, che erano queste ultime strutture provvisorie. I bifolchi erano poi venuti a contatto con i mercanti di campagna, cioè la borghesia, che giungevano in carrozza nelle tenute, i mercanti si stavano quindi arricchendo e stavano migliorando le loro condizioni economiche e di vita, sulle spalle dei bifolchi). Destinatari della rivolta: A) Mercanti di Campagna B) Non lo stato (Lo stato non è l’obiettivo politico della rivolta, i bifolchi infatti si aspettavano un aiuto da parte dello Stato, richiamato alla sua funzione di garante dell’ordine sociale, l’obiettivo è comunque il raggiungimento di una mediazione politica, cioè un compromesso). La protesta avviene sul terreno economico ed intende mantenersi su questo, senza ambizioni politiche, o di rivolgimento sociale. La protesta non ha iniziativa spontanea, ma c’è dietro un’organizzazione, è una protesta autonoma, il cui unico supporto esterno è dato da Don Luca Riccelli, che preso atto delle condizioni di vita dei bifolchi, dopo aver intrattenuto più volte conversazioni con alcuni di questi, riconosce loro la validità della protesta, a patto che avessero evitato di compiere atti di violenza, verso cose o persone, ovvero di portar via quanto di proprietà di altri; li aiuta a causa del loro analfabetismo a scrivere i manifestini. I manifestini sono scritti a mano, e sono diretti ai mercanti e allo Stato, vengono lasciati nelle capanne o dati ai capoccia. Il manifestino evidenzia la condizione umana giunta ormai quasi al di sotto del limite di sussistenza, ma esprime una consapevolezza nuova attorno ad alcuni diritti fondamentali e al modo di farli valere, la protesta così fa maturare una coscienza e una mobilitazione collettiva. Il manifestino testimonia inoltre una preparazione della protesta e una discussione preventiva degli obiettivi e degli strumenti di lotta. A causa della ridotta paga che ricevono, i bifolchi sono pieni di debiti, e costretti a continuare a lavorare per le tenute e per i mercanti di campagna, vedendosi così privati della loro unica libertà, ovvero la propria forza di lavoro, cioè le loro braccia. Il carattere della rivolta non è violento, e viene infatti ritenuto il percorso più efficace per il raggiungimento degli obiettivi. Le autorità di polizia durante le loro indagini convocarono anche i mercanti di campagna e il sacerdote che veniva visto come istigatore della rivolta. Il Riccelli confermò che da diversi anni faceva delle gite fuori Porta Portese, spingendosi verso le tenute e intrattenendo conversazioni con i bifolchi, ma negò di aver promesso aiuto a nessuno di loro, nel caso di abbandono generali dei lavori. Governo Il governo aveva acquisito tutte le informazioni, attraverso le indagini (rapporti delle forze di polizia mandate in spedizione e i verbali degli interrogatori dei bifolchi arrestati) le origini e gli sviluppi dell’agitazione contadina. L’orientamento del governo fu stabilito in sede di incontro tra il governatore di Roma, il cardinale segretario di Stato e lo stesso papa Gregorio XVI. La scelta fu di rifiutare un’azione meramente repressiva, e di svolgere un ruolo un ruolo attivo di mediazione tra le parti sociali in conflitto. Venne garantito ai bifolchi la difesa dei loro legittimi interessi, per la somministrazione di un vitto sano e di un giusto salario. Il governo considera i mercanti di campagna i principali responsabili della vicenda (anche perché questi non facevano parte delle classi dominanti della società a cui ci riferiamo). Nella giornata del 18 maggio 1832 la polizia 5 dispone la liberazione dei 10 campagnoli arrestati, così ammettendo la fondatezza delle loro ragioni, così facendo il governo fa sì che non nasca l’opportunità di compiere ulteriori atti, che potessero minarne l’autorità. L’obiettivo era quello di mantenere l’ordine pubblico, che rappresentava una delle ragioni irrinunciabili ed essenziali di legittimazione dell’autorità dello stato. La Direzione di polizia avrebbe poi effettuato opportuni controlli sulla qualità del pane somministrato. Il governo si interessa per due ragioni 1) Politiche (moti del 1831) Il governo così avrebbe dato un’immagine di debolezza. I moti nascono nel 1830 in Francia, e si verificano poi in tutta l’Europa. 1831: si crea la scissione Emilia- Romagna, Marche e Umbria, dallo Stato Pontificio, intervengono gli austriaci. 1832: austriaci e francesi controllano rispettivamente la Romagna, e Ancona (le Marche) etc. Tuttavia la paura principale era quella che questa rivolta fosse di natura prettamente politica. 2) Sanitarie (colera) Sul piano sanitario la somministrazione di un vitto di cattiva qualità era considerata molto pericolosa da un punto di vista profilattico in relazione alla particolare contingenza del minacciato diffondersi nello Stato di un’epidemia di colera; lo stato era preoccupato del fatto che non rispettando gli standard minimi di igiene, la possibile diffusione del colera sarebbe accresciuta Camera di Commercio di Roma La Camera di Commercio di Roma istituita l’8 luglio 1831, è un organo consultivo del governo in materia economica, di attività commerciali, avendo al riguardo una facoltà di vigilanza e di proposta. La Camera era composta da 15 membri, compreso il presidente, i quali dovevano essere tutti negozianti distinti per probità e per relazioni commerciali. La camera di commercio viene introdotta nel periodo napoleonico, ha infatti quest’organo origini francesi. Il presidente della Camera di Commercio, provvede a convocare il pomeriggio del 20 maggio 1832, una seduta del Consiglio allargata ai principali mercanti di campagna, tra cui anche i fratelli Merolli. La Camera era stata interpellata dal governo, per la fissazione di più eque retribuzioni per i salariati agricoli. La lettera del presidente della camera è importante perché mostra l’emergere di una chiara solidarietà di interessi fra la Camera e i mercanti di campagna. Esprimendo solidarietà ai MDC entra in polemica con il governo, molto strano, dato che siamo in uno Stato Assoluto, che la stessa camera è un organo di governo. 1) Fu un caso molto particolare Il governo invia carteggi, e anche il pane dei mercanti di campagna, ma la camera lo riduce ad un caso particolare, lo definisce (il pane) inumano, ingiusto, ma lo riduce ad un singolo episodio, che riguarda solo un certo mercante di campagna, non ammette quindi che questo rappresenta un caso generale, ma invece un caso limite, un’eccezione. 2)Concorso di responsabilità: governo e proprietari fondiari: A) a suo avviso (della camera) il governo si era dimostrato incapace di esercitare i propri compiti in materia di sorveglianza annonaria, quel pane infatti era comunque stato prodotto nei forni di Roma e ci si chiedeva come fosse possibile che sotto la Presidenza dell’Annona e dei tanti agenti incaricati della salubrità dei cibi venali fosse stata possibile la vendita nei forni pubblici di un pane di pessima qualità. I mercanti di campagna da imputati si trasformarono in critici esaminatori della funzionalità degli 6 apparati burocratici e in dispensatori di raccomandazioni al governo. Il presidente della Camera non volle opporre un netto rifiuto, che avrebbe suonato come aperta sfida al governo, ma cercò di guadagnare tempo, ponendo l’esigenza di un approfondito esame della questione. B) Proprietà fondiaria: i proprietari delle tenute, ovvero coloro che concedono in affitto le terre ai mercanti di campagna, vengono attaccati dalla Camera, secondo la quale una parte della responsabilità ricade proprio su questi. I proprietari fondiari infatti farebbero ricchezza sulle spalle dei mercanti di campagna, che vedendosi aumentati le corrisposte di affitto a saggi gravosissimi, sarebbero stati costretti per tutelarsi dalle perdite, a risparmiare sui salari e sulle spese a danno dei poveri operai. La Camera si attacca quindi ai vincoli giuridici presenti sulla proprietà, che ostacolano l’accesso alle forze economiche emergenti, in assenza dei quali la proprietà sarebbe andata al mercato, cosicché tutti ne avrebbero potuto disporre, e non solo le due classi dominanti ovvero il clero e l’aristocrazia. Questo però viene fatto passare dalla Camera come una necessità per migliorare le condizioni di vita dei bifolchi. Inoltre i proprietari fondiari avrebbero dovuto effettuare investimenti, al fine di garantire ai bifolchi un proporzionato numero di abitazioni rurali (costruzione di casali), dato che godevano di accresciute disponibilità finanziarie, e dovevano quindi essere posti di fronte alle loro responsabilità nei confronti della comunità. Ne sarebbe derivato un beneficio per i salariati, per le attività produttive e anche sul piano demografico. 3)Propone un Regolamento di Polizia rurale: aumentano i controlli, cioè lo Stato avrebbe dovuto fornire uno strumento per controllare i lavoratori, il fine è quello di disciplinare in modo organico i rapporti tra i mercanti di campagna e i lavoratori; sebbene gli Statuti dell’Agricoltura contenessero già una serie di norme in materia, si poneva l’esigenza di un aggiornamento e di una ridefinizione. In particolare la camera avanzò una richiesta di un libretto del lavoro, che avrebbe dovuto avere anche la funzione di carta di sicurezza al fine di allontanare la gente sospetta di vagabondaggio e di delitti, e rassicurare il governo ed il pubblico, della loro condotta. La proposta della Camera mirava obiettivamente a consolidare il potere di controllo dei mercanti di campagna, sulla manodopera agricola. 4)Contrari a w minimo: principi di liberismo economico La Camera dichiara la propria netta opposizione di principio ad un provvedimento che fissasse per legge un salario minimo, e di preciso un salario superiore a quello corrente di mercanto, violando la libera contrattazione tra le parti, e quindi in liberismo economico che si basa sul principio di incontro tra domanda e offerta. Il salario secondo la Camera deve essere lasciato alla libera contrattazione tra le parti anche se chiaramente queste non sono in una posizione equa, cioè i datori di lavoro hanno una forza maggiore rispetto ai lavoratori; anche perché poi ogni singola classe di lavoratori avrebbe poi voluto ricevere lo stesso trattamento, e gli stessi vantaggi dei bifolchi, cioè il salario minimo, quindi tali posizioni sarebbero state estese ad altri rapporti di lavoro salariato.. Contraddizione Camera: Rifiuto ideologico dell’intervento dello Stato per il w minimo, ma favorevoli a un aumento dei controlli (quindi richiesta intervento Stato). La contraddizione sta nel fatto che abbiamo una posizione ambivalente, la richiesta di una posizione liberista su un fronte, e poi la ricorsa allo Stato per altri aspetti. Nelle fasi espansive i ceti produttivi, chiedono uno Stato che resti sullo sfondo e che agisca il meno possibile, in quelle recessive invece uno Stato interventista. 7 Effetti rivolta I bifolchi ottengono un miglioramento del vitto del salario in natura, in qualità e quantità. Viene riconosciuto che la qualità non è adeguata, i MDC vengono richiamati a fornir un pane di qualità, che rispettasse gli standard minimi igienici, e anche in quantità (Si era inoltre determinato uno squilibrio fra salari reali e salari monetari, per effetto del consistente incremento dei prezzi dei beni di consumo primari, la mutazione di circostanze commerciali e politiche faceva in modo che i commestibili di prima necessità costassero il doppio rispetto a tempi precedenti.) Ci fu un adeguamento quantitativo. Venne ideata l’opportunità che la quota di salario in natura fosse determinata in termini quantitativi e non monetari al fine di garantire una razione alimentare costante nel tempo. Multe ad alcuni mercanti di campagna, alcuni, cioè solo pochi mercanti di campagna, questo per ribadire che il caso fosse un caso limite. Mercanti non sconfitti: non concesso un aumento del w nominale, il salario nominale quindi non venne adeguato, quanto meno per recuperare il potere di acquisto che si aveva alla fine del ‘700. Gli effetti sarebbero stati oltre che per difendere il liberismo economico, che si avrebbe avuto un riconoscimento contrattuale dei bifolchi, future rivolte contadine, e anche altre categorie produttive avrebbero richiesto adeguamenti salariali. Effetti azione di governo Merito di ricucire senza repressione: interviene rapidamente, cerca di conciliare le parti (riconosce in prima battuta le ragioni della protesta dei bifolchi, ma alla fine i MDC ottengono il mantenimento del w nominale, infatti i veri vincitori sono gli stessi MDC) senza utilizzare lo strumento della repressione. Non concedendo l’aumento del salario nominale, e questo può essere definito come il tramonto della dottrina del giusto prezzo e del giusto w, mostra l’arretramento di uno Stato interventista e dirigista, di solito era lo stato a stabilire il p e il w.; avrebbe quindi potuto adeguare i salari ma non facendolo rinuncia a questa filosofia di giusto salario. Brevi considerazioni finali La mancanza di villaggi e di comunità, è la causa dell’assenza di precedenti rivolte, molti lavoratori erano stagionali, e provenivano da zone diverse. La categoria dei bifolchi presentava delle caratteristiche distintive definite: A) Maggiore durata e stabilità del rapporto contrattuale. B) La prestazione di un lavoro relativamente qualificato. C) La provenienza in massima parte dall’area romana e dalla regione laziale. Rappresenta una forma tra le più primitive di protesta industriale, o di un caso di transizione tra l’uno e l’altro modello (quello pre-industriale). La protesta ebbe un periodo di gestazione e di preparazione di 2-4 settimane, la preparazione avvenne nottetempo in incontri tra bifolchi. 8 CAP 1- LAVORO E SOCIETA’ La storia del lavoro nei 140 anni trascorsi dalla fondazione del Regno d’Italia ha visto due grandi cambiamenti: 1) la diminuzione del tasso di attività 2) gli spostamenti della popolazione attiva tra i settori produttivi. 1) Nel 1861, quasi 2 abitanti su 3 appartenevano alla popolazione attiva (2/3 agricoltura; 1/3 tra industria e servizi), svolgevano cioè un’attività lavorativa volta ad ottenere un reddito, ma la situazione cambia negli anni 70 del ‘900, all’apice della crescita dell’occupazione industriale, dove risulta essere attiva poco più di 1 persona su 3. Questo cambiamento non è dipeso da un aumento della disoccupazione in quanto i disoccupati sono considerati parte della popolazione attiva proprio perché in cerca di una occupazione. La popolazione non attiva è costituita da coloro che non lavorano e non sono in cerca di un’occupazione retribuita. Tre sono i fattori che hanno determinato la diminuzione del tasso di attività: a. Crescita della scolarità ha comportato un ingresso ritardato delle nuove generazioni nel mondo del lavoro. L’obbligo scolastico nel Regno d’Italia era di due anni, nel 1904 sotto il Governo Giolitti l’obbligo fu alzato a 12 anni (VI elementare) e con la Legge Gentile del 1923 fu alzato ulteriormente a 14 anni; ad oggi l’obbligo scolastico è fino a 15 anni. b. Sviluppo del sistema pensionistico insieme al progressivo innalzamento della speranza di vita ha comportato la crescita della quota di popolazione anziana ritirata dal lavoro. La speranza di vita è cresciuta dai 41 anni del 1861 ai 77 anni di oggi. Gli anziani, in assenza di assicurazione contro la vecchiaia, erano costretti a lavorare fino a che ne avevano la capacità fisica, oggi la terza età promette indipendenza e tempo libero. c. Aumento del numero delle casalinghe fenomeno connesso all’esodo dalle aree rurali e alla crescita della popolazione nelle città. Con il passaggio dalle attività agricole a quelle industriali e dei servizi, le donne si sono inserite meno frequentemente nel mercato del lavoro urbano quindi tra il 1950 e il 1970 si è diffusa la figura della casalinga a tempo pieno. Dagli anni 70 ad oggi il tasso di attività ha visto una lieve risalita soprattutto per via della maggior presenza delle donne nel mercato del lavoro anche se nel censimento del 1991 risulta ancora alto il numero di casalinghe (9.3 milioni). Accanto alla diminuzione del tasso di attività si è verificata una riduzione dell’orario di lavoro: si è passati da 70 e più ore settimanali della fine dell’800 alle 48 nel primo dopoguerra fino ad arrivare alle 40 ore settimanali odierne (il part-time è poco diffuso e inoltre sempre nel primo dopoguerra vengono introdotte le ferie retribuite). Nonostante la diminuzione del tasso di attività e del tempo di lavoro, la crescita della produttività del lavoro, connessa al divenire della società industriale e al progresso tecnologico ha consentito di accrescere la produzione nell’unità di tempo e di migliorare enormemente il tenore di vita. Nell’economia prevalentemente agricola del passato erano attive molte persone dai lavori saltuari e a tempo parziale. Anche nelle imprese industriali una grande quota della manodopera aveva rapporti di lavoro instabili, per via della forte stagionalità dell’attività produttiva. Con l’industrializzazione si è progressivamente affermata la tendenza alla creazione dei posti di lavoro stabili e a orario pieno. Inoltre, con la riduzione dell’orario di lavoro, si è registrato un aumento del lavoro straordinario o del doppio lavoro. 9 2) La seconda grande trasformazione è stata il passaggio di forze di lavoro dal settore primario alle attività extra agricole. Negli anni 20 l’agricoltura occupava ancora la metà della popolazione attività, e ha conservato il primato tra i tre settori fino al 1951 (42,2% agricoltura 32,1 % industria e 25,7% terziario). Successivamente, il boom economico (1951-1961) ha trasformato milioni di contadini in lavoratori industriali e dei servizi tanto che l’industria nel 1971 ha raggiunto la quota massima di addetti (44,4%) per perdere dieci anni dopo il primato a favore del terziario. L’attuale distribuzione della popolazione attiva vede l’agricoltura al 6,6%, l’industria al 32% ed infine i servizi al 61,4%. Questo cambiamento è stato accompagnato dalle migrazioni dalle aree rurali ai centri urbani. Nel 2019 la popolazione attiva era divisa in: agricoltura 3,9%; servizi 70%; industria 26%. I GRUPPI SOCIALI DALL’UNITA’ A FINE SECOLO Nel 1861 l’agricoltura rappresentava il 70% della popolazione attiva, quota che sottolineava l’arretratezza italiana nei confronti degli altri Paesi europei. Nel 1881 la quota scende al 65% fino ad arrivare nel 1901 al 58,4%. La struttura sociale delle campagne era complessa e variegata caratterizzata dalla presenza di figure occupazionali miste (persone che svolgevano sia lavoro autonomo sia lavoro dipendente). Ciò rendeva difficile la loro classificazione nelle condizioni professionali, i criteri variavano in base agli interessi del ceto dirigente. I dati nazionali però non fanno emergere le differenze regionali. In Val Padana con l’estensione delle aziende capitalistiche, diventò consistente il numero dei braccianti, che trovarono occasioni aggiuntive di lavoro nelle bonifiche stesse. Gli imprenditori agricoli, proprietari o grandi affittuari, si servivano di figure gerarchiche intermedie, intendenti o fattori, mentre la manodopera era assicurata da braccianti soprattutto stagionali. In Val Padana si poteva distinguere l’area del “bracciato classico” e l’area della “cascina lombarda”. Nell’alta pianura padana e nella fascia collinare pedemontana predominavano la piccola proprietà, il piccolo affitto e la colonia parziaria. Nel mezzogiorno e nell’Agro romano prevaleva il latifondo, la terra continuava a essere coltivata a cerealicoltura estensiva da contadini poverissimi versando una rendita ai proprietari. In vaste zone delle regioni centrali prevaleva un’altra forma tradizionale di conduzione, mezzadria il raccolto veniva diviso con il proprietario, latifondista o borghese urbano, secondo proporzioni prestabilite, con l’obbligo aggiuntivo per il mezzadro di prestazioni di vario genere. In tutte le regioni era infine diffusa la piccolissima proprietà, con i contadini che producevano in buona parte per l’autoconsumo e le eccedenze venivano vendute. Nell’ultimo quarto dell’800 la crisi agricola dell’età della grande depressione aggravò le difficoltà derivanti dalla crescita demografica. In assenza di uno sviluppo industriale sufficientemente robusto e geograficamente omogeno da assorbire la manodopera agricola eccedente, le aree rurali erano gravate da una crescente sovrappopolazione, che prese ben presto ad alimentare l’emigrazione. L’emigrazione di massa all’estero agì da valvola di sfogo per la sovrappopolazione e scongiurò l’ulteriore impoverimento dei contadini delle zone arretrate. Nel 1901 la crisi della piccola proprietà avrà 2 conseguenze: 10 1. l’aumento dei lavoratori dipendenti comporta la diminuzione dei proprietari terrieri; 2. nascono le leghe bracciantili ed erano più diffuse nella Pianura Padana perché c’erano già le imprese capitalistiche. I LAVORATORI INDUSTRIALI La prima significativa rilevazione statistica sull’industria nel nuovo stato unitario dovette attendere il 1876. Il numero dei lavoratori industriali di fabbrica ammontava solo a 382.181 su una popolazione di 28 milioni di abitanti. Il settore tessile dominava largamente, prevaleva nettamente la lavorazione della seta. Anche dai dati risultanti dal secondo censimento del 1881 il settore tessile dominava. L’industria tessile impiega manodopera in gran parte femminile e minorile di scarsa qualificazione; ma l’uso delle macchine era ancora limitato, e si ricorreva al lavoro a domicilio. Gli stabilimenti venivano spesso costruiti allo sbocco delle valli, in prossimità dei corsi d’acqua usati come fonte di energie. Con la crescita demografica, lo spostamento di popolazione dalle campagne alle città si fece consistente, questo perché vi era forza lavoro in eccesso: i giovani di entrambi i sessi si spostavano per cercare occupazione nel mercato del lavoro urbano. Esistevano alcuni isolati grandi impianti metallurgici, di grande meccanica e cantieristici, per esigenze della produzione militare e dei trasporti ferroviari. Tuttavia, buona parte della produzione manifatturiera era ancora assicurata da piccole aziende artigiane e nel 1881, gli artigiani rappresentavano ancora il 16% della popolazione attiva. Con il progressivo affermarsi dell’economia di mercato e dell’impresa capitalistica, gli artigiani furono investiti dai processi di separazione dei lavoratori dal possesso degli strumenti di lavoro. Tra il 1881-1901 il numero degli artigiani si ridusse da 2.300.000 a un milione circa, fu così drastica che la quota degli artigiani sulla popolazione attiva scese al 6.8% (il calo fu vistoso al Sud). La fine della grande depressione coincise, nell’ultimo lustro dell’800, con l’avvento dell’elettricità come forza motrice a disposizione degli impianti produttivi e questo permise di allontanarsi dai corsi d’acqua e di costruire nuovi stabilimenti nelle periferie delle città vicino alle linee ferroviarie utilizzate per il trasporto delle materie prime. La quota della popolazione attiva addetta al settore secondario aumentò, crebbe il numero degli operai che intorno al 1903 era di 1.400.000 addetti. A metà dell’800, gli stabilimenti che concentravano una numerosa forza lavoro industriale appartenevano all’industria tessile. Al di fuori del tessile, gli stabilimenti di grande dimensioni erano per lo più arsenali e fabbriche d’armi, o le manifatture tabacchi. A inizio ‘900, le più importanti concentrazioni operaie nel tessile erano eguagliate dalle fabbriche dei nuovi settori trainanti dell’industria metallurgica, meccanica, chimica. Nel tessile e nell’industria dell’abbigliamento prevaleva nettamente la manodopera femminile, numerosa anche nell’industria alimentare. 11 I LAVORATORI DEI SERVIZI All’indomani dell’Unità il settore terziario era ancora poco sviluppato, la quota degli addetti ai servizi sulla popolazione attiva era del 17,9 % nel 1901 (12,2% nel 1861). L’impiego relativamente elevato di lavoro nei servizi era dovuto alla mancanza di importanti innovazioni tecnologiche e organizzative. Il numero degli addetti al commercio era ancora ridotto perché le merci erano in buona parte scambiate su mercati e fiere locali, vendute direttamente nei centri urbani dai contadini, mentre anche le botteghe artigiane vendevano direttamente alla clientela propria. Nel 1901, il numero degli addetti al commercio era salito da 565 mila del 1881 a 675 mila; gli addetti ai trasporti salirono da 380 mila a 450 mila. Nell’ultimo ventennio del secolo, il rapido ampliamento della rete ferroviaria e la diffusione di tranvie urbane e suburbane determinò la formazione di nuove figure di lavoratori dipendenti, ferrovieri e tranvieri per l’appunto. Lo sviluppo delle città fece crescere il trasporto delle merci e aumentò le occasioni di lavoro di facchinaggio. La quota di dipendenti nei trasporti aumentò così rapidamente raggiungendo 1 addetto su 3 ad inizio secolo. Tuttavia, la categoria di lavoratori dipendenti del terziario più numerosa era quella degli addetti ai servizi domestici (personale degli alberghi, della ristorazione e i domestici delle case private). Nel 1881 si contavano circa 400 mila addetti nella PA mentre nel 1901 si contavano più di 500mila unità. LO SLANCIO INDUSTRIALE DEL PRIMO 900 E LA FORMAZIONE DEL PROLETARIATO INDUSTRIALE Tra i censimenti del 1901 e del 1911 non si registra alcuna accelerazione rispetto ai decenni precedenti nel trasferimento di forze lavoro dall’agricoltura all’industria e ai servizi. Nel ventennio che va dall’ultimo lustro dell’800 allo scoppio della prima guerra mondiale, la struttura occupazionale all’interno dei settori registrò notevoli variazioni. In agricoltura si ebbe un’ulteriore spinta al processo di proletarizzazione, con una diminuzione dei coltivatori in proprio e dei fittavoli e una crescita dei braccianti e salariati. Nell’industria gli addetti crebbero almeno di mezzo milione di unità, in particolari nei settori dell’industria energetica, della chimica, della carta e della metalmeccanica, a discapito del settore tessile. Nel terziario i comparti che si espansero più rapidamente furono i servizi creditizi, i trasporti e la pa. Dal primo vero e proprio censimento industriale, effettuato nel 1911, risultava che il tessile fosse il primo settore (21.9% di addetti), l’industria meccanica occupava il secondo posto (15.9%), seguivano le industrie alimentari (13%), la lavorazione del legno (9.7%), la lavorazione dei minerali (8.4%), quella dell’abbigliamento (8.2%), la lavorazione delle pelli (5.7%) ecc. il totale sul quale sono state calcolate queste % era di 2.181.000 addetti. Emergono dunque 3 realtà occupazionali: 1. fabbriche tessili, che occupavano 1/5 della manodopera, il 98% degli addetti lavorava in imprese con più di 10 occupati (numero medio x impresa era di 139 occupati); 2. comparti moderni e oligopolistici, occupavano intorno al 10% degli addetti; 3. settori tradizionali di origine artigianale (dall’industria alimentare al legno, al vestiario e alle pelli), di gran lunga la più numerosa. 12 Lo sviluppo industriale aveva comportato un aumento dei divari regionali, la metà del totale degli addetti all’industria era concentrata nelle 3 regioni del Nord-ovest (Lombardia ¼ del totale, Piemonte e Liguria). Il tasso di addetti all’industria sulla popolazione attiva per la Lombardia era del 35,6%, Liguria 31,7% ed infine il Piemonte con 26.4%. la distribuzione per settori merceologici dell’industria lombarda e piemontese mostrava una vasta articolazione con una presenza significativa di tutti i settori, ma con una forte rilevanza del settore tessile, per l’antica industrializzazione delle due regioni. In Liguria invece l’industria era dominata dal settore meccanico e dal metallurgico. Lo sviluppo economico di inizio secolo aveva dato avvio a quella che può essere definita la seconda fase dell’industrializzazione italiana, quella delle città industriali. Nel triangolo industriale Torino- Milano-Genova si era formato un numeroso proletariato di fabbrica che alimentò il conflitto industriale, che si traspose in campo sociale e politico. Nelle grandi città industriali emersero due nuovi soggetti, gli imprenditori e gli operai di fabbrica. I nuovi gruppi imprenditoriali venivano assumendo sempre maggior peso culturale e politico, introducendo le fondamentali innovazioni della prima e seconda rivoluzione industriale. In età giolittiana fece la sua comparsa un terzo tipo di imprenditori, caratterizzati dalla formazione universitaria, da un approccio scientifico e tecnologico, propensi a valorizzare un’etica produttivistica, a guadagnare consenso affermando il proprio contributo al progresso economico-sociale, e disposti a riconoscere, entro i limiti, che il conflitto di interessi era connaturato alla società industriale. Gli imprenditori si collocavano ora con maggior forza sulla scena politica, attraverso l’associazionismo sindacale ed economico, che si tradusse in una prima fondazione della Confederazione dell’industria nel 1910 e nel potenziamento dell’Associazione tra le spa. Data la diffusione della piccolissima impresa, i confini tra classe operaia, lavoro autonomo e piccola imprenditoria non erano rigidi, anzi piuttosto permeabili ai passaggi in entrambe le direzioni. L’incremento dei posti da impiego nell’industria e nel terziario privato era però ancora lento. Tra il 1904 e il 1907 furono approvate ben 55 leggi per l’allargamento degli organici della pubblica amministrazione. Con l’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale, le strutture industriali del paese furono sottoposte a uno sforzo gigantesco per rifornire le truppe di armi, munizioni, divise, mezzi di trasporto ecc. Il sistema di assegnazione degli ordinativi statali favorì le grandi imprese. La guerra agì così da levatrice della grande impresa italiana. Nel 1918, all’apice dell’occupazione per la produzione di guerra, il gruppo Fiat sfiorò i 40mila operai, il gruppo facente capo all’Ilva raggiunge il doppio dell’occupazione della Fiat. Si intensificarono i movimenti migratori verso le città determinando un ulteriore accrescimento della popolazione urbana e degli strati proletari al suo interno. Aumentò, inoltre, l’occupazione dei giovani e della manodopera femminile. Al termine del conflitto, ci furono problemi legati alla smobilitazione e alla riconversione produttiva. Nelle campagne, le promesse fatte durante la guerra di una futura redistribuzione delle terre ai contadini-soldati provocarono dei conflitti con braccianti, contadini poveri e mezzadri. Con la smobilitazione dell’esercito si presentò il problema del reimpiego dei reduci, il ritorno delle donne alle faccende domestiche per far posto ai reduci era appoggiato da tutti gli schieramenti politici. Si aprì un’aspra discussione sull’andamento dei salari negli anni di guerra: c’era chi sosteneva che gli operai delle fabbriche mobilitate avevano ottenuto alti livelli retributivi, altri opponevano 13 l’erosione dei salari a opera dell’inflazione. Forse certi gruppi operai avevano davvero ottenuti buoni guadagni ma questo perché in alcuni casi il loro orario di lavoro superava le 70 ore settimanali. Un importante fattore influenzò negativamente la situazione occupazionale nel periodo interbellico: il venir meno dell’emigrazione come valvola di sfogo della sovrappopolazione relativa, in parte a causa delle restrizioni imposte dagli Stati Uniti, in parte per le difficoltà economiche del dopoguerra e della crisi del 1929-33. Discorso Ascensione Mussolini1927 Egli iniziò a considerare la ricerca del lavoro all’estero un danno, un’offesa per la nazione. L’emigrazione stabile fu combattuta, quella temporanea tollerata. Dopo la ripresa del protezionismo agrario con la “battaglia del grano” (1925) e i progetti di “bonifica integrale”, furono adottate, a partire dalla fine del 1928, misure contro l’urbanesimo volte a frenare l’emigrazione dalle campagne verso le città. Nel mondo rurale i rapporti familiari e comunitari nascondevano i disoccupati, che avrebbero potuto creare problemi di ordine pubblico se concentrati nelle città. Fu lanciata la parola d’ordine della “sbracciantizzazione”, che puntava a ridurre la consistenza del proletariato rurale favorendo la conduzione diretta. I censimenti mostrarono, tra il 1921 e il 1936, una consistente diminuzione dei braccianti e un correlativo aumento dell’imprese familiari, in particolare affittuari e mezzadri. Questi cambiamenti sono riconducibili a politiche di sostegno alla conduzione in proprio che non puntavano tanto allo sviluppo di una piccola proprietà autonoma e robusta, quanto piuttosto al rilancio di rapporti tradizionali di mezzadria e di compartecipazione. Il sostegno alla piccola conduzione e le norme antiurbanesimo riuscirono a frenare i flussi migratori in direzione dei maggiori centri urbani, ma non li bloccarono. Il principale effetto di queste norme fu la formazione, nelle grandi città, di un segmento di mercato del lavoro semiclandestino, che si affiancava a quello della manodopera sottoccupata. Al termine della depressione mondiale dei primi anni trenta, il riassorbimento della disoccupazione fu lento e parziale, nonostante la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore imposta nel 1934. Il censimento industriale condotto tra il 1937 e il 1940 evidenziò la crescita delle industrie meccaniche, che giunsero a superare il settore tessile con il 21% degli addetti agli esercizi industriali contro il 18%. Crebbero ulteriormente i divari regionali, a favore del triangolo industriale. Le persistenti difficoltà occupazionali furono affrontate dal regime fascista nell’ambito di una politica della famiglia che tendeva a rafforzare la tradizionale differenziazione dei ruoli di genere: la donna doveva essere madre e casalinga. I provvedimenti di controllo e limitazione dell’assunzione di personale femminile (più nel settore dei servizi e del pubblico impiego) non ebbero di per sé effetti determinanti, solo qualche vantaggio per l’occupazione maschile. Una certa quota di manodopera femminile, più conveniente sotto il profilo economico, non fu mai contestata alle aziende industriali, specie quelle impegnate nella concorrenza internazionale. Il regime fascista operò in senso protettivo, introducendo norme a tutela delle lavoratrici in maternità. Tra il 1921 e il 1936 la percentuale delle donne sul totale degli addetti all’industria scese mentre nel terziario salì. Questa diminuzione fu dovuta non tanto alla politica fascista della famiglia quanto alla perdita di peso del settore tessile a fronte della crescita dell’industria pesante, 14 della meccanica, dell’industria energetica e chimica. Si rafforzò invece la presenza delle donne nel lavoro a domicilio. Nel terziario le politiche a sostegno dell’occupazione maschile ebbero un impatto maggiore: rallentarono la tendenza alla femminilizzazione dell’occupazione impiegatizia ai livelli medio-bassi (es. preferenza nelle assunzioni e negli avanzamenti di carriera per i capi famiglia, limitazione o impedimento dell’accesso ai concorsi per le donne). La nuova espansione dei centri urbani favorì l’allargamento delle attività di intermediazione, aprendo opportunità di mobilità ascendente anche per persone di scarsi mezzi e limitata formazione. Crebbe con particolare rapidità il commercio ambulante. Dal punto di vista della distribuzione del reddito va notato che, mentre gli operai e i braccianti, che avevano ottenuto dei miglioramenti salariali nel biennio postbellico, subivano i provvedimenti fascisti, la piccola borghesia veniva favorita sia dalla politica deflazionistica che tutelava i redditieri e i risparmiatori con il rafforzamento della lira, sia dalla creazione di nuovi posti di lavoro. Alla vigilia della prima guerra mondiale, i ceti medi impiegatizi godevano di retribuzioni superiori rispetto a quelle degli operai. Questa ampia differenziazione dei redditi si ridusse con le conquiste sindacali del primo dopoguerra. Ma con l’avvento del fascismo i miglioramenti retributivi ottenuti da operai e braccianti vennero erosi. Gli impiegati pubblici recuperarono il potere d’acquisto perduto tra guerra e dopoguerra. Oltre alle differenze di paga, gli impiegati godettero anche di condizioni normative e di trattamenti previdenziali più vantaggiosi di quelli riservati agli operai. Con l’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale vennero abrogate le norme limitative dell’impiego femminile, a eccezione delle località ove fosse esistita disoccupazione maschile. L’occupazione aumentò fino al 1943, nel 1945 la disoccupazione ufficiale raggiunse i 2 milioni di persone, e si presentò, assieme all’inflazione, come il massimo problema economico lasciato in eredità dal conflitto. LA GRANDE TRASFORMAZIONE- La ricostruzione Al termine della guerra fu decretato il blocco dei licenziamenti nelle imprese con più di 35 addetti. Nell’immediato dopoguerra, nonostante l’oggettiva debolezza sul mercato del lavoro, il movimento operaio e contadino ottenne successi sul piano contrattuale, dato il clima di mobilitazione politica seguito all’impegno vittorioso nella lotta resistenziale. Gli imprenditori erano poco propensi a un immediato rilancio degli investimenti. Dopo la rottura dell’alleanza tripartita e l’uscita della sinistra dal governo, nell’agosto del 1947 l’inflazione fu affrontata dal ministro del Bilancio Luigi Einaudi con un deciso intervento di restrizione del credito che determinò un aumento della disoccupazione. La depressione durò fino al 1950, poi la ripresa internazionale e le commesse per la guerra di Corea avviarono i primi passi verso il miracolo economico. Finita la guerra, la sovrappopolazione agricola era sul punto di rompere gli argini. L’emigrazione diventò di nuovo una valvola di sfogo. La legge antiurbanesimo del 1939 fu mantenuta fino al 1961: nell’immediato dopo guerra era ritenuta utile a consentire l’assorbimento dei disoccupati urbani, poiché riduceva la concorrenza dei nuovi immigrati delle campagne. Sempre allo scopo di rallentare l’esodo verso le città, i governi a guida democristiana ripresero le politiche di sostegno alla piccola proprietà coltivatrice, 15 introducendo agevolazioni fiscali e creditizie per l’acquisto di terreni e macchinari e con i provvedimenti di riforma agraria del 1950-51. Negli anni 50 l’Italia si trasformò da paese agricolo in paese industriale, l’agricoltura perse il primato occupazionale e nel 1961 la sua quota si ridusse al 29.1% mentre quella dell’industria e dei servizi era rispettivamente 40.6% la prima e 30.3% la seconda. IL MIRACOLO ECONOMICO 1951-61 La crescita economica si concentrò ancora una volta nel Nord e nel triangolo industriale. Mentre le zone di montagna di spopolavano in tutto il paese, i grandi centri urbani vedevano peggiorare le condizioni ambientali, per le gravi carenze dei servizi e la mancanza di abitazioni. Nello stesso periodo le regioni del Meridione persero 1.8 mln abitanti. I flussi si divisero a metà tra l’estero e il Nord, la disoccupazione diminuì considerevolmente, dall’8-10% dei primi anni 50 al 3% del 1962. La forza lavoro disponibile venne assorbita solo in parte dall’industria manifatturiera (settore meccanico), l’occupazione crebbe ancor più rapidamente nell’industria delle costruzioni e nel commercio. L’abbondante manodopera liberata dalle campagne trovò collocazione anche nell’edilizia e nel commercio. Il “miracolo economico” si tradusse nel consolidamento e nella crescita del tessuto delle piccole aziende, che registrarono i più consistenti incrementi degli addetti: tra il 1951 e il 1961 l’occupazione crebbe dell’8% negli stabilimenti con oltre 1000 addetti e del 14,5% in quelli tra 500 e 1000 addetti; aumentò del 73,8% nelle fabbriche tra 6 e 50 addetti. Tra il 1961-71 aumentò il peso dell’aziende con addetti tra 11 e 50 a discapito delle imprese con massimo 10 addetti. La piccola impresa andò incontro ad un processo di ristrutturazione e consolidamento delle dimensioni piccole e medie, nei settori dei mobili, tessuti, abbigliamento, calzature, produzioni metalliche e meccaniche, a fronte della selezione che eliminò attività artigianali e piccolissime. Per buona parte degli anni 50 l’elevata offerta di lavoro incise negativamente sui salari degli operai in quanto le paghe crebbero meno della produttività (elevata offerta di lavoro; rottura unità sindacale). Tra il 1960 e il 1963 la grande fase espansiva giunse al culmine, ma lo sviluppo non avvenne più a salari fermi, in quanto con la diminuzione della disoccupazione gli operai riuscirono, tra il 1959 al 1962, ad ottenere i primi aumenti salariali. Nell’ottobre 1963 le autorità monetarie decisero misure restrittive del credito che provocarono un biennio di recessione: nel 1965 l’occupazione industriale risultava diminuita del 4% rispetto al 1963. Poiché il maggior costo del denaro incideva più pesantemente sugli investimenti delle piccole imprese, furono colpite in particolare le componenti della manodopera industriale più frequentemente impiegate dalle aziende minori: donne e minori il tasso di occupazione femminile e giovanile iniziò a decrescere per poi stabilizzarsi a un livello inferiore. Questa diminuzione non è imputabile solo a fenomeni di espulsione e disincentivazione al rientro sul mercato del lavoro ma anche perché “la moglie a casa” diventava un obiettivo dichiarato e motivo di soddisfazione per molti operi. A fine anni 50 iniziarono a delinearsi fenomeni di segmentazione dei lavoratori, a fine anni 70 si potevano distinguere almeno 3 settori: 16 1. Manodopera centrale della media e grande industria, a occupazione relativamente stabile e garantita, costituita in prevalenza da uomini delle classi di età centrali, quelle più produttive per resistenza fisica e qualificazione. Era inoltre sindacalmente forte e legislativamente protetta, specie dopo l’introduzione dello statuto del lavoratore (1970). 2. Il secondo settore era la forza lavoro periferica, ad ampia presenza femminile, giovanile e di manodopera anziana non qualificata, legata a occupazioni precarie o stagionali nelle piccole aziende, nell’artigianato, nel lavoro a domicilio e nelle microimprese di servizi. 3. Lavoratori del terziario pubblico, a occupazione stabile, la cui espansione era legata alla crescita dell’intervento e dell’incombenze amministrative dello stato e del parastato. Uno dei fenomeni più significativi dello sviluppo italiano è stato l’emergere della “terza Italia”: le regioni del Nord-est e del Centro protagoniste dello sviluppo dei distretti industriali in cui il radicamento sociale della piccola impresa è elevatissimo e i rapporti di lavoro sono fortemente improntati ai legami comunitari. Tra il 1966 e il 1968 l’economia si riprese, la produttività tornò a crescere più dei salari. Si aggravò la congestione dei maggiori centri urbani al Nord, data la carenza e il costo elevato dei servizi e delle abitazioni. Le tensioni sociali si aggiunsero al malcontento diffuso nelle fabbriche in relazione a un’organizzazione del lavoro rigida e severamente disciplinata da criteri tayloristi e fordisti. NELL’AUTUNNO DEL 1969 ESPLOSERO LE LOTTE OPERAIE Motivi: -aumenti salariali uguali per tutti, -cambiamenti dell’organizzazione del lavoro; -lotta alla nocività. Tra il 1951 e il 1971 l’agricoltura perse quasi 5 milioni di lavoratori, nel 1971 la quota dell’industria sulla popolazione attiva aveva raggiunto il 44% mentre i servizi il 38%. Il rapido travaso dal settore primario al secondario e al terziario comportò rilevanti spostamenti tra i ceti e produsse importanti fenomeni di mobilità sociale. Crebbero tutte le categorie di lavoratori extraagricoli: gli addetti dell’industria aumentarono del 50%, ma al loro interno gli impiegati aumentarono del 70%; gli addetti al commercio raddoppiarono. Il numero dei piccoli commercianti continuò a crescere; il nuovo ceto medio impiegatizio crebbe a ritmo serrato: tra gli impiegati pubblici è stato particolarmente consistente l’aumento degli insegnanti. I cambiamenti nella struttura occupazionale possono costituire la base di alcune osservazioni sui mutamenti degli equilibri tra le classi sociali. Se si considerano i coltivatori diretti alla stregua degli altri lavoratori autonomi, come parte della piccola borghesia tradizionale, e a questa si sommano i nuovi ceti medi impiegatizi, si può sostenere che, nel processo di industrializzazione, piccola borghesia e proletariato hanno mantenuto grosso modo invariato il peso relativo che essi avevano all’inizio del secolo. Nell’alta borghesia è fortemente diminuita l’incidenza economica, sociale e politica dei grandi proprietari terrieri la cui posizione dominante fu occupata dagli imprenditori proprietari o comproprietari di grandi aziende, ai quali si sono affiancati i dirigenti delle Spa e i manager delle imprese a partecipazione statale. Nel ceto medio diminuiscono i coltivatori diretti, aumentano gli impiegati e i commercianti, restano stabili gli artigiani. Nella classe operaia diminuiscono i salariati agricoli, aumentano gli operai dell’industria e dei servizi. Se si considerano i coltivatori diretti come una categoria a sé 17 stante, si può sostenere che lo sviluppo industriale ha comportato una più netta collocazione o tra i ceti medi o tra la classe operaia di un’ampia quota di popolazione agricola dalla posizione sociale incerta. È difficile valutare se il passaggio dalla piccola proprietà agricola al lavoro operaio sia da considerarsi di segno positivo o negativo, in riferimento alla scala sociale; di certo, sotto il profilo economico, gli ex contadini ottenevano un reddito più stabile. Alla fine degli anni 60 la classe operaia aveva raggiunto un grande peso sociale, sia per la rilevanza numerica, con il lavoro salariato che sfiorava il 50% della popolazione attiva, sia per la presenza di grandi concentrazioni operaie nei maggiori stabilimenti. GLI ANNI 70 E 80: conflitto e ristrutturazione industriale Gli anni 70 furono caratterizzati da ristagno occupazionale, andamento produttivo altalenante, forte pressione inflazionistica e acuti conflitti sulla distribuzione del reddito. Negli anni 50 si era avuto un allargamento occupazionale nelle unità produttive di piccola e media dimensione. Nel decennio successivo, tra il 1961 e il 1971, la rapida ma pesante deflazione e la successiva ripresa avevano rafforzato le imprese maggiori. Tra il 1971 e il 1981, la crescita media del totale degli occupati fu pari al 12,2%, molto più bassa dei due decenni precedenti, a conferma della frenata subita dallo sviluppo negli anni 70. Uno dei fattori all’origine di questa inversione di tendenza fu il decentramento delle attività produttive della grande industria, dove la forte concentrazione degli operai sui luoghi di lavoro e sul territorio favoriva la sindacalizzazione e rafforzava la conflittualità. Gli investimenti delle grandi imprese in nuovi impianti evitarono il gigantismo e scelsero insediamenti lontani dai grossi centri urbani, in zone a bassa tensione sociale, localizzate anche nelle regioni meridionali per usufruire degli incentivi pubblici. Le fortune della piccola impresa si estesero negli anni 80. La “Terza Italia” si inseriva nel tradizionale dualismo Nord-Sud. Cosi, accanto a un Nord-ovest caratterizzato da grandi concentrazioni industriali, a un Sud non industrializzato, si è posta un’area centrale e nord- orientale detta Nec (Nord-est e Centro) che ha visto lo sviluppo periferico di una moltitudine di piccole e medie imprese (distretti industriali), in zone in cui le tradizioni locali e le strutture di solidarietà comunitaria hanno incoraggiato l’imprenditorialità e favorito il reclutamento della manodopera nelle aziende familiari contadine (Abruzzo, Molise e alcune zone pugliesi). Una “quarta Italia” può essere individuata nell’area romana, che ha la fase dell’industrializzazione, operando un passaggio diretto all’occupazione terziaria. L’instabilità e lo scarso dinamismo dell’economia degli anni 70 perdurò fino al 1983, successivamente si aprì un periodo positivo, favorito dalla contrazione dei prezzi dei prodotti petroliferi e dalla ripresa internazionale, fino alla nuova depressione mondiale dei primi anni 90. All’inizio degli anni 80 l’industria operò una profonda ristrutturazione basata sull’automazione flessibile, con consistenti tagli del personale: l’occupazione nell’industria diminuì del 20% tra il 1980 e il 1984. Le imprese ristabilirono l’autorità del management e gli scioperi si ridussero drasticamente. Il forte aumento della produttività del lavoro favorì la crescita della produzione e del reddito, avvicinando l’Italia ai principali paesi europei. Il declino dell’occupazione nelle grandi fabbriche è proseguito per tutto il decennio. 18 Nascono nuove figure di lavoratori formalmente autonomi (liberi professionisti), che in molti casi svolgono però un lavoro parasubordinato: si tratta di rapporti quasi esclusivi con una o poche imprese da parte di individui con partita IVA, o di lavoro coordinato e continuativo senza vincolo di subordinazione (“lavoro autonomo di seconda generazione”). Per quanto riguarda l’artigianato tradizionale, vi è una lenta diminuzione degli addetti, legata al fatto che la produzione di massa e la diminuzione dei prezzi ha reso, per tutta una gamma di oggetti di valore limitato, più conveniente l’acquisto del nuovo che la riparazione del vecchio. La quota degli addetti al commercio sulla popolazione attiva, dopo essere cresciuta fino agli anni 70, è rimasta anch’essa sostanzialmente stabile. Nel commercio con la crescita dell’ingrosso e dei grandi magazzini, si sono aperti i processi che hanno comportato un aumento del lavoro dipendente, in controtendenza rispetto ai servizi nel loro complesso. Nel terziario è diminuito il numero degli addetti ai servizi domestici, tra gli anni venti e trenta, potersi permettere una persona di servizio aveva rappresentato uno status symbol per molte famiglie piccolo-borghesi. Con la crescita dei redditi dei ceti popolari, dopo il miracolo economico, è diventato sempre più difficile trovare ragazze disposte a fare la domestica fissa, preferivano lavorare a ore. Ad oggi i lavori domestici a tempo parziale e di cura delle persone anziane rappresentano opportunità di crescita occupazionale, si ricorre sempre più a donne immigrate dai paesi extracomunitari, essendo diminuita drasticamente la disponibilità di forza lavoro nazionale. In crescita è invece il pubblico impiego, grazie all’ampliamento quantitativo e qualitativo dei servizi erogati dal welfare state, che in Italia hanno ricevuto un forte impulso alla metà degli anni 70. Benché la quota di impiegati pubblici in Italia non sia più alta che negli altri paesi industrializzati, vi sono delle contraddizioni: in Inghilterra, Francia, Stati Uniti ecc. gli impiegati pubblici sono meno numerosi di quelli privati, mentre in Italia si verifica l’inverso, la quota degli impiegati pubblici è maggiore al Sud (per finalità assistenziale, quindi assorbire disoccupati, e per ottenere un minimo di consenso), nonostante la ricchezza da amministrare sia inferiore rispetto al Nord, inoltre risulta numeroso il personale puramente amministrativo e poco qualificato, mentre vi è carenza di personale tecnico specializzato. All’incremento secolare dei posti di lavoro non manuale di tipo impiegatizio si è accompagnata una tendenza alla progressiva riduzione del divario tra stipendi e salari, in parte dovuta alla pressione rivendicativa degli operai industriali negli anni 70. La crescita dei redditi medi ha comportato l’aumento dei livelli di scolarizzazione e una più ampia diffusione della propensione allo svolgimento di lavori intellettuali creando anche una sovrabbondanza dell’offerta di lavoro non manuale. 19 GLI ANNI 90: questioni di attualità NB. parlare dei flussi migratori e il resto lettura La disoccupazione, divenuta numerosa con la depressione del 1992-94, non è stata riassorbita per tutti gli anni 90; inoltre, il sistema economico è sembrato incontrare crescenti difficoltà nel far fronte alla nuova offerta di lavoro, con il conseguente aumento dei giovani in cerca di prima occupazione. Il travaso di forze di lavoro tra i settori è sembrato incepparsi, e il terziario non è apparso più in grado di assorbire l’esubero di forze di lavoro industriali. A complicare il quadro di una situazione della disoccupazione carica di elementi contraddittori è intervenuta l’inversione dei flussi migratori. Paese di emigranti fino agli anni 60, l’Italia si è trasformata in paese importatore di manodopera. Fenomeno destinato ad accentuarsi dato il forte divario dei tassi di natalità tra paesi ricchi e paesi poveri, in presenza di differenziali di sviluppo altrettanto ampi. Molti cattivi lavori (dal marinaio alla domestica al lavoratore agricolo stagionale) sono progressivamente rifiutati dagli italiani, e in essi cercano inserimento le nuove schiere di immigrati dal Terzo mondo. Tuttavia, l’arrivo di giovani immigrati extracomunitari disposti ad accettare occupazioni di basso livello può contrastare la tendenza all’invecchiamento della popolazione, contribuire al riequilibrio del sistema pensionistico e rappresentare una risorsa preziosa per la crescita economica. Si assiste a un rilevante incremento delle aspettative professionali delle famiglie e dei giovani italiani, aspettative legate all’aumento dei livelli di istruzione e di reddito. I giovani italiani puntano a occupare posizioni più elevate dei loro padri, attraverso l’istruzione superiore conseguendo diplomi di geometra, ragioniere e maestro elementare. Vi è stato un cambiamento culturale, molti giovani non includono più il lavoro operaio nell’orizzonte delle loro aspettative, è un lavoro che ha perso attrattività, e la conseguenza è che al nord, dove il tasso di disoccupazione è basso, si assumono extra-comunitari, non giovani del Sud che non hanno più intenzione di emigrare ma preferiscono attendere, anche diversi anni, l’occasione di un’occupazione fissa. In Italia il tasso di disoccupazione giovanile è più elevato della media europea, ed è più basso il tasso di attività femminile. Nel sud la disoccupazione è due volte e mezza maggiore di quella del Centro-nord, il tasso di attività risulta al contrario significativamente inferiore a quello del Centro-nord, a conferma della debolezza del tessuto produttivo del Mezzogiorno. Per spiegare la differenza nel tasso di attività tra Nord e Sud occorre far riferimento innanzitutto all’esodo dall’agricoltura non controbilanciato da un sufficiente sviluppo della domanda di lavoro nel settore extraagricolo: ciò ha prodotto, nei grandi centri urbani del Sud, ampi strati di sottoproletariato che vivono di occupazioni saltuarie. La struttura occupazionale del Sud mostra una terziarizzazione eccessiva a discapito dell’industria che non decolla, e l’occupazione agricola ha un peso doppio rispetto al resto dell’Italia. La quota di impiegati privati è molto ridotta, mentre la quota di impiegati pubblici è superiore alla media nazionale. Se si considera l’amministrazione pubblica nel suo complesso si può osservare che tutte le regioni meridionali hanno quote ampiamente maggiori della media nazionale, perciò tutto questo favorisce la ricerca del posto pubblico. Il tasso di attività femminile in Italia resta molto ridotto in confronto a quello maschile, una donna attiva su 5 risulta in cerca di lavoro: il tasso di disoccupazione femminile è decisamente elevato, il doppio di quello maschile. Persistono dunque le difficoltà incontrate dalle donne nei tentativi di inserirsi nelle occupazioni extradomestiche e permangono i fenomeni di segregazione occupazionale. Nonostante la tendenza all’aumento del tasso di attività femminile, la distanza tra l’Italia e l’Europa Nord-occidentale resta enorme, mentre il tasso di attività maschile si colloca sugli stessi 20 valori degli altri paesi. A determinare questa differenza concorre il regime orario: in Italia è molto meno diffuso il lavoro part-time, che interessa invece quote rilevanti di lavoratrici in Inghilterra, Germania; Francia e Olanda dove il lavoro a tempo parziale rappresenta la soluzione occupazionale per molte donne coniugate. Anche per quanto riguarda il lavoro giovanile, l’Italia si discosta significativamente dai paesi più avanzati: la disoccupazione tra i 15 e i 24 anni è pari ad un giovane su tre e risulta sei volte più elevata in confronto a Germania e Giappone, doppia rispetto a Inghilterra e Stati Uniti. La spagna presenta una situazione simile a quella italiana. Ma un divario così ampio non può dipendere dalla disoccupazione totale che è di poco più elevata di quella francese e inglese. In Italia sono le donne e i giovani ad aggravare la situazione media e ciò indica il persistere di segmentazioni del mercato del lavoro. Anche la minor durata dell’obbligo scolastico nel nostro paese, solo recentemente innalzata, ha scarsa influenza. Per spiegare questo divario occorre far ricorso a fattori socio-istituzionali, e in primo luogo alla ridotta mobilità del lavoro. Laddove i cambiamenti di occupazione sono frequenti, si aprono varchi per l’inserimento dei giovani in cerca di lavoro. Le rigidità nel rapporto di lavoro sono state frutto di conquiste sindacali a tutela dei lavoratori dipendenti; le forme di controllo sui licenziamenti collettivi e la giusta causa per il licenziamento individuale hanno avuto connotati positivi: hanno permesso al dipendente l’esercizio delle libertà costituzionali all’interno del luogo di lavoro. L’aumento del tasso di disoccupazione tra i giovani in Italia ha contribuito al prolungarsi della permanenza in famiglia dei giovani adulti, un fenomeno definito “famiglia lunga”. L’istruzione garantisce una posizione più forte sul mercato del lavoro, persone con un diploma di scuola superiore o laurea trovano una prima occupazione in tempi più brevi di chi ha una scolarità inferiore, questo sta a significare che il titolo di studio continua ad essere un requisito importante per la mobilità sociale e l’accesso a professioni e impieghi in espansione. Con la crisi dei primi anni 90 si sono aggravati i problemi per la manodopera ultraquarantenne non qualificata e scarsamente scolarizzata, per la quale diventa improbabile il reinserimento nelle fabbriche investite da trasformazioni tecnologiche e organizzative che richiedono capacità di adattamento, apprendimento rapido e intervento attivo in compiti lavorativi soggetti a rapidi cambiamenti. Ciò nonostante, il ricorso agli ammortizzatori sociali ha consentito a molti lavoratori di età avanzata di conservare il loro ruolo di maggiori percettori di reddito nel nucleo familiare. La ripresa produttiva all’inizio del nuovo millennio ha visto il tasso di disoccupazione scendere sotto il 10%, ne hanno tratto giovamento i livelli occupazionali in tutta Italia. La crescita dei posti di lavoro ha migliorato in particolare la condizione occupazionale del Sud e i tassi di attività femminili. Tali risultati positivi sono stati raggiunti anche grazie a un quadro normativo modificato in direzione di una maggiore flessibilità del lavoro. Si fa urgente l’esigenza di una riforma del welfare che istituisca forme di tutela per i lavoratori esclusi dalle tradizionali forme di assicurazione sociale in conseguenza dei loro rapporti o attività di lavoro atipici. 21 CAP 2- LAVORO E MODELLI ORGANIZZATIVI LE INNOVAZIONI DELLA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E I PROCESSI DI CONCENTRAZIONE Le innovazioni in campo produttivo possono essere distinte in due grandi categorie: le innovazioni di prodotto (si producono cose nuove, in tutto o in parte) e le innovazioni di processo (relative alle modalità di produzione). Le innovazioni di processo spesso sono il risultato di innovazioni di prodotto; queste ultime hanno il maggior impatto innovativo sulla società e l’economia: i nuovi prodotti spazzano via quelli vecchi e le imprese che fabbricano i prodotti nuovi operano l’autentica, impietosa concorrenza nei confronti delle imprese produttrici dei prodotti vecchi. Le innovazioni di processo sono invece connesse alla concorrenza tra imprese che fabbricano lo stesso prodotto, e sono rivolte al miglioramento della qualità del prodotto stesso o alla riduzione dei costi di produzione attraverso l’aumento della produttività del lavoro, la riduzione degli scarti, dei consumi energetici ecc. Ne derivano l’aumento della redditività dell’impresa e il miglioramento della sua posizione concorrenziale. Le innovazioni di processo possono derivare dall’applicazione di nuove tecnologie o da nuove modalità di organizzazione dei fattori della produzione esistenti; sotto il profilo economico, esse sono di grande rilievo per la storia del lavoro in quanto incidono sulle modalità con cui gli uomini lavorano. A partire dal 1870, nell’arco di una ventina di anni, una serie di importanti scoperte e innovazioni scientifiche e tecnologiche diede inizio a una nuova fase di trasformazione dell’economia e dell’organizzazione del lavoro nei paesi sviluppati: il motore a combustione interna, la bicicletta, i pneumatici, la macchina da scrivere, la lampada elettrica, il telefono, il telegrafo senza fili ecc. Di enorme importanza furono le innovazioni nelle tecniche di fusione dell’acciaio, che ne abbassarono il costo di produzione a livelli di gran lunga inferiori in confronto alla prima metà dell’800; l’acciaio divenne il materiale con cui l’industria meccanica poté costruire i nuovi prodotti che sarebbero diventati nel ‘900 i primi beni di consumo durevoli: macchina per cucire, da scrivere, la bicicletta, l’automobile. Le nuove tecnologie della seconda rivoluzione industriale richiedevano impianti produttivi di grandi dimensioni. La nascita delle grandi imprese fu favorita dal meccanismo di concorrenza. Le imprese si contendevano i clienti con i prezzi e la qualità, o fabbricando prodotti meglio rispondenti alle esigenze e ai gusti dei compratori. Quelle che riuscivano a sfruttare prima e meglio le innovazioni tecnologiche, o a organizzare più efficientemente il lavoro, o a garantirsi migliori condizioni di finanziamento o maggiori protezioni politiche, sottraevano quote di mercato ai concorrenti, mettendoli in difficoltà e acquisendone eventualmente gli impianti. Processi di concentrazione orizzontale che portano al formarsi di imprese oligopolistiche. Si aggiunsero anche fenomeni di concentrazione verticale, quando alcune imprese puntarono a controllare tutte le fasi della produzione, dalle materie prime al prodotto finito. In condizioni di oligopolio fu meno difficile per le maggiori imprese trovare accordi per limitare i danni reciproci della concorrenza. Nacquero allora i trust, i cartelli, i consorzi: varie forme di accordo tra grandi imprese sui prezzi da praticare, sulla quantità da produrre, sulle quote di mercato da spartirsi e sulle zone in cui vendere. 22 Con il crescere delle dimensioni delle imprese e della complessità di macchinari e impianti nacquero anche nuove figure di tecnici, che si collocavano tra il proprietario e gli operai: gli ingegneri, conoscitori delle nuove macchine e dei nuovi sistemi produttivi, che organizzavano il lavoro; i manager, esperti nella gestione dell’impresa, figura accanto ai proprietari nella direzione della società, e anche al posto dei proprietari nel caso delle società ad azionariato diffuso (public companies). STATO E ORGANIZZAZIONE DEGLI INTERESSI Tra l’800 e il ‘900 si mescolarono la prima e la seconda rivoluzione industriale. Allo sviluppo del settore tessile, e cotoniero, si aggiunsero le industrie metalmeccaniche, chimiche e la nuova industria elettrica, che rappresentarono i settori trainanti della seconda rivoluzione industriale, come il tessile lo era stato della prima. Come negli altri paesi late comer, il ruolo delle banche e dello stato nello sviluppo assunse un’importanza centrale. La costruzione di stabilimenti di grandi dimensioni richiedeva investimenti a redditività dilazionata, per i quali si rivelò funzionale un nuovo tipo di istituto di credito, nato in Germania: le banche miste che non si limitavano solo a svolgere attività del credito commerciale tradizionali a b/t ma finanziavano anche investimenti industriali con prestiti a lunga scadenza, o attraverso l’acquisto di azioni di società industriali, quando queste decidevano aumenti del capitale sociale per finanziarie la crescita dimensionale. il fallimento di una grande industria poteva comportare il fallimento della banca che l’aveva finanziata. Dato l’alto rischio, le banche miste concedevano prestiti a patto di poter controllare da vicino le imprese, acquisendo quote azionarie ed entrando con propri rappresentanti nei consigli di amministrazione. Nasceva in tal modo il capitale finanziario, dallo stretto intreccio tra banca e industria, tra capitale bancario e capitale industriale. Il fallimento di un grande gruppo industriale o bancario apriva la prospettiva del ‘’salvataggio’’ da parte dello Stato, perché dalla chiusura degli stabilimenti o degli sportelli bancari sarebbero derivate pesanti conseguenze per molte persone (dagli operai occupati ai risparmiatori possessori di depositi). In Italia, i salvataggi bancari e industriali da parte dello stato sarebbero stati attuati sistematicamente, fino a costituire la base della creazione, con l’Iri, dell’industria di stato durante la grande crisi del 1929-1934. PS la legge bancaria del 36 vieta queste partecipazioni. Nell’epoca del capitale finanziario, i grandi gruppi imprenditoriali non chiedevano più che lo stato non intervenisse nell’economia: gli industriali rivendicavano la massima libertà di azione, ma premevano per ottenere sovvenzioni, commesse, protezione contro la concorrenza estera. Lo stato era disposto a concedere aiuto, in quanto la potenza economica e militare della nazione veniva sempre più strettamente rapportata alla potenza industriale. Non furono solo i lavoratori dipendenti a dar vita ad agguerrite organizzazioni sindacali ma anche gli imprenditori ne fondarono di proprie per contrapporsi alle rivendicazioni operaie e in alcuni momenti operare una sorta di rappresentanza politica degli imprenditori. 23 L’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO: TAYLORISMO E FORDISMO-Il sistema americano Nell’epoca della seconda rivoluzione industriale si assiste negli Stati Uniti ad un’importante novità nel campo dell’organizzazione della produzione: American system. Nelle prime produzioni di serie si puntò alle parti intercambiabili, ottenute attraverso la manifattura di precisione: mentre in precedenza i pezzi venivano prodotti alle macchine utensili con ampie tolleranze per essere successivamente portati alle dimensioni richieste lavorando di lima, nell’American system l’uso di particolari attrezzature (maschere, calibri) consentiva la riduzione delle tolleranze e la standardizzazione dei pezzi ne risultavano semplificate le operazioni di montaggio e notevolmente ridotti i tempi di lavorazione. Inoltre, grazie all’intercambiabilità poteva essere migliorata l’assistenza ai clienti, perché diventava possibile procedere alle eventuali riparazioni con pezzi di ricambio. Queste novità si accompagnavano normalmente a un cambiamento della disposizione degli impianti: si passava dall’organizzazione per famiglie di macchine all’organizzazione per famiglie di pezzi dove i reparti erano destinati non più a un tipo di lavorazione ma alla produzione di un pezzo, che richiedeva la presenza di diverse macchine per le varie lavorazioni. Proprio negli Stati Uniti, sulla base dell’American system, nacque la cosiddetta “organizzazione scientifica del lavoro” il cui fondatore fu Taylor, un ingegnere che fra la fine dell’800 e i primi del ‘900 sperimentò nuovi metodi di organizzazione del lavoro in un’acciaieria di cui era direttore. Secondo Taylor era un’organizzazione del lavoro non razionale quella allora diffusa e richiamava in particolare l’attenzione sul fatto che ogni operaio di mestiere lavorava con metodi propri. Lui sosteneva che si doveva studiare quale fosse il metodo migliore (one best way), ovvero il metodo che permettesse di compiere il lavoro in meno tempo. Questo metodo migliore poteva essere trovato attraverso la sistematica analisi dei tempi e dei metodi di lavoro, che doveva essere svolta da un ufficio apposito (Ufficio tempi e metodi), dove personale tecnico aiutato da cronometristi osservava un determinato lavoro, analizzava ogni singolo gesto compiuto dai lavoratori, cronometrava tutti i tempi parziali. Si distinguevano così i gesti utili da quelli inutili, individuando quella serie di gesti più adatta a risparmiare tempo e ridurre quei tempi tra un’operazione e l’altra in cui il lavoratore rimaneva inattivo. Attraverso il cronometraggio, inoltre, gli analisti dovevano valutare anche il tempo necessario per svolgere un certo lavoro, sulla base di questo tempo andava poi fissato il salario da pagare al lavoratore per ogni unità di lavoro (paga a cottimo). Inoltre tutto questo lavoro doveva permettere agli uffici tecnici di separare ogni fase, ogni serie, affidandone ciascuna a un lavoratore diverso. Le mansioni diventavano così semplici e ripetitive, consentendo di sostituire operai qualificati con manodopera semiqualificata. Per spronare gli operai a lavorare più intensamente, gli industriali iniziarono, a fine ‘800, a sostituire la paga a tempo con la paga a cottimo, cioè la paga in base alla quantità di lavoro effettivamente realizzata. Gli operai cottimisti ricevevano una determinata somma per ogni unità di lavoro svolto quindi erano incentivati a produrre di più per ottenere un guadagno un po' più elevato. All’inizio gli operai e le loro organizzazioni erano del tutto contrari al cottimo in quanto sostenevano che creasse concorrenza tra i lavoratori, minasse la solidarietà, e ritenevano, inoltre, che potesse essere uno strumento di facili abusi da parte dell’imprese. Nonostante le molteplici proteste, il cottimo ebbe una notevole diffusione e divenne un terreno di conflittualità, per le discussioni sui criteri con cui venivano stabiliti i tempi di cottimo. 24 Il cottimo di tipo “lineare” alla lavorazione di un pezzo veniva assegnato un tempo base, in cui poteva essere realizzata senza particolari sforzi; il tempo base veniva tradotto in un prezzo da pagare all’operaio. Se l’operaio cottimista lavorava più svelto e terminava la lavorazione in minor tempo, riceveva la tariffa di cottimo e poteva guadagnare più della paga oraria. (NB. Incremento proporzionale della retribuzione). Con il tempo furono introdotti incentivi di tipo “rallentato” il guadagno operaio cresceva meno che proporzionalmente all’incremento del rendimento. Il problema del cottimo stava in gran parte nella valutazione del tempo normale, stabilito in genere sulla base dell’esperienza dei capi i quali, di regola reclutati tra gli stessi operi di mestiere, erano in grado di valutare il tempo necessario. Il taylorismo invece proponeva e pretendeva, attraverso lo studio sistematico dei tempi e dei metodi di lavoro, di giungere alla fissazione di tempi “oggettivi”, che avrebbero eliminato le discussioni. Tuttavia il cronometraggio di un’operazione non teneva conto della fatica nel corso della giornata e della settimana lavorativa pertanto il giudizio sulla sopportabilità di un certo ritmo lavorativo restava ben poco oggettivo e scientifico e inoltre non era possibile tener conto anticipatamente degli imprevisti che potevano influire sul rendimento operaio. LE TAPPE DELL’INTRODUZIONE DEL TAYLORISMO Il taylorismo cominciò ad essere applicato nelle grandi fabbriche, quelle che producevano in serie. In Italia le primissime esperienze di tipo tayloristico furono sperimentate alla vigilia della prima guerra mondiale e durante il conflitto, quando le industrie metalmeccaniche avviarono la produzione in grande serie di armi e di proiettili. Ma iniziarono a diffondersi solo nel periodo tra le due guerre. Con la produzione in serie furono introdotte nuove macchine utensili che andarono a sostituire quelle universali. Producendo un gran numero di pezzi uguali, diventava economicamente vantaggioso impiegare macchine adatte a una certa lavorazione su un certo tipo di pezzo. Le macchine speciali potevano essere condotte da operi meno qualificati, addetti a lavorazioni di routine. Mutava anche la composizione del personale: aumentarono progressivamente sia il personale tecnico che predisponeva il lavoro, sia gli impiegati amministrativi e degli uffici commerciali. Nelle officine, invece, diminuiva la % di manodopera qualificata e aumentava la non qualificata. Con l’organizzazione scientifica le imprese miravano ad ottenere due vantaggi in uno: 1. la sostituzione di manodopera qualificata con operai di categoria e paga inferiore; 2. maggior controllo sui tempi di lavorazione. LA CATENA DI MONTAGGIO E LA PRODUZIONE DI MASSA Il montaggio in linea e le macchine automatiche rappresentarono il punto di arrivo della scomposizione delle mansioni, della predeterminazione dei ritmi di lavoro, della dequalificazione del lavoro. La catena di montaggio fu introdotta negli stabilimenti americani della Ford alla vigilia 25 della prima guerra mondiale e consentì di ridurre drasticamente i costi di produzione e il prezzo di vendita dell’unico modello di autovettura fabbricato dalla Ford, il modello T. In Europa, la catena di montaggio iniziò a diffondersi negli anni 20/30, quando l’automobile non era più un genere di grande lusso. Il fordismo trovò piena applicazione in Europa e in Giappone solo a partire dagli anni 50. La catena di montaggio divenne lo strumento della produzione di massa, dell’economie di scala, della riduzione dei prezzi e del consumo di massa. Il lavoro in linea divenne anche simbolo del lavoro ripetitivo, monotono e si crearono fenomeni di insoddisfazione e rifiuto del lavoro: assenteismo, mansioni svolte senza cura, fuga vs altre occupazioni. Taylor e Ford avevano temuto le reazioni operaie per questo offrivano possibilità di guadagno maggiori, con il cottimo o con premi di produzione, in cambio dei ritmi più elevati e della ripetitività del lavoro. Ford nel 1914 introdusse il five dollar day, la paga giornaliera di 5 dollari il cottimo venne eliminato, perché i ritmi alla catena erano predeterminati e venivano retribuiti con una paga fissa elevata per chi riusciva a reggere la disciplina produttiva imposta. Tuttavia gli alti salari avevano rappresentato anche per Ford un duplice tentativo: evitare la penetrazione dell’organizzazione sindacale nella sua impresa e porre un freno al fortissimo turn over della manodopera, determinato dal fatto che molti operai abbandonavano volontariamente i suoi stabilimenti a causa della pesantezza del lavoro. Alla disaffezione verso il lavoro tentò di trovare una soluzione la scuola delle relazioni umane, fondata negli Stati Uniti negli anni ’30 da Elton Mayo: le human relations intendevano recuperare la motivazione operaia, e dunque migliorare il rendimento delle maestranze, attraverso la creazione di un ambiente confortevole in fabbrica, in cui l’operaio si sentisse inserito in una comunità di lavoro tra dirigenti e diretti. Anche le relazioni umane non sono riuscite a risolvere il problema. Alcuni tentavi di riorganizzazione tesi a rendere meno monotono il lavoro, non hanno dato risultati di rilievo, e sono: - job enrichment; - job enlargement; - job rotation. L’AUTOMAZIONE FLESSIBILE Macchine comandate e regolate da sistemi computerizzati consentono di ottenere un tipo di automazione diverso da quelle delle vecchie macchine automatiche: queste realizzavano un’automazione rigida, erano cioè adatte solo a una determinata lavorazione. Con le tecnologie informatiche si ottiene invece un’automazione flessibile, in cui i sistemi di macchine possono svolgere lavorazioni differenziate. Ciò consente di realizzare, senza eccessive spese d’impianto e con tempi relativamente brevi di cambiamento delle attrezzature, una vasta gamma di prodotti, ulteriormente differenziati, così da rispondere alla crescente concorrenza sui mercati sempre più esigenti: il prodotto di massa non viene più accettato, deve essere diversificato e personalizzato. Agli operai addetti alle macchine sono richieste doti di attenzione, prontezza di intervento, capacità di cogliere i segnali deboli che le macchine emettono prima di incepparsi, in modo da prevenire gli intoppi e intervenire a tempo per far fronte agli eventi impresti. Le tecnologie 26 informatiche possono portare a una maggiore responsabilità dei lavoratori nella produzione, e alla nascita di nuove mansioni qualificate. L’automazione flessibile richiede conoscenze basate non su specifici mestieri ma sul plurispecialismo; assume grande importanza la capacità di adattamento e di rapido apprendimento delle nuove tecniche in continua evoluzione. Questo approccio è volto a superare l’impostazione tayloristica che prevedeva per l’operaio mansioni rigidamente proceduralizzate e compiti puramente esecutivi. Tali innovazioni organizzative nelle aziende europee e americane si ispirano alle nuove soluzioni applicate da oltre 30 anni nelle imprese giapponesi, e in particolare alla Toyota. Per realizzare una produzione di qualità, flessibile e a costi contenuti, l’apporto dell’elemento umano si è rivelato indispensabile, così che al modello tecnocentrico si tende oggi a contrapporre un modello più attento alle risorse umane, dove il contributo dei lavoratori, la loro attiva collaborazione alla ricerca della “qualità totale” sono ritenuti indispensabili. Si tratta, quindi, di cooperare utilizzando l’intelligenza e l’esperienza di tutti. Il cambiamento organizzativo si muove così oggi in direzione dei modelli della “fabbrica integrata” e della “produzione snella”. La prima supera l’organizzazione del taylorismo attraverso l’integrazione delle funzioni, la riduzione dei livelli gerarchici e il decentramento delle responsabilità, in modo che le decisioni di intervento siano più rapide, e che i problemi produttivi siano affrontati e risolti là dove nascono. La seconda consiste nella realizzazione del prodotto nel momento in cui è richiesto dal cliente (just in time) con tutte le specifiche caratteristiche riducendo al minimo le scorte di materiali, semilavorati e prodotti finiti che erano tipiche dell’organizzazione fordista e che rappresentano un elemento di costo. Da un modello di produzione push, si passa a un sistema pull, di produzione tirata dalle organizzazioni. Inoltre, le aziende ricorrono sempre più frequentemente all’outsourcing, cioè all’esternalizzazione di fasi produttive. Secondo alcuni l’innovazione tecnologica e organizzativa ha effettivamente migliorato la qualità del lavoro, estendendo le mansioni qualificate, ricche di autonomia neoartigianale. TAYLORISMO E MESTIERE OPERAIO: UNA DISCUSSIONE Taylorismo e soprattutto fordismo sono termini che sottendono un collegamento tra una scelta tecnologica e una scelta organizzativa. Il taylorismo collegava il taglio rapido dei metalli, grazie al quale era possibile ottenere significativi incrementi della velocità di lavorazione al tornio; con sistemi di preparazione, misurazione e controllo del lavoro tesi a separare la concezione dall’esecuzione, e a scomporre e uniformare le mansioni degli operai, retribuiti con sistemi di cottimo. Nel fordismo, la tecnologia era la massima specializzazione delle macchine e la lavorazione in linea, che imponeva il ritmo di lavoro agli operai retribuiti con salari fissi più elevati, intesi a favorire un allargamento dei consumi. Le scelte organizzative sono favorite e influenzate, ma non dipendono necessariamente dalla tecnologia adottata. La rivolta operaia della fine degli anni 70 con la fabbrica taylorista e fordista ha fatto crescere tra gli studiosi del movimento operaio l’attenzione a questi temi. L’interpretazione allora dominante individuava lo scopo esclusivo dell’organizzazione scientifica del lavoro nella ricerca di controllo sul lavoro da parte imprenditoriale, per sottrarre autonomia agli operai di mestiere e imporre i tempi e i ritmi di lavoro. Questa interpretazione riteneva la tecnologia lo strumento del controllo. 27 Il principale motivo dell’introduzione del taglio rapido e delle macchine speciali nell’industria dell’auto europea non sarebbero dunque stati l’accelerazione dei ritmi di lavoro, né l’aumento della capacità produttiva, ma l’esigenza di qualità del prodotto. Dal punto di vista del mercato in cui le imprese operano, è stato individuato un modello di industrializzazione alternativo alla produzione di massa fordista, quello della specializzazione flessibile, dove vi era un uso di manodopera più qualificata e di tecnologie più flessibili. Anche la tradizionale concezione del mestiere operaio è stata messa in discussione. Il mestiere non era solo legato ad abilità manuali e competenze tecniche, né queste erano tante alte da non poter essere apprese dalla massa dei lavoratori. ORGANIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE E RELAZIONI INDUSTRIALI A fine ‘800, i primi sindacati operai erano leghe di mestiere che organizzavano i lavoratori, sul mercato del lavoro locale, non per settore o industria ma sulla base delle specialità professionali. Gli obiettivi delle leghe erano Il giusto prezzo, cioè una sorta di paga minima con cui doveva essere retribuito l’operaio di un certo mestiere, inoltre, puntavano ad essere riconosciute come ufficio di collocamento. Le occasioni di conflitto con gli imprenditori non mancavano, non solo per quanto riguarda le paghe, ma anche per le modalità di erogazione della prestazione lavorativa, in particolare sui ritmi di lavoro. Gli operai facevano riferimento a una tradizione artigiana in cui il ritmo di lavoro era irregolare, con frequenti pause. L’organizzazione taylorista e fordista è giunta al suo pieno dispiegamento in Europa nel secondo dopoguerra, con la diffusione di massa dell’automobile e degli elettrodomestici. La diffusione di macchine sempre più speciali fino a quelle automatiche, il superamento dell’organizzazione produttiva basata sulle abilità artigiane dei lavoratori, l’avvento della produzione di massa e la crescita del peso degli operai comuni, furono altrettanto fattori che indussero al passaggio dalle leghe di mestiere al sindacato d’industria, che organizzava tutti i lavoratori, qualificati e non, addetti a un determinato comparto produttivo. I sindacati generali e i sindacati di industria si federarono in grandi organizzazioni a livello nazionale. Le imprese che si dotavano di un’organizzazione razionale secondo i principi di Taylor e di Ford offrivano ai dipendenti, oltre a salari elevati, una certa sicurezza del pos