Letteratura Italiana I - Parte Istituzionale (2) PDF

Summary

This document discusses religious poetry in 13th-century Italy, highlighting socio-economic changes, the weakening of political powers, the rise of mercantile classes, and the emergence of heretical movements like the Pataria. It also examines the counter-reaction of the official Church in the form of new monastic orders such as the Franciscans and Dominicans, and the works of notable figures like St. Francis of Assisi and Jacopone da Todi, touching on their respective impacts on religious thought and literature.

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LA POESIA RELIGIOSA DEL ‘200 Nel corso del XIII secolo, l’Italia è attraversata da profondi cambiamenti socioeconomici, che portano trasformazioni anche nell’ambito politico e culturale. Da questa ondata di crisi vengono intaccati anche i due poteri massimi del tempo, l’Impero e il Papato. Il primo...

LA POESIA RELIGIOSA DEL ‘200 Nel corso del XIII secolo, l’Italia è attraversata da profondi cambiamenti socioeconomici, che portano trasformazioni anche nell’ambito politico e culturale. Da questa ondata di crisi vengono intaccati anche i due poteri massimi del tempo, l’Impero e il Papato. Il primo viene indebolito in particolar modo dalla lotta contro i Comuni cittadini, i quali volevano sempre più autonomia; per quanto riguarda il Papato, invece, attraversa un processo che lo porta a perdere le sue caratteristiche di spiritualità, si trasforma sempre di più in una potenza temporale, la quale è in grado di prendere decisioni sul piano politico ai più alti livelli. L’ascesa del ceto mercantile, affiancata dall’affermarsi dei Comuni, induce la diffusione di modelli di vita più eleganti e raffinati che richiedevano un’ingente quantità di denaro, in modo da differenziarsi in maniera netta con le classi più povere. Questo accentua in maniera considerevole le situazioni di emarginazione e disagio esistenziale in campo politico, sociale, morale e religioso. Questo tipo di vicende porta alla nascita delle cosiddette “eresie”, ossia dei veri e propri movimenti religiosi autonomi diversi tra loro, che avevano il desiderio comune di far ritorno allo spirito evangelico della Chiesa originaria e alle sue caratteristiche originali. Un qualcosa di molto simile avvenne durante il secolo XI, quando il movimento della pataria si diffonde nell’area lombarda e combatte contro i costumi corrotti del clero locale, raggiungendo così l’autonomia e la forza massima a Milano. Oltre al movimento dei Patari, vi è anche quello dei catari (i due movimenti spesso vengono confusi tra di loro) che si diffonde nella Francia meridionale; è una setta ereticale che si ispirava a posizioni rigoriste (intransigenza intellettuale). Contro di loro venne mandata dal papa Innocenzo III una crociata (1209), la quale portò alla fine di tale movimento e che contribuì all’accelerazione dell’eliminazione della tradizione occitanica e alla letteratura provenzale. È più che evidente che la posizione presa dai movimenti eretici si trovasse in netta opposizione ai nuovi principi della Chiesa ufficiale, che si occupava principalmente di pratiche mondane e che era pervasa dalla corruzione. Questi movimenti ebbero un grande successo in tutta Europa, poiché il rinnovamento e l’adesione ai sacri principi del Vangelo erano sentiti in modo particolare da tutti i fedeli. La Chiesa ufficiale reagisce tramite la creazione di ordini monastici, quali i Francescani (1223) e i Domenicani (1216). I primi si richiamano alla povertà, mentre i domenicani si dedicano alla fedeltà all’ortodossia (insieme dei principi che fondano un sistema religioso). Entrambi gli ordini si dedicano alla predicazione: per i Francescani tramite il racconto di parabole evangeliche al popolo, per i Domenicani, invece, essa si realizzò nell’interpretazione di passi della Scrittura. Il francescanesimo soprattutto sperimentò una larga diffusione tra i ceti popolari, i quali vi trovavano le risposte alle esigenze di purificazione e di vita condotta secondo i principi del Vangelo. Nonostante questo successo, non si evitò che il movimento si scindesse in due, tra “conventuali”, coloro che sostenevano in maniera più blanda la Regola (il manuale scritto da S. Francesco sui principi che i seguaci avrebbero dovuto adottare) e gli “spirituali”, coloro, invece, che seguivano intransigentemente la Regola francescana. L’ordine francescano ottenne molto successo, poiché i seguaci si contraddistinguevano per il loro comportamento dettato dall’amore per la natura e per le creature. Il loro messaggio era un messaggio d’amore per il prossimo e di pace, volgono la loro opera ai più deboli e agli emarginati. La loro predicazione veniva fatta in volgare, di modo che la loro parola raggiungesse un pubblico più ampio possibile. Necessitavano anche che il loro messaggio venisse concepito in maniera semplice ed immediata, per questo ricorrevano spesso alla parabole evangeliche. I testi letterari più importanti legati alla tematica religiosa sono, per l’appunto, un testo di San Francesco, il “Cantico di Frate Sole” (conosciuto anche come “Cantico delle creature”), nato come preghiera e come inno da cantare con i fedeli, è il frutto di una nuova sensibilità, più aperta verso molteplici aspetti del reale. Un’altra opera importante, forse addirittura più significativa di quella di S. Francesca, è una raccolta anonima di aneddoti riguardanti la vita del santo, i “Fioretti” (esempi gentili, edificanti). San Francesco d’Assisi (1181-1226) San Francesco nasce ad Assisi da famiglia borghese mercantile. Compì buoni studi, imparò il latino e il francese. Nella sua giovinezza mostrò un certo interesse per le armi; partecipò alla guerra tra Assisi e Pescara dove rimase prigioniero nel 1204. Cercando di raggiungere le truppe di Gualtieri di Brienne in Puglia, si ammalò a Spoleto, dovette dunque, ritirarsi aa Assisi. Ed è qui che entra in una fase di travaglio interiore, la quale lo porta, nel 1206, a ritirarsi in un eremo e a dedicarsi ai lebbrosi. L’anno dopo il padre, per dissuaderlo dalle sue convinzioni, lo denuncia di fronte al vescovo. San Francesco si spoglia dei suoi averi e risponde che ha come unico padre “Colui che sta nei cieli”. Questo avvenimento ha un importantissimo valore emblematico poiché rappresenta un rovesciamento e una totale rinuncia ai valori borghesi che fino a quel momento era stato costretto a seguire. Nel 1209, con i primi discepoli, scrive una Regola, andata perduta, approvata l’anno dopo dal pontefice Innocenzo III. Volenteroso di diffondere il messaggio del Vangelo anche agli infedeli, nel 1219, si reca in Egitto dove viene accolto e trattato benevolmente dal Sultano, il quale gli permette di recarsi in Terrasanta. Una volta rientrato in Italia, redige una nuova Regola, abbreviata, che poi sarà approvata da papa Onorio III il 23/11/1223. Gli ultimi anni li trascorre in solitudine e sono caratterizzati da diversi dolori fisici e dalle prime preoccupazioni di una possibile scissione dell’ordine francescano. Le opere di San Francesco sono il “Cantico di Frate Sole” (o delle creature”) e il “Testamento”, nel quale vi era anche compresa la Regola, lasciato ai suoi fedeli. Per quanto riguarda il Cantico, si narra che San Francesco lo abbia composto il mattino seguente al ricevimento delle “stimmate” sul monte Verna e la “certificatio”, ossia una visione in cui Dio approvava il suo operato e gli preannunciava la salvezza eterna. Restano, inoltre, alcuni suoi scritti in latino, riguardanti l’insegnamento e la pietà religiosa, sei lettere e cinque orazioni. Il Cantico di Frate Sole Secondo la tradizione il cantico venne scritto nel 1224, dopo che San Francesco ebbe una visione divina. Il cantico delle creature, o cantico di frate sole, è una lode alla grandezza di Dio. Per tutta la durata del canto San Francesco si rivolge a Dio con “lodato sii”. Nella prima parte, dal verso primo al 22, il cantico è una lode a Dio per tutti gli elementi del mondo creato: il sole, la luna, le stelle, il vento, l'acqua, il fuoco, la terra; nella seconda parte (23- 33) è una preghiera penitenziale di fronte alla morte, dopo la quale per coloro che saranno graziati da Dio, il giorno del giudizio non farà paura, vi sarà la benedizione e la beatitudine. Per San Francesco tutte le lodi, la gloria, l'onore ed ogni benedizione sono dirette a Dio. Per lui nessun uomo mortale è degno di nominare il suo nome. È cosa buona e giusta lodare Dio e tutte le sue creature, poiché create da lui, come il sole che rappresenta la luce del giorno e che è il tramite con il quale il Signore ci illumina. È così raggiante poiché ci porta testimonianza di Dio. Bisogna essere anche grati, perché Dio ha creato la luna e le stelle, le quali sono belle e preziose e luminose. Dobbiamo ringraziare Dio anche per il vento e per il cielo nuvoloso e sereno e per qualsiasi tempo atmosferico. È anche merito Suo se abbiamo l'acqua, la quale è umile, utile, preziosa e pura. Anche il fuoco è merito di Dio, esso illumina la notte ed è forte, giocondo e robusto. La terra, la quale ci nutre e alleva, produce molti frutti con fiori colorati ed erba grazie a Dio. Jacopone da Todi Jacopo De Benedetti nacque a Todi tra il 1230 e il 1236. La tradizione stabilisce che la morte della moglie sia stato l'avvenimento che ha modificato per sempre la sua vita. È stato così traumatico poiché la moglie morì in seguito a un crollo del pavimento durante una festa, venne fatta una scoperta terrificante: sotto le sue vesti vi era un cilicio, strumento di penitenza e di dolore. Questo episodio sottolinea il carattere repentino e radicale della sua conversione, che corrisponde alla sua indole intransigente ed estremistica. Per 10 anni conduce una vita ascetica mendicando e sottoponendosi a dure fatiche umiliazioni. Entrerà poi a far parte dell'ordine francescano dei minori. Si schiera a favore degli spirituali, i quali difendono la purezza della regola e che prendono posizione contro la politica temporale della curia romana. Gioca un ruolo fondamentale nella abdicazione di Papa Celestino V, poiché dubita delle effettive capacità del nuovo Papa Nella rivoluzione della Chiesa. Alla elezione di Bonifacio VIII, il quale perseguita i protetti del suo predecessore, si crea un forte scompiglio. Dato che Jacopone contrasta le ambizioni del nuovo pontefice, egli decide di scomunicarlo, condannandolo al carcere a vita. Anche da qui Jacopone porta avanti la sua produzione letteraria. Verrà assolto e liberato dalla scomunica solo nel 1303, con l'elezione del nuovo Papa, Benedetto XI. Muore la notte di Natale del 1306. La sua opera comprende un cospicuo gruppo di “Laude”, sicuramente 92, un “Trattato” sull’unione mistica, lo “stabat Mater”, ossia una sequenza liturgica sulla passione di Cristo di non certa attribuzione. La Lauda è un componimento poetico e musicale in volgare di argomento religioso. La sua origine è da recarsi nell'accompagnamento ai riti liturgici, in particolare nei cosiddetti “pianti”, ossia in quelle lamentazioni della Madonna e delle pie donne per la morte di Cristo. I contenuti riguardano, in generale, i più diversi aspetti della devozione e della pietà religiosa, legati ai problemi della fede. Donna de Paradiso È il più antico esempio e famoso di lauda drammatica, costruita sotto forma di dialogo tra Gesù, Maria, gli ebrei, e probabilmente San Giovanni. Il carattere polifonico è strettamente associato a una concitazione narrativa che esprime i sentimenti drammatici e contrastanti da cui la scena è dominata: stupore, dolore, odio, amore. Fino a distendersi, nell'ultima e più lunga battuta pronunciata da Maria, in una sofferta e quasi ininterrotta invocazione, dove si sommano il più tenero affetto e il dolore più straziante. All'interno della lauda assume un particolare rilievo il personaggio di Maria, rappresentata nella sua umanità di madre. La Madonna appare come una donna disperata per la vicenda del figlio, la cui condanna e la morte le sono del tutto incomprensibili, dal momento che Cristo non aveva alcuna colpa né peccato. La madre, la quale vede sull'orlo della morte il proprio figlio, vuole morire con lui salendo sulla stessa croce. La sua disperazione prorompe nel famoso “corrotto”, nel quale con i più dolci appellativi si rivolge alla sua creatura che non è riuscita a sottrarre al martirio. La Madonna non coglie nella morte del figlio l'esperienza necessaria per la redenzione dell'umanità dal peccato originale, ma solo l'aspetto terreno di terribile sofferenza. Anche Cristo rivela attenzioni da figlio per la propria madre terrena virgola che affida alle cure amorevoli di Giovanni, esortandola a restare in vita per servire i suoi seguaci, ma c'è in Cristo quella consapevolezza della sua missione salvifica che manca alla semplice donna del popolo. Il compito del Nunzio è quello di riferire alla Madonna tutto quanto avviene intorno alla croce; svolge con scrupolo il suo compito di cronista non risparmiando alla madre nessuna delle torture inflitte al figlio e senza una sua partecipazione emotiva al dramma. Due soli sono gli interventi del popolo presente alla scena ed entrambi con la funzione di affermare che in nome della legge Cristo deve essere condannato, dal momento che si è pronunciato come loro re, andando contro la legge del Senato. LA SCUOLA SICILIANA E I RIMATORI SICULO-TOSCANI Tra il 1230 e il 1250, presso la Corte di Federico II, nascono imitatori della poesia trobadorica che utilizzano il loro volgare locale, piuttosto che la lingua d’oc. Questo fatto ha importanza eccezionale, poiché i poeti siciliani creano la prima poesia d'arte in volgare italiano; tuttavia, i loro testi non sono nella loro forma originale, bensì ci sono pervenuti nella trascrizione di copisti toscani che hanno apportato caratteristiche del loro volgare a quello siciliano. I temi amorosi, i procedimenti stilistici, le forme metriche della poesia siciliana si ispirano in grande maniera ai modelli provenzali. I poeti siciliani trattano nei loro versi principalmente il tema dell'amore; questo perché a differenza del nord Italia, al sud non vi erano contrasti di cui i poeti potevano scrivere. Difatti per loro la poesia è un'evasione dalla realtà e l'amore è un puro gioco aristocratico e raffinato. Vengono trattati i temi tipici dell'amor cortese: l'omaggio feudale alla dama (depositaria di ogni virtù e pregio), l'amante si professa come umile servitore, come un vassallo; le lodi dell'eccellenza della donna, delle sue doti fisiche e spirituali; il ritegno a rivelare il proprio amore per paura che i malparlieri possano diffondere il segreto; il dolore per la lontananza. La poesia siciliana si diffuse in altre zone d'Italia soprattutto in Toscana; infatti i testi dei poeti siciliani ci sono pervenuti tramite la trascrizione di copisti toscani che ne toscanizzavano la lingua. In seguito al crollo della monarchia Sveva, l'eredità dei trovatori siciliani viene raccolta dai poeti toscani. Essi mantengono i temi d'amore e le convenzioni stilistiche, ma ne ampliano abbondantemente l'orizzonte tematico. L'ambiente politico e sociale toscano non è limitato alla monarchia, bensì vi è una certa dinamicità tra i vari comuni liberi, tra i quali vi sono conflitti e lotte; di conseguenza il poeta non è un semplice cortigiano raffinato, ma è un cittadino inserito nella vita sociale e politica della propria città. Questi poeti vengono definiti rimatori siculo-toscani e il loro esponente principale era Guittone d’Arezzo. IL “DOLCE STIL NOVO” Negli ultimi decenni del secolo, a Firenze si forma il nucleo di una nuova tendenza poetica, il “dolce stil novo”, con cui la lirica amorosa cortese giunge al suo culmine. Gli esponenti, tra i più importanti, sono Guido Cavalcanti e Dante Alighieri, per i quali è difficile fissare tratti distintivi di una vera e propria scuola data la loro forte e spiccata personalità. Nonostante ciò, è possibile individuare alcune tendenze comuni, come uno stile più limpido e piano che viene, per l'appunto, definito con il termine tecnico “dolce”. Per quanto riguarda i contenuti, la donna viene spiritualizzata, idealizzata, esaltata come angelo in terra e dispensatrice di salvezza. Vi è più stacco dalla tradizione in altri due aspetti: l'attenzione riservata all'integrità dell’amante, escludendo ogni riferimento a situazioni esterne, e il fervore intellettualistico che si ispira ad un bagaglio filosofico e scientifico di provenienza universitaria. Si sostituisce, inoltre, la corte reale con una corte tutta ideale, costituita da una cerchia ristretta di spiriti eletti. Questa sostituzione è dettata dal nuovo ambiente sociale cittadino che esclude la presenza della Corte. Lo “stil novo” è espressione dello strato più elevato delle nuove classi dirigenti comunali, le quali mirano ad essere la nuova aristocrazia, la quale, però, non deriva da una nobiltà di sangue, bensì, dall'altezza di ingegno. Il tema centrale di questa nuova tendenza poetica è l'identificazione di amore e gentilezza (nobiltà): il saper amare “finamente”, ossia saper scrivere poesie d'amore, è indice di una superiore nobiltà d'animo. La gentilezza, invece, è un dato di natura legato alle qualità personali e non alla nascita e al titolo ereditario. La formula “dolce stil novo” venne coniata da Dante, all'interno del canto XXIV del Purgatorio. Il rimatore guittoniano Bonagiunta domanda a Dante se fosse colui che inventò un nuovo modo di fare poesia componendo la canzone “Donne ch'avete intelletto d'amore”; Dante risponde che lui è un poeta e che scrive quando è ispirato da Amore, esprimendo esattamente ciò che gli detta il cuore. A questo punto Bonagiunta capisce, finalmente, l'ostacolo che si era interposto tra i rimatori guittoniani come lui e gli stilnovisti. Si coglie qui il forte distacco dalla poesia cortese italiana. La discriminante tra la poesia vecchia e quella stilnovistica è indicata da Dante in una più stretta aderenza dei poeti a ciò che Amore detta. Il precursore di questa tendenza è Guido Guinizzelli; altri esponenti degni di nota sono Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia e Dante Alighieri. Per quest'ultimo il discorso è ben più ampio; durante la sua giovinezza aderisce a questo movimento poetico, ma ben presto si distacca per seguire altre direzioni. Ne è dimostrazione l'operetta la “Vita nuova”, nella quale raccoglie parte delle liriche in cui riprende temi e forme di Cavalcanti e Guinizzelli, corredate da un commento in prosa. Questa successione tra liriche e commento trasforma la vicenda amorosa in una vicenda mistica e simbolica, un viaggio verso Dio che prevede la donna amata come guida. È proprio la contraddizione tra amore e religione che distacca Dante dallo stilnovismo; questa questione viene risolta da egli stesso a favore della religione. Nella “Commedia” la trasfigurazione teologale dell'amore, per cui la donna amata (Beatrice) diviene allegoria della teologia, condanna l'amor cortese e stilnovistico come sentimento peccaminoso e pieno di insidie. Guido Guinizzelli Nato a Bologna nel 1235, Guinizzelli è un giudice impegnato nelle vicende politiche della sua città. Di famiglia ghibellina si schierò dalla parte dei Lambertazzi e quando questi vennero sconfitti, nel 1274, si rifugiò in esilio sui colli Euganei presso Padova, dove morì nel 1276. La sua produzione comprende 5 canzoni e 15 sonetti. Inizialmente è legato alla tendenza guittoniana, ma se ne staccò in seguito con la canzone “Al cor gentile rempaira sempre amore” (“manifesto” programmatico ed esemplare). Dante lo definisce come suo maestro e padre suo e degli altri poeti che hanno composto rime d'amore soavi ed eleganti. Nel “Canzoniere” guinizzelliano (raccolta delle sue canzoni e sonetti) sono presenti testi legati ancora al gusto di Guittone, ma la maggior parte dei componimenti presenta nuove tonalità stilistiche e i tipici temi stilnovistici (l'identificazione tra amore e gentilezza, l'equiparazione della donna ad un angelo, la lode alla donna). La poesia di Guinizzelli costituisce un esempio perfetto di stile dolce e leggiadro, ossia uno stile limpido e piano in contrapposizione alla contorta oscurità guittoniana. Al cor gentile rempaira sempre amore I temi principali di questa canzone sono la nobiltà d'animo, l'indissolubilità della gentilezza (intesa come nobiltà) e dell'amore, l'identificazione tra amore e poesia, l'obbedienza dell'uomo alla donna come degli angeli a Dio, l'amore non peccaminoso per una donna che abbia sembianze dell’angelo. È una canzone composta da sei strofe composte, a loro volta, di dieci versi (endecasillabi e settenari). Prima stanza: Guinizzelli afferma che al cuore nobile (gentile) farà sempre ritorno l'amore, come l'uccello ritorna tra il verde del bosco. Afferma anche che la natura non creò l'amore prima del cuore nobile, nemmeno viceversa; questo perché non appena venne creato il sole rifulse anche lo splendore e non prima. L'amore prende posto nella nobiltà di cuore in modo naturale esattamente come il calore nella luce del fuoco. Vi sono diverse similitudini tra amore, uccello, sole: tutti e tre fanno ritorno a qualcosa e sono stati creati contemporaneamente. Vi è anche un chiasmo “amor anti che gentil core-gentile core anti ch’amore”. Seconda stanza: il fuoco di amore si accende nel cuore nobile come nella pietra preziosa, si accendono le sue più alte qualità, le quali non sono derivate dalla stella prima che il sole le trasformi in nobile cosa; dopo che il sole ha tirato fuori con la sua forza ciò che in lei è vile, la stella le infonde valore. Allo stesso modo il cuore che dalla natura è stato reso puro, nobile, la donna, simile alla stella, lo fa innamorare. Più semplicemente il sole purifica la pietra e la rende atta a ricevere dal suo specifico astro le concrete proprietà di gemma; la natura corrisponde al sole, il cuore nobile alla pietra preziosa, la donna all'astro. Terza stanza: amore risiede nel cuore nobile per lo stesso motivo per il quale il fuoco risiede in cima alla torcia: lì splende a suo piacimento, chiaro, sottile; non gli converrebbe altro modo di essere, tanto esso è indomabile. Così la vile natura avversa l'amore come fa l'acqua fredda con il fuoco caldo. Amore prende dimora nel cuore gentile, come nel luogo che gli è affine, come il diamante nel minerale di ferro. Vi è presente un enjambement tra il verso 26 e 27. Ai versi 21 e 22 vi è una similitudine tra l'amore e il fuoco, così come ai versi 28-29-30. Quarta stanza: il sole colpisce il fango continuamente, ma quest'ultimo resta cosa vile e il sole non perde il suo calore: così come l'uomo superbo che dice di essere nobile per schiatta, paragonato alla vera nobiltà, rimarrà sempre uomo superbo e non nobile. Questo perché non si deve credere che la nobiltà risieda al di fuori del cuore, nella dignità ereditata col sangue, soprattutto se non si possiede un cuore nobile che sia incline alla virtù; così come l'acqua si lascia attraversare dalla luce e il cielo contiene le stelle e la loro luminosità. Quinta stanza: come Dio splende dinanzi all'intelligenza angelica, e in tale intuizione essa trova quell'impulso a ubbidirgli che si manifesta nel motto impresso al cielo, così la donna splende agli occhi dell'uomo nobile, che di lì dovrebbe trarre incentivo a obbedirle di continuo. Al verso 47 è presente una similitudine iperbolica per la quale la donna è paragonata a Dio che riceve obbedienza dagli angeli, così come la donna la riceve dall’amante. Sesta stanza: in questa stanza Guinizzelli si rivolge direttamente alla donna, è un apostrofe. Donna, Dio mi dirà “Qual è stata la tua presunzione?” quando l'anima mia sarà davanti a lui. “Attraversarsi il cielo e giungesti fino a Me e prendesti Me come termine di paragone per un amore vano (in quanto terreno): soltanto a Me convengono le lodi, e alla Madonna regina del cielo, grazie alla quale viene meno ogni peccato”. Gli potrò rispondere: “La donna mia ebbe l'aspetto di un angelo del Tuo regno; non commisi peccato, se indirizzai a lei il mio amore”. In questa stanza il tema principale è il conflitto tra amore e religione, risolto poi nel momento in cui la donna assume le sembianze di un angelo proveniente dal regno celeste. Il problema centrale della canzone è quello della nobiltà in un contesto storico del tutto diverso da quelli precedenti. Qui, per legittimare la propria affermazione sociale e politica non è più sufficiente la nascita da una famiglia di sangue nobile, ma occorre essere gentili, un valore personale dell'animo dato dalla natura del singolo individuo. Il fondamento della gentilezza è trovato nell’amore: amore e gentilezza sono un tutt'uno, non pensabili separatamente; il saper amare finemente è indizio di gentilezza, e viceversa chi ha un cuore gentile non può che manifestarlo amando finemente. Il saper amare cortesemente diviene il segno dell'elezione spirituale della nuova classe dirigente cittadina. L'amore assume qui un significato metaforico: saper amare vuol dire in sostanza sapere poetare d'amore, saper scrivere versi raffinati; Amore e poesia si identificano, sono indistinguibili. All'identità amore=gentilezza si somma quella gentilezza=altezza d’ingegno. Nella quinta strofa si introduce un nuovo ambito di comparazione, quello teologico. Al centro del paragone vi è ancora un concetto cortese, quello dell’obbedienza dell'amante alla donna, cioè della servitù d'amore, ma l'ambito metaforico è profondamente diverso rispetto a quello della poesia cortese precedente: il rapporto uomo-donna non è più equiparato a quello tra vassallo e signore, bensì a quello tra gli angeli e Dio. L'amore diviene, quindi, una sorta di culto mistico della donna, trasformata in essere miracoloso, equiparabile alla stessa divinità. Questo paragone porta in evidenza il conflitto tra amore e religione, risolto con una nuova lode alla donna, la quale avente sembianze di un angelo che venisse dal paradiso, non era una colpa amarla. Guido Cavalcanti Nasce a Firenze intorno al 1250 da una tra le più potenti famiglie di Firenze di orientamento guelfo punto si schierò dalla parte dei Bianchi e partecipò alle vicende politiche della città. Nel 1280 fu uno dei garanti della pace tra Guelfi e Ghibellini. Nel 1284 e nel 1290 fu eletto tra i rappresentanti del Consiglio del Comune. Nel 1300 venne condannato all'esilio; dal confino di Sarzana fu richiamato a Firenze il 19 agosto, ma, ammalato di malaria, morì. La sua produzione letteraria conta 52 componimenti, tra cui 36 sonetti, 11 ballate e due canzoni. La sua canzone manifesto è “Donna me prega”. Al centro di questa canzone vi sono gli effetti prodotti dall'amore: dalla vista della bellezza della donna nasce una figura ideale e intellettuale, che esercita il suo influsso sull'anima sensibile dell'uomo. L'amore, in balìa dell'anima sensitiva, diventa una forza oscura, che esclude ogni dominio razionale. Da qui nascono gli effetti sconvolgenti dell'amore e, di conseguenza, i temi caratteristici della poesia cavalcantiana: sbigottimento, tremore, lacrime, sospiri, distruzione fisica e spirituale dell'amante. La donna rimane lontana, irraggiungibile. Il dramma è tutto all'interno dell'animo dell'amante. Voi che per li occhi mi passaste ‘l core Questo componimento è un sonetto composto da due quartine e tre terzine e i temi chiave di questo componimento sono la forza prorompente di amore, gli effetti dolorosi e drammatici dell'amore, la metafora dell'amore visto come una caccia e l'annullamento dell'io poetico di fronte all'amore. Lo sguardo della donna provoca effetti devastanti sul poeta, privato delle funzioni vitali e con il cuore colpito a morte. Il sonetto si apre come un’apostrofe alla donna, la quale, tramite gli occhi, trafisse il cuore del poeta e risvegliò la mente dormiente. La donna ammira come amore distrugga la vita del poeta con così grande forza, mentre le forze vitali lasciano piano piano il corpo del poeta; resta solo l'aspetto del viso in suo potere e una voce fioca, che esprime dolore. Questo dolore è provocato da amore che, passante per gli occhi della donna, gli gettò una freccia nel fianco. Nell'ultima strofa si fa riferimento a Cupido il quale ha scoccato la freccia, che fece centro al primo colpo, così forte che l’anima del poeta si risvegliò vedendo il cuore morto nel lato sinistro. L'amore è concepito come una forza cieca, irrazionale che genera angoscia e dolore nell’amante. Il sonetto è costituito da una serie di immagini di violenza distruttiva e di sofferenza e non vi è quasi verso che non contenga riferimenti a questi temi. In questa vicenda di personaggi astratti, i moti interiori del poeta assumono forma oggettivata, i sentimenti si traducono in un'esperienza che vuole essere svincolata da ogni riferimento personale e da contingenze reali di tempo e di luogo; aspira ad avere un significato universale, assoluto. In questa forma oggettivata si traduce la concezione dell'amore come passione che esclude ogni controllo razionale, che annulla ogni facoltà sensibile e ogni energia vitale. L'annullamento della personalità ricorda gli effetti dell'amore mistico, ma qui il senso di morte non conduce ad alcuna rinascita spirituale, piuttosto si risolve in cupa e paurosa disperazione. LA POESIA COMICO-REALISTICA TOSCANA Con il termine poesia comico-realistica si intende l'esperienza di alcuni poeti con un percorso diverso rispetto alla poetica dominante nella lirica italiana del XIII secolo. Il rifiuto delle convenzioni stilnovistiche caratterizza la poesia “comica” che utilizza uno stile basso e che si occupa degli elementi quotidiani di una realtà volgare e degradata. Si tratta di un'operazione letteraria che propone un rovesciamento degli schemi e delle convenzioni della poesia elevata, con intento caricaturale e grottesco. Il procedimento prevalente è la parodia, che consiste nel trattare con linguaggio nobile e sublimato soggetti vili e spregevoli. I valori della cortesia e dell'amore sono capovolti nei loro significati più seri e ufficiali, con l'intento di mostrare il loro risvolto ridicolo: all'amore sublimante si sostituisce il desiderio sessuale, alla dama raffinata la donna plebea, all'elogio della virtù quella del vizio. Nel suo valore anticonformistico e alternativo dà spazio alla diversità, al dissenso, all'emarginazione. Gli autori di questa corrente sono: Cecco Angiolieri, il quale tratta di vita irregolare, scandita da taverne, giochi e donne. I temi principali della sua produzione sono: l’odio per il padre, l’amor sensuale per una donna plebea e la malinconia. Questi mirano a una esagerazione parodistica, in aperta polemica con i modi sublimanti dello stilnovismo. Rustico di Filippo che tratta, con vena satirica, di scene dell’ambiente borghese fiorentino con toni grottescamente caricaturali, con linguaggio corposo e violentemente espressivo. Folgore da san Gimignano: esprime ideale di vita cortese, animato dalla liberalità, dalla gioia, dalla magnificenza, documentando come la borghesia comunale faccia propri i valori della società feudale e cavalleresca. Tra la poesia stilnovistica e quella comico-parodica, non vi è un limite invalicabile; Rustico è autore di rime d’amore e, viceversa, Guinizzelli, Cavalcanti e Dante si cimentavano in rime scherzose. Dante Alighieri Dante appartiene ad una famiglia guelfa, non molto importante di piccolissima nobiltà, partecipa alla vita politica e militare. Partecipa alla battaglia di Campaldino contro Arezzo (1289). Il non essere nobile di Dante non è uno svantaggio, ma una posizione che si trasforma sia ideologicamente, dato che la borghesia è anche quella che governa, ma anche letterariamente, secondo Dante, infatti, la nobiltà non è un fatto di stirpe, ma una condizione di spirito. La prima stagione letteraria di Dante vede centrale questa posizione. Nel 1293 vengono promulgati da Giano della Bella gli ordinamenti di giustizia, che promuovono i ceti popolari mentre i nobili vengono estromessi dal governo, come grandi proprietari terrieri e banchieri. Questo fatto ha però delle conseguenze: la battaglia politica dentro Firenze infiamma; il partito nobiliare, escluso dal potere, trama ed estende la sua posizione sui guelfi, che si dividono in due parti: guelfi bianchi (capitanati dalla famiglia dei Cerchi; leader che si accorda con il potere economico e accordandosi con i ghibellini) e guelfi neri (capitanati dalla famiglia dei Donati, soprattutto Corso; un tirannico che spesso e volentieri si appoggia al papa). Due anni più tardi, nel 1295, Dante assume uno degli incarichi più importanti della città e si avvicina alla fazione dei bianchi, più popolari che si oppone alle vecchie famiglie nobiliari. Questa posizione però non rappresenta il Dante maturo, anzi accuserà la nuova nobiltà fiorentina di essere responsabile della rovina di Firenze. Nel 1297 Matteo d’Acquasparta viene inviato dal papa Bonifacio XVIII a Firenze per mettere pace nelle divisioni della città, ma lavora esplicitamente per la parte nera dei guelfi. Dante, in questo momento, è priore della città di Firenze, il più alto organo del governo comunale e, governando, prende delle decisioni importanti: condanna alcuni banchieri che avrebbero tramato contro la città per collaborare con la curia romana. La condanna consisteva nell’esilio o, nel caso di opposizione a questo, il taglio della lingua. Condanna, nel giugno del 1300, all’esilio i capi delle fazioni dei guelfi, tra cui anche il suo amico fraterno Guido Cavalcanti (nell’inferno verrà invocato da Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido) e anche Corso Donati. Per difendere il comune dall’ingerenza di Roma, lavora per sollevare dai contrasti la città, ma nel 1301 Bonifacio XVIII nomina al posto di Matteo d’Acquasparta, Carlo di Valois e i neri prendono il potere su Firenze con la violenza. Nel 1302 Dante viene accusato, in maniera molto forte soprattutto da Corso Donati, di baratteria (guadagni illeciti dalle proprie cariche pubbliche). Viene esiliato e non può tornare a Firenze. [Durante questo periodo immagina il suo viaggio, compiuto nella primavera del 1300, che serve per purificare il viaggiatore dall’errore (selva oscura) da cui è necessario uscire tramite un rito purificatore (viaggio tra i tre mondi). Incontra le tre fiere (lonza, leone, lupa). Tra queste la più preoccupante è la lupa, che rappresenta la cupidigia, perché Dante si trova ad affrontare quella di Donati che poi sarà la condanna di Firenze da lì a un anno e mezzo. Ogni decisione importante di Dante è stata presa dopo aver compiuto il viaggio ultraterreno, si trattano quindi di azioni politiche dopo l’investitura divina da cui è stato toccato. Erano azioni ispirate direttamente da Dio, come prima di lui era successo solo ad Enea* e a San Paolo**. * scende nell’ade grazie all’aiuto della sibilla cubana, incontra Anchise che gli predice la grandezza dell’Impero Romano, sarà grande perché presuppone la grandezza della chiesa. ** racconta di essere stato rapito e di essere portato al terzo cielo per una missione religiosa, ossia quella di recare conforto a quella fede che è il principio della via di salvazione. Dante non capisce cosa c’entri lui qui (nell’inferno), perché non è né San Paolo né Enea. Il viaggio di Dante è voluto da colui che può decidere un tale cosa, è chiaro quindi che Dante abbia una missione.] Durante gli anni dell’esilio frequenta diverse corti italiane, ci sono anche tentativi per tornare a Firenze violenti, come la battaglia della Lastra nel 1304, in cui gli tutti esiliati tentano di rientrare a Firenze. La produzione letteraria di Dante si divide in volgare e in latino. Per quanto riguarda gli scritti poetici in volgare abbiamo la “Vita nova” (prosimetro = poesie con commento in prosa), le “Rime” (raccolta poetica), la “Commedia” (poema allegorico-didascalico). Per quanto riguarda la produzione in prosa volgare si parla del “Convivio” (prosimetro di argomento filosofico). Le opere in latino invece sono tutte in prosa: “De vulgari eloquentia” (trattato di retorica), “De monarchia” (trattato politico), “13 Epistole” (epistolografia). Vita nova Venne scritta tra il 1293 e il 1295. Si presenta come ricapitolazione di un'esperienza passata, un'esperienza sentimentale e intellettuale insieme, di vita e di poesia, così unite tra loro da non potersi distinguere. Nel libro è contenuta una trama di esperienze reali, ma Dante mira soprattutto a cogliere i significati segreti che stanno al di là di essa e a comporli in una vicenda esemplare, valida universalmente, sottratta ai limiti del tempo e dello spazio. La “Vita nova” si divide in tre parti, incentrati su tre nuclei narrativi differenti: la prima parte tratta degli effetti che l'amore produce sull’amante, si tratta, di conseguenza, dell'amor cortese in cui l'innamorato spera in una ricompensa al suo amore da parte della donna; nel caso di Dante è il saluto. La seconda parte è incentrata sulla lode della donna che corrisponde all'amore fine a sé stesso, ossia quando l’appagamento scaturisce unicamente dalla contemplazione e dalla lode della donna amata. Per quanto riguarda la terza ed ultima parte si narra della morte della “gentilissima” (Beatrice), arrivando, così, a parlare dell'amore mistico in cui l'amore per la donna innalza l'anima dell’amante sino alla contemplazione di Dio. 1 parte: Dante incontra, per la prima volta, Beatrice all'età di 9 anni. Il secondo incontro avverrà nove anni dopo e al suo saluto gli sembra di vedere tutti i termini della sua beatitudine. Da allora nel saluto della gentilissima egli ripone tutta la sua felicità. Seguendo scrupolosamente quanto indicato dall'amor cortese, egli si sforza di tenere nascosta l'identità della donna amata, questo a causa dei malparlieri e della loro invidia. Difatti Dante finge di rivolgere il suo amore ad altre donne, da lui definite di schermo. La finzione, tuttavia, suscita le chiacchiere della gente, e ciò provoca lo sdegno di Beatrice, che gli nega il saluto. La privazione del saluto da parte della sua donna genera, nel poeta, uno stato di profonda sofferenza. Dante si rende conto che il fine del suo amore deve essere posto non più nel saluto, ma in qualche cosa che non gli può venire meno. 2 parte: quel qualcosa che non gli può venire tolto è la lode della sua donna; di conseguenza, decide di assumere per la sua poesia una materia nuova e più nobile di quella passata. Comincia così la sezione dedicata alla lode di Beatrice. Ma una visione, avuta durante una malattia preannuncia al poeta la morte della donna; dopo poco tempo, Beatrice muore realmente. Per Dante sono giorni di molto dolore, ed egli trova consolazione nello sguardo pietoso di una donna gentile; la tentazione di un nuovo amore è vinta da una visione in cui Beatrice appare al poeta. Tutti i pensieri di Dante tornano a Beatrice; e l'intelligenza nuova che Amore mette in lui lo innalza fino all’Empireo, la sede dei beati, dove ha la visione ineffabile di Beatrice splendente in tutta la gloria del paradiso. 3 parte: nell'ultimo capitolo dell'opera Dante narra di aver avuto un'altra mirabile visione che lo induce a non parlare più di Beatrice sino a quando non possa trattare più degnamente di lei. Si augura perciò di poter vivere tanto da arrivare a dire di lei quello che mai non fu detto di nessuna. Vita nova; cap. I Il capitolo iniziale funge come proemio ed è molto importante per intendere la concezione generale dell'opera. Dante vuole trascrivere nel suo “libello” una parte dell'esperienza registrata nella sua memoria. Dal momento che utilizza il termine “memoria”, fa intendere il carattere autobiografico dell'operazione che egli stesso si accinge a compiere. Non deve essere, però, interpretato come diario intimo, bensì la materia dell'esperienza vissuta è sottoposta ad una rigorosa selezione, che privilegia ciò che è essenziale sulla base di precise convenzioni retoriche ed allegoriche, in modo che assuma un significato simbolico ed esemplare. Definisce questa fase della sua vita come vita nuova, ma non nel senso di giovanile, bensì come rinnovata spiritualmente dall'amore per Beatrice. Il fatto che Dante utilizzi il libro della memoria come immagine metaforica è una tradizione nella cultura medievale, immagine utilizzata per indicare il ricordo. Vita nova; cap. XVIII Con questo capitolo si apre la seconda sezione della “Vita nova”. Viene narrato un incontro con un gruppo di donne gentili e il dialogo di Dante con una di esse. Questo scambio di battute non ha intenzione realistica e segue un percorso intellettualistico. Il dialogo dà la possibilità a Dante di una presa di coscienza fondamentale. La donna gentile gli chiede quale sia il fine del suo amore per Beatrice, poiché non riesce a sostenere la sua presenza. Il poeta risponde che inizialmente il fine era stato il saluto, dal quale scaturiva tutta la sua beatitudine; nel momento in cui Beatrice glielo nega, ripone la sua felicità nella lode con i versi alla sua donna. La donna gentile, a questo punto, coglie una contraddizione tra questa affermazione ed il comportamento di Dante: la sua poesia è incentrata solo sulla sua sofferenza. Colpito da questa osservazione, Dante vi riflette e giunge alla conclusione che da quel momento in poi i suoi versi saranno volti alla lode della gentilissima. Si rende conto, però, che questa materia è troppo alta rispetto alle sue capacità, per cui resta parecchio tempo senza cominciare. Vita nova; cap. XIX In questo capitolo si mischiano la prosa e la poesia, poiché vi è la prima delle rime della lode a Beatrice. In Donne ch’avete intelletto d’amore si afferma che il fine dell’amore non è più il piacere che deriva dalla presenza della donna e dalla speranza di essere ricambiato da lei, bensì il piacere legato alla semplice testimonianza della bellezza dell’amata. Il destinatario della produzione dantesca muterà: non è più Beatrice, ma le donne che hanno esperienza dell’amore e la capacità di conoscerlo. Nella prima stanza, ai vv. 9-14, il poeta spiega che l’oggetto da lodare supera le sue capacità e possibilità espressive perciò egli rinuncia, volontariamente, a una rappresentazione adeguata e si accontenta di espressioni che risultano limitate e limitanti rispetto al vero valore della donna. Nella seconda stanza, Dante rappresenta una sorta di processo che si tiene nell’Empireo, la sede di Dio: le intelligenze celesti (gli angeli) e i beati si lamentano della mancanza di Beatrice nel Paradiso e chiedono a Dio di sottrarla alla vita terrena per godere della sua compagnia. Dio, giudice supremo, consente alla donna di rimanere ancora del tempo sulla terra, affinché gli uomini, e Dante in particolare, possano beneficiare della sua virtuosa presenza. La terza stanza descrive le virtù di Beatrice, che ha quattro particolari poteri: appena appare alla loro presenza, è capace di distruggere i pensieri villani; chiunque entri in contatto con lei si trasforma in «nobil cosa»; concede la dimenticanza delle offese a chi sperimenti il suo valore; concede la salvezza eterna a chiunque le abbia parlato. Nella quarta stanza vengono elencate le qualità fisiche della donna: la carnagione color perla, simbolo di purezza, e gli «spirti d’amore inflammati» che dai suoi occhi colpiscono il cuore di chi incontra il suo sguardo. Amore stesso si riflette nelle sue pupille, tanto che nessuno può guardarla fissamente. Nella quinta stanza si ha un dialogo tra il poeta e la canzone, a cui viene suggerita una battuta (vv. 62-63) da rivolgere a chi può aiutarla a raggiungere Beatrice. Questi secondo Dante sono solo gli uomini e le donne cortesi. Vita nova; cap. XXVI Nel sonetto si descrive Beatrice nell’atto di salutare: ciò significa augurare e promettere la salvezza a chiunque la incontri, in quanto la donna è strumento e manifestazione miracolosa della divinità. Il tema del saluto di una madonna era caro a Guido Guinizzelli, precursore dello Stilnovismo, ma in questo sonetto troviamo anche la descrizione delle caratteristiche proprie della donna virtuosa cantata dagli altri poeti stilnovisti: la gentilezza, l’onestà, l’umiltà, la dolcezza. La donna passeggia per le vie di Firenze e chi la guarda sembra trovarsi di fronte a una visione miracolosa, tanto da rimanere senza parole e sentirsi intimorito solo a guardarla. Si tratta del motivo dell’ineffabilità della bellezza della donna (che torna anche al verso 11), affiancato a quello del tremore come manifestazione dell’amore. I due aggettivi riferiti alla donna nel primo verso, gentile e onesta, fanno entrambi riferimento alla sua nobiltà: il primo riguarda soprattutto la nobiltà interiore, il secondo invece si riferisce al decoro esteriore. Il verbo “parere” è il termine-chiave del componimento e non significa, come si potrebbe pensare, “sembrare”, ma “si manifesta nella sua evidenza”, “si rivela”, a indicare la rivelazione della perfezione della donna. Il verbo “saluta” ha invece doppia valenza: sta sia per “rivolge il saluto” che per “rivela segni di salvezza”. Chiunque assista alla visione di Beatrice è colpito dalla sua dolcezza e semplicità, che non sono comprensibili a parole per chi non partecipa direttamente al suo “miracolo”: di conseguenza, il sonetto ammette il proprio essere insufficiente a esprimere la materia trattata. Vita nova; cap. XLI Con la morte di Beatrice e la sua assunzione al cielo si apre il terzo stadio dell'amore, e l'ultima sezione della “Vita nova”: l'amore per la donna eleva le facoltà dell'anima dell'amante sino al cielo. Questo processo ascendente dell'anima culmina nell'ultimo componimento dell’opera, che è appunto questo sonetto, in cui il pensiero di Dante si innalza a contemplare Beatrice splendente nella gloria del paradiso. Giunge, così, a compimento quel simbolico viaggio dell'anima verso Dio, che è il livello amoroso di Dante: secondo lo schema seguito da tutti i mistici, l'amore divino, perfettamente disinteressato, ci innalza al di sopra di noi sino al cielo. Ciò che nel sonetto si descrive è, infatti, un vero e proprio viaggio mistico della mente. La contemplazione del miracolo, che nelle rime della lode si svolgeva in terra, ora ha raggiunto la sua sede propria. La collocazione del sonetto in chiusura dell'opera risponde ad un'architettura attentamente studiata e si carica di profondi significati. Poi lo spirito ridiscende in terra a ridire la sua visione al poeta. Una visione mistica, per sua natura, è ineffabile, non può essere espressa in parole umane: perciò Dante non riesce ad intendere ciò che lo spirito gli riferisce; capisce solo che l'oggetto del discorso è Beatrice. Il viaggio dell'anima a Dio, la contemplazione di Beatrice nella gloria del paradiso, il ritorno in terra a ridire quanto può essere ripetuto dell’esperienza ineffabile fanno già presagire il disegno della “Commedia”, ed in particolare gli ultimi canti del “Paradiso”. Vita nova; cap. XLII Il capitolo, breve come quello proemiale e rispetto ad esso complementare, riferisce di una "mirabile visione" avuta da Dante di cui il poeta non spiega il contenuto, ma che sicuramente riguarda Beatrice e lo induce a non parlare più di lei, almeno fino a quando non potrà dire di lei "quello che mai non fue detto d’alcuna". Rime Le rime sono una raccolta ordinata da moderni editori, che riunisce la produzione lirica dantesca dagli anni giovanili fino all'età matura. Rime giovanili: lirica cortese del tempo, guittoniana, guinizzelliana e cavalcantiana. Canzoni del “Convivio”: in seguito all'opera “Vita nova”, Dante intraprende un'attività poetica differente. In seguito alla morte di Beatrice nasce una passione per la filosofia; questo nuovo amore porta con sé alcune canzoni con impostazione esclusivamente allegorica: sotto l'immagine della donna di cui il poeta canta l'amore, si cela un'astrazione, la filosofia. In questa opera, nell'allegoria amorosa si esprimono l'ardore intellettuale e l'ansia di conoscenza, che si mischiano ai problemi morali del tempo (ad esempio, la definizione vera nobiltà). Con l'adozione di questi nuovi contenuti, si necessita l'uso di una rima aspra e sottile, Dante abbandona così lo stile dolce. Altro tema trattato all'interno delle rime di questo periodo è l'aspra condanna della propria epoca, la quale ha abbandonato le virtù cortesi del passato. Dante, che si schiera contro i problemi vivi nella società del suo tempo, assume la posizione del conservatore, manifestando una rigorosa tempra morale. Poesia comica: negli anni tra la morte di Beatrice e l'esilio, Dante attraversa un periodo di sperimentazioni. Intraprende la via della poesia comica e burlesca: di queste fa parte la tenzone con l'amico Forese Donati, ossia uno scambio di sonetti pieni di mordaci invettive con linguaggio basso e plebeo. Rime petrose: dedicate ad una Madonna pietra, nelle quali si riversa una passione del sensuale dalla forte carica erotica, lontanissima dai temi stilnovistici. Rime dell'esilio: in questi anni la visione di Dante si fa sempre più cupa: il mondo ai suoi occhi pare sprofondare in una totale condizione di degradazione morale. In queste rime Dante eleva a Dio una preghiera perché ristabilisca la giustizia; qui è espresso un intenso desiderio di pace e giustizia, che componga il mondo umano secondo l'ordine perfetto del mondo divino. Dante si scaglia contro l'avarizia e il culto del denaro che ormai dominano il mondo e che corrompono l'animo umano. Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io I protagonisti di questo sonetto sono Guido Cavalcanti e Lapo Gianni de’ Ricevuti, notaio e poeta stilnovista, e Dante. Guido Cavalcanti è anche il destinatario di questo sonetto, appartenente al periodo giovanile di Dante. Il poeta vorrebbe essere rapito da un incantesimo che lo trasportasse su un vascello con i suoi amici, così che andassero per mare senza altra meta che quella dettata dal loro concorde volere, sempre più uniti dal desiderio di stare insieme. Del sortilegio operato dal benevolo mago farebbero parte anche le tre donne amate dai poeti. Il sonetto propone il tema dell'amicizia poetica, sin dal vocativo d'apertura, indirizzato all'amico Cavalcanti. Dante esprime il desiderio di un isolamento perfetto in una cerchia di iniziati, legati da un'unione degli spiriti, da una comunanza di affetti e di gusti che escluda rigorosamente il mondo esterno. Al motivo dell'amicizia intellettuale, si aggiunge quello dell'amore. Esso è il centro di quel sodalizio poetico: ciò che stringe in ideale comunanza gli amici è il “ragionar d'amore” in poesia. Si delinea così un sogno di vita cortese collocato fuori dal tempo e dallo spazio, in un mondo rarefatto e prezioso, in cui tra vita e poesia non vi sia alcun distacco. Tre donne intorno al cor mi son venute Scritta probabilmente nei primi anni dell'esilio (forse nel 1302-1304), questa canzone è un'alta e dignitosa proclamazione da parte dell'autore dell'ingiustizia subita (esilio) e della propria dirittura morale, attraverso la metafora delle "tre donne" che fanno visita al suo cuore e che devono quasi certamente essere interpretate come immagine della Giustizia universale, della Giustizia umana e della Legge naturale. Le tre donne sono scacciate e trascurate da tutti, in quanto nel mondo la giustizia è ormai calpestata a causa delle prepotenze politiche e della corruzione della Chiesa, per cui esse sanno di trovare accoglienza presso Dante in quanto lui, esule per gli stessi motivi, può comprendere la loro triste condizione. Dante proclama in modo accorato la propria dirittura morale e afferma che l'esilio patito è un onore, proprio in quanto condivide lo stesso destino con "così alti dispersi". Delle tre donne allegoriche è solo la prima a parlare, ovvero la Giustizia universale, che si presenta come una nobile donna che indossa vestiti laceri ed è scalza, in lacrime per la sua triste condizione di esule: dichiara di condividere la stessa natura di Amore, in quanto sorella di sua madre e di essere nata alle foci del Nilo, presso l'Equatore dove il sole inaridisce le piante ("del vinco la fronda") per il troppo calore. Nello stesso luogo generò la Giustizia umana e questa generò a sua volta la Legge naturale, applicazione della Giustizia. Le armi che Amore mostra alle tre donne e che, a suo dire, sono ormai arrugginite per il poco uso da parte degli uomini, sono ovviamente le due frecce dell'amore e dell'odio attribuite al dio classico e fuor di metafora alludono probabilmente al potere temporale e spirituale (per quanto non siano mancate altre ipotesi): il dio afferma che a causa del comportamento umano lui, le tre donne e altre virtù sono scacciate dal mondo, ma esse continuano comunque ad esistere in quanto immortali e presto torneranno a trionfare grazie all'azione di altra "gente”. Nell'ultima stanza Dante considera un onore l'ingiusto esilio patito in quanto ad essere esuli sono anche le virtù del mondo, ed afferma inoltre che il bando gli pesa soprattutto per la lontananza da Firenze. Il primo congedo della canzone è quello che chiude il componimento in quasi tutti i codici e l'autore raccomanda al testo di non svelare il senso allegorico se non a chi è "amico di virtù", limitandosi a mostrare a tutti gli altri il senso letterale definito come "fiore" (il senso profondo è la denuncia della mancanza di giustizia nel mondo, quindi non può essere compreso che dagli uomini giusti, amanti delle virtù ormai scacciate). Il secondo congedo presenta un appello ai Neri affinché perdonino il poeta e gli consentano di rientrare a Firenze. Francesco Petrarca Nasce ad Arezzo nel 1304 da famiglia borghese. Il padre era notaio, mandato in esilio a seguito dell'appropriazione del potere a Firenze da parte dei Guelfi neri. Nel 1312 si trasferisce con la famiglia ad Avignone, residenza della Curia papale. Petrarca intraprende a Bologna e a Montpellier studi giuridici, ma la sua vera vocazione era la letteratura; perciò, nel 1326 senza terminare giurisprudenza ritorna ad Avignone. Qui conduce una vita frivola, ma al contempo si dedica allo studio di scrittori classici. Negli anni della formazione si delineano così le due tendenze fondamentali della cultura petrarchesca: il culto dei classici e un'intensa spiritualità cristiana. Scriveva abitualmente in latino, ma coltivava anche il genere della poesia lirica volgare, seguendo le orme degli stilnovisti e di Dante. Raccoglie tutti i motivi della sua poesia intorno ad un'unica immagine femminile, con il nome di Laura. Questo nome è ricco di risonanze simboliche, in quanto richiama il Lauro, la pianta sacra ad Apollo. Vi sono diverse discussioni sulla realtà di questo amore, si è giunti a dubitare dell'esistenza storica di questa donna. Si è concordi, però, nel ritenere che alla base del “Canzoniere” vi sia un'esperienza reale. L'amore per Laura dovette essere un episodio effimero e fu assunto come valore di un simbolo in cui il poeta concentra gli elementi della sua travagliata vita interiore. Petrarca sentiva l'esigenza di una sicurezza materiale, prese così gli ordini minori che gli permettevano di accedere a cariche e rendite lucrose, senza implicare la cura delle anime. Al bisogno di sicurezza materiale e di tranquillità si contrappone un'inquietudine perpetua, una curiosità inesausta di conoscere. Questa necessità di conoscenza lo spinge a viaggiare e nei vari luoghi si reca nelle biblioteche di monasteri, abbazie, vescovadi alla ricerca di classici latini. In questi suoi viaggi stringeva amicizia con letterati europei e italiani, come Boccaccio. A questa irrequietudine si contrapponeva il bisogno di chiudersi in sé, di approfondire la conoscenza di sé stesso. Questa tendenza al raccoglimento interiore si concentra nel ritiro a Valchiusa, paese simbolo di un'attività spirituale indipendente per il poeta. Qui l'intellettuale realizza il suo ideale di vita autentica, non dispersa dietro cose vane e futili. Per Petrarca l'attività letteraria portava con sé due sentimenti molto forti; il primo era il bisogno di gloria che venne appagato nel 1341 dall’incoronazione poetica che avvenne a Roma, sul Campidoglio. In seguito, però, Petrarca toccò il culmine di una profonda crisi religiosa scatenata dal ritiro in convento del fratello Gherardo. Questa drastica decisione suonava come un ammonimento, nonostante ciò, non riuscì a prendere una decisione così radicale e definitiva come quella del fratello. In lui la crisi si tradusse in un tortuoso processo interiore senza alcuna risoluzione. In secondo luogo, l'esercizio letterario era visto anche come strumento di impegno politico e civile. Petrarca sente i grandi problemi del suo tempo e mira ad incidervi in quanto intellettuale. Usa il suo prestigio e la sua eloquenza per promuovere il ritorno del Papa a Roma, bollando la corruzione della Curia avignonese ed incitare la chiesa a recuperare la purezza originaria. Deplora le lotte civili tra le fazioni e tra i signori italiani ed invoca una pace durevole. L'insofferenza per la corruzione della Curia avignonese raggiunge il limite nel 1347: Petrarca lascia Avignone e tra il ‘48 e il ‘51 soggiorna in Italia stabilendosi definitivamente nel ‘53 a Milano; nel ‘61 a Venezia, ed infine presso Arquà nei Colli euganei. Qui trascorre gli ultimi anni e la leggenda narra che si sia spento nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 1374 chino su un codice di Virgilio. Petrarca rappresenta una nuova figura di intellettuale: l'intellettuale cosmopolita. Esso non ha radici in una tradizione municipale, ha perpetua ansia di viaggiare, varia continuamente il luogo dei suoi soggiorni. Questa sua scelta italiana viene praticata in nome di un'ideale nazionale, anche se solo in termini culturali e letterari, non politici. In secondo luogo, Petrarca è pienamente un intellettuale cortigiano che accetta e sostiene la nuova istituzione della Signoria con il suo prestigio e la sua autorevolezza. In questo ha una funzione pubblica: è impiegato in incarichi prestigiosi, dà lustro alla Corte e dà consigli ai signori; in cambio ottiene rendite e protezione. Resta tuttavia geloso della sua autonomia intellettuale, perciò rifiuta incarichi che lo vincolerebbero istituzionalmente alla struttura del potere. Garanzia di questa indipendenza sono le rendite ecclesiastiche che lo preservano dal dipendere dai favori di un signore. Anche qui anticipa una nuova figura: il chierico, colui che trae sostentamento da cariche e benefici ecclesiastici senza doversi disperdere in attività professionali o di altro genere. Queste diverse sfaccettature di un nuovo intellettuale petrarchesco si traducono e manifestano nelle sue opere. Alcune di queste vengono scritte in volgare, come il “Canzoniere” (raccolta di liriche) e i “Trionfi” (poema allegorico in terzine). Anche se la maggior parte della sua produzione letteraria è in latino; per quanto riguarda la prosa scrive “Secretum” (Il segreto, dialogo morale), “De remediis utriusque fortunae” (I rimedi per la buona e la cattiva sorte, enciclopedia morale), “De vita solitaria” (la vita solitaria, trattato morale), “Familiari, Senili, Sine nomine, Varie” (epistolario), “De viris illustribus” (gli uomini illustri, raccolta di biografie). Per quanto riguarda la poesia in latino scrive “Africa” (poema epico in esametri). Canzoniere Rerum vulgarium fragmenta ("Frammenti di cose volgari") sono una raccolta di 366 liriche scritte nell'arco di tutta la vita e messe insieme nella forma definitiva negli ultimi anni prima della morte, approssimativamente tra il 1336 e il 1373-74. L'opera è anche impropriamente intitolata Canzoniere e non ha una cornice narrativa in prosa ma presenta una successione di poesie, tradizionalmente divise tra quelle “In vita di madonna Laura” (sino al sonetto 264) e quelle “In morte di madonna Laura”, benché tale suddivisione non sia resa esplicita dall'autore. L'amore per Laura è il tema dominante della raccolta, ma non mancano altri argomenti come la critica alla corruzione della Curia papale di Avignone, la politica del tempo, mentre alcuni componimenti sono d'occasione e dedicati ad amici e potenti protettori del poeta. L'ordine di pubblicazione delle poesie non rispecchia quello di composizione e infatti il sonetto di apertura è stato certamente scritto tra gli ultimi, quando Laura era già morta e l'autore considera in maniera retrospettiva la sua vita sprecata nell'amore non corrisposto della donna. L'opera ci è stata tramandata da alcuni manoscritti tra cui specialmente il Codice Vaticano Latino 3196, che per buona parte è stato vergato di pugno dallo stesso Petrarca con tanto di annotazioni a margine e dunque del testo possediamo l'autografo (primo caso tra gli autori del Medioevo). Il titolo originale alludeva alla scarsa considerazione che l'autore riponeva in quest'opera, da lui giudicata inferiore agli scritti latini da cui si attendeva la fama. Canzoniere, I; Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono Questo sonetto è posto come proemio all'interno del libro. I temi chiave di esso sono l'amore come errore giovanile, la vergogna e il pentimento del poeta e la vanità di tutte le cose. Petrarca si rivolge, tramite apostrofe, direttamente ai lettori, coloro i quali ascoltano le sue poesie staccate fra di loro, in cui lui ripone il suono dei sospiri con i quali alimentava il cuore al tempo del suo primo errore, iniziato durante la giovinezza, quando era in parte un uomo diverso da quello che è ora. Petrarca spera di trovare pietà, non solo perdono, del suo stile mutevole nel quale egli piange e ragiona fra le speranze inutili e l’inutile dolore. Spera di trovare ciò presso qualcuno che conosca il significato dell'amore per averlo direttamente provato. Egli vede chiaramente adesso come per lungo tempo fu oggetto di chiacchiere da parte della gente, per cui spesso si vergogna di sé medesimo con sé stesso; e il frutto della sua follia è la vergogna, il pentimento e il riconoscere chiaramente che tutti i piaceri terreni sono vani come un breve sogno che svanisce. Canzoniere, III; Era il giorno ch’al sol si scoloraro Il sonetto fu abbozzato il 30 novembre 1349, come si apprende da una nota del manoscritto degli abbozzi. I temi chiave di questo sono la rievocazione del giorno dell'innamoramento e il parallelismo tra la sofferenza del poeta e quella di Cristo. Il sonetto rievoca il giorno dell'innamoramento per Laura, stabilendo una corrispondenza con il giorno della Passione, il Venerdì Santo. Alla base del discorso vi è dunque un parallelismo voluto tra le sofferenze del poeta che hanno inizio nel giorno della sofferenza di Cristo e di tutti i cristiani. Il parallelismo cela un'antitesi implicita: quello del poeta è un dolore vano e colpevole, a differenza di quello del Redentore e dei fedeli; quando Cristo muore per salvare gli uomini e i cristiani sono afflitti, il poeta si fa prendere nei lacci di una passione profana e sensuale. La coincidenza assume un carattere quasi empio: siamo di nuovo di fronte ad una confessione e ad un'analisi della coscienza che va a fondo, ad esplorare miserie e colpe. In Petrarca l'amore per la donna e l'immagine di Cristo sono in opposizione; l'amore è di ostacolo alla salvezza. In Petrarca scompaiono i sensi teologici e simbolici attribuiti all'amore: domina la pura dimensione esistenziale, psicologica e morale. Vi è una personificazione di Amore, il quale ferisce con le sue saette il cuore dell'amante, Amore che arriva al cuore attraverso gli occhi della donna che al contempo legano l’amante. Il poeta disarmato viene ferito da amore nel momento in cui la donna armata viene risparmiata. Canzoniere, XXXV; Solo et pensoso i più deserti campi Il sonetto risale probabilmente al 1342 e i temi di questo sono il desiderio di solitudine, la natura partecipe delle pene d'amore e la sofferenza e il colloquio interiore. Petrarca in questo sonetto esprime il suo desiderio di solitudine, difatti dice che solo e pensieroso percorre con lentezza le località più solitarie e volge con attenzione lo sguardo per evitare luoghi segnati da tracce umane. Non trova altro riparo che gli permetta di sfuggire all'evidente accorgersi della sua condizione da parte degli altri; infatti, dai suoi atteggiamenti mesti si comprende chiaramente come lui arda dentro di sé: tanto ormai è persuaso che monti, campagne, fiumi e selve avvertano di quale genere sia la sua vita, che nasconde all'indiscrezione degli altri. Tuttavia, non riesce a trovare strade tanto impervie né tanto isolate che amore non lo segua parlando con lui e lui con esso. Al centro del sonetto vi è il motivo della solitudine, che deve salvare il poeta dalla vergogna di rivelare agli altri uomini il suo tormento interiore, chiaramente leggibile nel suo aspetto mesto e malinconico. Fuggendo gli uomini, egli stabilisce un legame con la natura che diviene partecipe e confidente delle sue pene. Il paesaggio è privo di concretezza realistica e di urgenza fisica, materiale ed è avvocato con notazioni estremamente generiche o addirittura con serie di nudi sostantivi. La scena non si colloca in uno spazio preciso, ma fuori dallo spazio e del tempo, posta in una dimensione che è puramente interiore. Nel fuggire gli uomini il poeta non trova scampo alle sue sofferenze: lo accompagna pur sempre il pensiero ossessivo d'amore. La solitudine è in realtà un colloquio assiduo con sé stesso. La materia del componimento è la sofferenza interiore che non conosce requie, il dissidio che non trova mai soluzione. Canzoniere, CXXXVI; Chiare, fresche e dolci acque Sulla datazione di questa canzone ancora oggi si dibatte; i temi chiave di questo componimento sono la rievocazione di Laura, la stilizzazione della figura femminile e del paesaggio, la donna mediatrice tra l'uomo e la natura e l'incombere della morte. Al centro di questa canzone vi è l'evocazione dell'immagine della bella donna attraverso un movimento della memoria. Il componimento esemplifica perfettamente il processo di stilizzazione a cui è sottoposta la figura femminile. Viene enumerata una serie di particolari fisici, ma sono tutti elementi raffinatamente convenzionali, che rimandano ad una lunga tradizione di poesia amorosa e che non definiscono una figura concreta, corposa (il bel corpo, il bel fianco, gli occhi belli, la gonna leggiadra, le trecce bionde come l'oro forbito). Egualmente stilizzata è la natura su cui campeggia l'immagine femminile. Le componenti del paesaggio sono quelle abituali del topos classico e medievale del locus amoenus, un luogo idealizzato e piacevole caratterizzato da acque limpide, erbe fiorite, aria serena, rami da cui piovono fiori. Anche la natura non è presentata nell'urgenza fisica delle sue forme dei suoi colori, dei suoi profumi, ma si assottiglia in un raffinato arabesco. Come Laura non è una persona definita, così il luogo della sua apparizione non ho un luogo preciso, ma astratto che è, dunque, dovunque e in nessun luogo. Questo è un esempio perfetto di quella rigorosa selezione e rarefazione a cui la poesia petrarchesca sottopone la realtà esteriore, per poterla ammettere nella gelosa cerchia dell'io perplesso e lacerato. La realtà è così rarefatta perché non è un dato oggettivo, ma pura costruzione mentale. Infatti, quella che è descritta non è una scena presente, ma è recuperata dalla memoria: il mondo esterno scompare, diviene un elemento del mondo interiore. La memoria è tanto importante perché Petrarca sente angosciosamente la fuga del tempo e la precarietà delle cose; la memoria è l'unico mezzo per dar loro in qualche misura stabilità e consistenza. La prima strofa si incentra sul ricordo di Laura immersa nell’acqua, circondata dagli elementi naturali. Proprio questi sono gli interlocutori a cui ci si rivolge: a loro, soli testimoni del fatto raccontato, il poeta chiede udienza per le sue parole. Il paesaggio si identifica armoniosamente con Laura, che ne è parte e che conferisce significato ad esso: per mezzo di lei, della sua presenza, il ramo diventa gentile, l’aere diventa sacro; viceversa, le parti del corpo di Laura si dissolvono nella natura, il bel fianco, l’angelico seno diventano elementi della natura in mezzo agli altri. La seconda e la terza strofa, invece, si spostano sul vagheggiamento di una possibilità futura, una vera e propria fantasticheria: che il poeta dopo la morte sia sepolto sulle rive del fiume e che Laura, di passaggio per questo luogo, vedendo la tomba, apprenda della morte di lui e ne abbia compassione. In questo componimento è fortemente presente un senso della morte incombente che tinge la lirica di una sfumatura di sconforto, se non di disperazione. Nelle strofe successive, infine, si ritorna al ricordo del passato: nella quarta strofa, l’immagine di Laura coperta da una nuvola di fiori conferisce alla rievocazione toni favolosi, con i petali che ondeggiano quasi per incanto, mossi da Amore; nella quinta, infine, a coronamento del trionfo laurano, la donna amata è proiettata in una dimensione angelica e divina, creatura paradisiaca che dà al poeta l’impressione di essere traslato in cielo. Canzoniere, CXXVIII; Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno È una canzone composta probabilmente nel 1345, in occasione della guerra combattuta intorno a Parma tra Obizzo d'Este da un lato e Filippo Gonzaga e Luchino Visconti dall'altro, che avevano assoldato milizie mercenarie germaniche. I temi chiave di questo componimento solo la deprecazione delle lotte civili il problema delle milizie mercenarie, la decadenza dell'Italia rispetto al passato glorioso di Roma e la fugacità del tempo. La canzone è un esempio della poesia politica di Petrarca, nella quale si colgono due temi centrali: la deprecazione delle lotte civili tra i signori italiani e la condanna dell'impiego di milizie mercenarie germaniche. Gli interlocutori del poeta sono i signori. Petrarca si rapporta ormai alla nuova realtà signorile che si è affermata nella penisola e, come grande intellettuale, si propone nelle vesti del saggio al di sopra delle parti, colui che ammonisce, esorta, guida e indirizza al bene chi ha la responsabilità del potere. Si vedano le ultime due strofe in cui viene in primo piano le emozioni dei sentimenti, l'equazione patria- madre, l'appello ai più profondi legami familiari. Inoltre, le motivazioni dell'appello ai signori non sono soltanto politiche, ma anche di tipo esistenziale: nella penultima strofa il poeta richiama i temi a lui cari della fuga del tempo, della labilità della vita, della morte incombente; il nome di questo egli li invita ad a deporre odi ed ire, a dedicarsi a più degne imprese, per aprirsi la strada del cielo. Il secondo motivo è quello delle milizie mercenarie germaniche, che invadono il suolo italiano e combattono non per ragioni ideali ma solo per interesse, passando disinvoltamente da un campo a quello avverso a seconda delle migliori offerte. Il motivo si specifica nella contrapposizione tra la nobiltà del sangue latino da un lato e la rozza crudeltà dei costumi tedeschi dall'altro. Su questo contrasto, riferito al presente, si innesta quello riferito al passato, tra la potenza romana e i popoli germanici, che appare come opposizione tra civiltà e barbarie. Se i Germani di oggi sono barbari e feroci come quelli antichi, gli Italiani appaiono gli eredi diretti dei Latini. Vi è per Petrarca una continuità tra civiltà romana e italiana; egli ha il culto di un passato glorioso di grandezza politica e di virtù guerriera, che vorrebbe perpetuato nel presente. Depreca quindi la decadenza italica ed invita ad una rinascita dello spirito antico, a ritrovare la virtù romana lottando contro i barbari. Canzoniere, CXXXVI; Fiamma dal ciel su le tue treccie piova Il componimento fa parte di un gruppo di tre testi (questo e i due sonetti che seguono nella raccolta) dedicati alla critica della corruzione ecclesiastica, in particolare della Curia papale di Avignone in cui l'autore aveva lavorato e che qui stigmatizza per l'avidità di denaro mostrata dagli ecclesiastici che, in questo senso, sono molto diversi dagli esponenti della Chiesa primitiva caratterizzata dalla povertà evangelica. Petrarca rappresenta la Curia come una donna perfida e corrotta invocando su di essa la punizione divina, proprio come nel sonetto successivo paragonerà Avignone a una "avara Babilonia" che ha colmato la misura suscitando l'ira di Dio. Nel testo Petrarca paragona la Curia papale di Avignone a una donna diabolica e tentatrice, attraverso il riferimento alle "treccie" e identificandola in modo allusivo con la città di Babilonia che spesso era usata come immagine della corruzione terrena, contrapposta alla Gerusalemme celeste: l'autore sottolinea il decadimento della Chiesa rispetto a quella delle origini, in cui i primi cristiani vivevano poveramente bevendo l'acqua dei fiumi e cibandosi di ghiande, mentre ora la Chiesa è diventata "ricca" ed è allevata tra le comodità e gli agi. Tra le accuse mosse da Petrarca alla Curia avignonese c'è soprattutto quella morale, poiché essa è diventata ai suoi occhi un "nido di tradimenti" in cui i prelati sono dediti al peccato di gola e a quelli carnali, con il richiamo ai "lecti" e alle "fanciulle". Al centro di questo luogo di corruzione regna il diavolo in persona, indicato col termine di Belzebù, intento ad alimentare il fuoco del peccato coi "mantici" (strumenti per soffiare sulle fiamme) e a fomentare la vanità femminile con gli "specchi", strumento diabolico di tentazione. Canzoniere, CCLXXII; La vita fugge, e non s’arresta un’ora Questo sonetto fa parte della sezione morte di Laura, i temi chiave sono: la fuga del tempo, l'oscillazione tra passato, presente e futuro, il dissidio e la sofferenza esistenziale e la metafora della vita come navigazione in mare tempestoso. Dopo la morte della donna amata, il poeta manifesta la propria desolazione e si abbandona a un'intensa meditazione sulla brevità dell'esistenza e sulla precarietà dei valori umani. Il componimento è uno dei più significativi sonetti di introspezione, di analisi di una condizione interiore caratterizzata dal dissidio e dalla sofferenza esistenziale. Il tema della fuga inarrestabile del tempo e l'incombere della morte vanificano il senso dell'esistenza. La consueta oscillazione tra presente e passato si allarga ad abbracciare il futuro, che conferisce al dramma interiore un senso maggiore di incertezza e precarietà. La condizione del poeta è egualmente negativa a quella del passato, a quella del presente e a quella del futuro. Anche la morte, che dovrebbe essere un rifugio tranquillo, appare fonte d'angoscia poiché la salvezza dell'anima è dubbia. Questa angoscia deriva inoltre da un senso di logoramento delle forze fisiche e spirituali, che non consente al poeta di affrontare la tempesta del vivere. Egli ha perduto la sua guida, Laura e per questo la realtà appare disgregata e l'io irrimediabilmente diviso, privo di punti di riferimento e di certezze. Canzoniere, CCXCII; Gli occhi di ch’io parlai sì caldamente Questo sonetto tratta della morte di Laura e della condizione del poeta dopo di questa. Petrarca, in seguito alla morte della sua amata, ha perso l'ispirazione, la sua poesia canta solo il dolore di cui piange. Per Petrarca gli occhi di Laura, di cui aveva parlato con tanta passione, le braccia, le mani, i piedi e lo sguardo lo avevano diviso in due, rendendolo diverso dagli altri. Vi è una minima descrizione non realistica della donna, bensì conforme ai canoni della donna angelica del dolce stilnovo (i capelli biondi, il sorriso angelico e il candore che facevano della terra un paradiso). Adesso la sua amata è solo un po' di polvere che non sente più nulla; Petrarca invece continua a vivere nel dolore perché rimasto senza la donna che ha tanto amato, come una nave senza vele in mezzo una grande tempesta. La grande tempesta qui è metafora della vita, divenuta tutto ad un tratto più difficile senza Laura, metaforicamente paragonata alle vele della nave (Petrarca) che affronta questa tempesta Canzoniere, CCCX; Zefiro torna, e ‘l bel tempo rimena È un sonetto di anniversario, che ricorda l'incontro con Laura che avvenne il sesto di aprile ed è databile probabilmente al 1352. I temi chiave di questo sonetto sono: il ritorno della primavera e il contrasto tra la severità della natura e del dolore per la morte di Laura. Il sonetto è costruito su un'antitesi: il ritorno della primavera, stagione della vita e della gioia, la quale porta con sé serenità e amore virgola che pervadono tutta la natura; da tanta serenità è escluso il poeta, anzi la gioia della natura accentua, per contrasto, il suo dolore per la morte della donna amata. Da qui deriva il rovesciamento di prospettive operato dalle terzine. L'estraneità del poeta al trionfo della gioia e dell'amore riduce ai suoi occhi la vita più rigogliosa e la bellezza più soave ad un arido deserto. Canzoniere, CCCLXVI; Vergine bella, che di sol vestita È la canzone dedicata alla Vergine che chiude la raccolta, con un'intonazione da cantico religioso che da un lato si ricollega alla tradizione della poesia del Duecento, dall'altro esprime il consueto dissidio interiore del poeta diviso tra le lusinghe del mondo cui non sa rinunciare fino in fondo e l'aspirazione a una vita dedita alla virtù per cui chiede l'assistenza del cielo, ormai alla fine della sua vita terrena. Tutto il testo è un'invocazione religiosa alla Vergine cui l'autore si rivolge sapendo di aver peccato e sentendo ormai prossima la morte, per cui Maria viene invocata in nome della sua purezza e secondo il motivo di Colei che soccorre i peccatori in virtù della grazia di cui è ripiena. Maria è definita anche esempio fulgido di umiltà e astro in grado di guidare gli uomini in terra proprio come un astro guida i marinai durante la tempesta. Il rimpianto espresso dall'autore è dovuto in larga parte all'amore peccaminoso per Laura: Petrarca rammenta come abbia sparso vanamente lacrime e preghiere per una bellezza mortale che lo ha distolto dal bene e dalla virtù, condannandolo a una vita raminga e priva di pace. Laura viene ricordata come "terra" contrapponendola a Maria in quanto è stata per lui fonte di tentazione e deviazione morale. La donna viene tuttavia elogiata anche in quanto ha opposto un rifiuto alla corte del poeta, cosa che gli ha causato enorme dolore ma anche preservato la salvezza dell'anima di lui non gettando discredito sulla reputazione di lei, per cui si arriva al paradosso che Petrarca rimpiange ciò che non è avvenuto (il corrispondere dei sentimenti di Laura), tuttavia è lieto perché questo non ha causato danno alla sua anima pur avendogli provocato pena e dolore per lo struggimento di questo amore impossibile. L'autore confessa in ogni caso di serbare fede alla memoria di Laura, per cui appare chiaro che il contrasto interiore non è interamente risolto e che Petrarca, pur essendo consapevole dell'errore morale del suo amore per la donna, non riesce a liberarsene del tutto neppure anni dopo la morte di lei e nell'imminenza del proprio trapasso che lo induce a rivolgersi alla Vergine. Ad un certo punto Petrarca descrive Laura come una novella "Medusa" che lo ha trasformato in un "sasso" (cioè lo ha reso insensibile e torpido) che tuttavia fa uscire le lacrime. Giovanni Boccaccio Nacque nel 1313 a Firenze, figlio illegittimo del mercante Boccaccino di Chellino. Legittimato viene avviato ai primi studi a Firenze. Nel 1327 il padre si trasferisce a Napoli poiché socio della banca dei Bardi, la quale finanziava la Corte angioina e ne amministrava gli affari. Portò il figlio con sé per fargli fare pratica mercantile. A Napoli Boccaccio rimane fino al 1340- 41; questo soggiorno ebbe un'importanza determinante nella sua formazione. Veniva quotidianamente a contatto con persone diverse e poté così maturare una concreta e multiforme esperienza della realtà che sarà alla base della sua arte di narratore. Essendo figlio di un socio della banca dei Bardi, partecipava alla vita raffinata dell'aristocrazia e della ricca borghesia napoletana. Sin dagli anni giovanili si delineano le due fondamentali direttrici lungo cui si muoverà tutta l'esperienza letteraria boccacciana: quella borghese, basata sulla realtà concreta della vita sociale ed economica e quella cortese protesa verso un mondo splendido di costumi signorili e di magnanimi comportamenti. Sempre nel periodo napoletano si afferma in Boccaccio la vocazione letteraria, la quale andava contro tutte le speranze del padre. Boccaccio subisce il fascino della tradizione cortese, molto apprezzata negli ambienti aristocratici da lui frequentati; accanto a questa ammira i classici latini. Accanto a questi si lascia affascinare anche dai classici nuovi, quelli della letteratura volgare: i poeti stilnovisti, in particolare Dante e Petrarca. Nel 1340 la banca dei Bardi entra in crisi e Boccaccio è costretto a rientrare a Firenze. Qui fa esperienza del grigiore opprimente della vita borghese, segnata dalle ristrettezze economiche. Di conseguenza si presenta per lui il problema della sistemazione; si reca presso vari signori, ma il suo sogno di essere ospitato alla corte napoletana non verrà mai esaudito. Nonostante ciò, la sua città natale lo ama e gli assegna anche incarichi pubbliche di ambasceria. Nel 1348 vive l’esperienza della peste, la quale prima aveva raggiunto l’Europa e in secondo luogo Firenze. Da qui prende spunto per la cornice narrativa del “Decameron”. Negli ultimi anni Boccaccio si trova davanti ad una evoluzione spirituale, determinante per lui è l'amicizia con Petrarca attraverso un fitto scambio di lettere, libri e informazioni letterarie. Boccaccio considera Petrarca suo maestro ed è lui che lo spinge a una devozione verso i classici. Abbandona l'idea di una letteratura per diletto e ne coltiva una più solenne e moralmente impegnata. Provato da questo travaglio religioso sceglie la condizione di chierico: nel 1360 viene autorizzato dal Papa alla cura delle anime. La crisi spirituale coincide con il periodo di delusione politica: nel 1360 il fallimento di una congiura (da parte di amici di Boccaccio) mette in cattiva luce lo scrittore stesso, il quale viene allontanato da ogni incarico pubblico. Nel 1362 si ritira a Certaldo, conducendo una vita appartata. Dal 1365 gli vengono riassegnati incarichi pubblici e la sua casa diviene il centro di incontro di un gruppo di intellettuali, il primo nucleo del futuro Umanesimo fiorentino. La morte lo coglie a dicembre del 1375. Le opere di Boccaccio si dividono secondo due periodi: quello napoletano (1327-40) e quello fiorentino (1340-53). Facenti parte del primo periodo sono, dal punto di vista poetico: “Caccia di Diana” (poemetto in terzine), “Filostrato” (poemetto in ottave), “Teseida” (poemetto in ottave); dal punto di vista prosastico: “Filocolo” (narrazione in prosa). Durante il periodo fiorentino scrive in forma poetica la “Commedia delle ninfe fiorentine” (prosimetro), “Amorosa visione” (poema in terzine), “Ninfale fiesolano” (poemetto in ottave). Dal punto di vista della prosa, invece: “Elegia di madonna Fiammetta” (romanzo in forma di lettera), “Decameron” (raccolta di novelle con cornice). Vi sono altre opere posteriori al “Decameron”; si trattano di opere in prosa latina e di opere in prosa in volgare. Per quanto riguarda il primo gruppo: “De casibus virorum illustrium” (le sventure degli uomini illustri), “De claris mulieribus” (le donne famose), “De genealogiis deorum gentilium” (le genealogie degli dèi pagani). Per quanto riguarda la prosa in volgare, invece, abbiamo: “Esposizioni sopra la Commedia”, “Trattatello in laude di Dante” e “Corbaccio”. Decameron Negli anni tra il 1348 e il 1353 Boccaccio si dedica alla composizione del “Decameron”, una raccolta di cento novelle. Il “Proemio” delinea le finalità e i destinatari ideali dell'opera: alleviare le pene delle donne che amano, e intrattenere piacevolmente un pubblico composto non da letterati di professione, ma comunque raffinato ed elegante. Una cornice narrativa racchiude le novelle, presentandole come raccontate in dieci giorni da una brigata di dieci raffinati giovani fiorentini, che si sono ritirati in campagna per sfuggire alla peste. Tale cornice rispecchia il motivo fondamentale dell'opera: la socialità serena della brigata è emblema dell'uomo, che con la sua forza e intelligenza sa imporre un ordine armonioso alla realtà, travagliata dalle spinte disgregatrici del caos. La realtà rappresentata dalle novelle, a differenza di quella uniformemente perfetta della cornice, e quanto mai varia: vi compaiono il passato e il presente, personaggi di diversa estrazione, situazioni tragiche e comiche. Un'attenzione particolare è dedicata al mondo dei mercanti, di cui Boccaccio celebra l'industria, ossia la capacità di superare le avversità con l'intelligenza e l'intraprendenza. Questo atteggiamento convive con la nostalgia per il mondo cavalleresco, ispirato ai valori della cortesia spesso incarnati da personaggi di ceto borghese: in questo senso Boccaccio appare il più autentico rappresentante di quelle classi emergenti che a presentarsi come eredi dello stile di vita dell'antica aristocrazia feudale. Antagonista per eccellenza dell'industria mercantile è la fortuna, concepita laicamente come forza cieca del caso e non più come manifestazione della provvidenza divina. Accanto alla fortuna, altra grande forza che anima l'universo del “Decameron” è l'amore, inteso come impulso naturale e declinato nelle forme più varie, dal nobile sentimento che ingentilisce alla passione fatale che conduce alla morte fino ai livelli più elementari della pura attrazione sessuale. Come al caos del reale si contrappone l'ordine dato dall'intelligenza umana, così alla molteplicità della materia del “Decameron” fa da contrappunto la costruzione unitaria dell'opera, racchiusa in una cornice e resa armonica da una serie di richiami e di corrispondenze interne tra le varie parti. Decameron; Proemio Attraverso il proemio Boccaccio spiega a quale categoria di pubblico fosse dedicato questo libro e lo scopo per cui l'ha scritto. Il libro è dedicato alle sofferenze causate dall'amore e specialmente alle donne che per il solo fatto di esser tali non hanno la possibilità di svagarsi (cacciare, giocare d'azzardo, mercanteggiare, ecc.) per cercare di dimenticare o almeno di alleviare queste pene e quindi, leggendo le novelle, potranno trovarvi svago ma anche dei suggerimenti utili su come comportarsi in determinate occasioni. Di conseguenza, l'autore indirizza il libro ad un pubblico raffinato (l'amore, secondo l'ideale cortese, è un sentimento nobile e quindi può essere sentito solo da donne gentili), ma non composto da letterati. Boccaccio usa, inoltre, il termine di "peccato della Fortuna" per spiegare la condizione femminile e usa questo termine probabilmente per evidenziare un tema che poi si rivelerà ricorrente nel romanzo e cioè la Fortuna, intesa come destino, che regola la vita dell'uomo, ma soprattutto la capacità di quest'ultimo di cambiare il corso degli eventi imponendosi sulla volontà della prima. Questa capacità, chiamata "industria", si rivelerà soprattutto negli uomini della classe emergente (mercanti e nuovi borghesi) della quale fa parte il Boccaccio. Questi "nuovi ricchi" non erano, però, stati del tutto accettati dai ceti nobili, quindi Boccaccio, con questo libro, vuole nobilitare questa classe alla quale sente di appartenere. Il secondo tema dichiarato in questo proemio è la trattazione dell'amore in tutte le sue forme a partire da quelle più serie (amore cortese) per il quale si ispira ai romanzi della grande tradizione, a quelle più frivole (amori più "terreni") per i quali si ispira ai fabliaux francesi adottando un linguaggio piuttosto esplicito che fu considerato scandaloso per molto tempo. In qualsiasi forma egli parli d'amore, lo presenta sempre come una fonte di dolore per l'uomo, anche se Boccaccio introduce una "novità" nella letteratura trecentesca: parla dell'amore visto con gli occhi di una donna.​ Dal proemio si comincia ad intuire la struttura dell'opera in cui il narratore si identifica con l'autore stesso, ma la narrazione delle varie novelle viene poi delegata ai dieci giovani che, alcune volte, passano la parola ai personaggi delle novelle che raccontano altri aneddoti.​ I modelli narrativi usati in tutto il romanzo sono esplicitamente dichiarati dal Boccaccio in questo Proemio e sono: novella, favola, parabola e testo breve. Decameron; Introduzione alla giornata 1 Dopo il Proemio, Boccaccio dedica la fondamentale introduzione alla prima giornata a presentare le conseguenze della peste a Firenze e a presentare i dieci narratori della “brigata” e il loro proposito di fuggire dalla città per salvarsi dal contagio. Nel contesto di distruzione e morte della peste descritto da Boccaccio vengono presentati i protagonisti della cornice narrativa: sette nobili ragazze e tre giovani uomini, che decidono di lasciare Firenze e rifugiarsi in campagna per sfuggire al contagio e al degrado morale. Un martedì mattina, presso la chiesa di Santa Maria Novella, si riuniscono infatti sette donne (che l’autore per loro rispetto maschera dietro gli pseudonimi di Pampinea, Filomena, Neifile, Fiammetta, Elissa, Lauretta ed Emilia), di estrazione nobile, raffinate, eleganti e assennate, a cui si aggiungeranno tre uomini ovvero Dioneo, Filostrato e Panfilo. Tra queste emerge Pampinea, che, essendo la più adulta delle sette, delinea la drammatica situazione della sua città e la necessità di fuggirne il prima possibile. L’orrore della morte è solo una parte delle argomentazioni di Pampinea; alla ragazza sta a cuore anche sottolineare il degrado etico e morale della città di Firenze, i cui abitanti hanno perduto ogni norma di comportamento o di rispetto. La corruzione dei costumi è tale da coinvolgere addirittura i rappresentanti della fede. Il rifugio in campagna sembra allora l’unico modo per mantenere l’ordine e la moralità. Boccaccio poi giustifica la compagnia mista di uomini e donne, che può essere vista come una situazione immorale e dissoluta, ma che è accettabile in circostanze straordinarie e drammatiche come quella della peste. Viene poi descritto il luogo in cui i giovani si rifugiano, con dei tratti che sembrano ricalcare quelli del locus amoenus della tradizione classica. Uno dei giovani, Dioneo, propone allora, per allontanarsi anche con la mente dalla tragedia della città, di “sollazzare”, “ridere” e “cantare quanto alla vostra dignità s’appartiene”: una reazione vitale al cospetto della morte. Pampinea accetta la proposta, ma le dà un ordine e una disciplina, stabilendo che ogni giorno ci sia un ragazzo o una ragazza con funzioni di capo, che “secondo il suo arbitrio, del tempo che la sua signoria dee bastare, del luogo e del modo nel quale a vivere abbiamo ordini e disponga”. Questo è necessario per garantire e prolungare il benessere e la gioia comune. E da qui prende avvio la narrazione delle cento novelle. Decameron; Giornata 1, novella 3 La prima giornata cade di mercoledì e la regina è Pampinea, la quale non impone nessun tema; nonostante ciò, tutte le novelle sono prettamente religiose. Questa novella, narra che Saladino, sultano d'Egitto e di Siria, era molto ricco, potente e saggio ma ultimamente, stava affrontando una carenza economica. Siccome Saladino era una persona molto avara, cercò di rivolgersi all'ebreo Melchisedech con l'astuzia affinché riuscisse ad ottenere ciò che voleva con una parvenza di giustizia. Così fece venire Melchisedech che era un usuraio di Alessandria, e gli domandò quale tra la religione giudaica (ebraica), quella saracena (islamica) e la cristiana, secondo lui fosse quella vera. Melchisedech però, oltre ad essere un fedele dell'ebraismo, era anche molto astuto e capì subito che con una sua risposta poteva andare contro il sultano. A questo punto l'usuraio, siccome doveva per forza dare una risposta, gli raccontò una novelletta che esprimeva un paragone. Infatti, questa novelletta raccontava che un uomo ricco possedeva una pietra preziosa e che alla sua morte la doveva dare in eredità a un figlio che doveva essere molto fedele e responsabile. Questa pietra preziosa fu tramandata per molte generazioni fino a quando, un discendente non sapeva a chi dei tre figli dare la pietra preziosa, poiché erano tutti e tre meritevoli dell'eredità. Così fece rifare due copie perfette della pietra autentica da un abile orefice. Alla sua morte, ognuno dei tre figli ricevette un anello e lo prese per vero, ma non si poté scoprire mai quali dei tre figli avesse ricevuto la pietra autentica. Tutta questa novella servì per far capire al sovrano che come l'eredità dell'uomo ricco era toccata a chissà chi fra i tre figli, ancora oggi non si poteva sapere quale, tra le tre religioni prevalenti, fosse quella autentica. Questa novella si conclude bene: Saladino ammirò l'intelligenza di Melchisedech e gli disse francamente la verità. L'ebreo prestò i soldi che servivano al sovrano. Saladino gli restituì poi l'intera somma, aggiunse grandissimi doni e lo fece diventare suo amico. Decameron; Giornata 2, novella 5 La seconda giornata cade di giovedì e la regina è Filomena, che per la prima volta stabilisce un tema al novellare, quello delle avventure a lieto fine. Andreuccio, che non si è mai allontanato da Perugia, è un “cozzone” (cioè, un mercante) di cavalli assai giovane ed ingenuo, che, giunto a Napoli per concludere qualche buon affare, fa sfoggio della sua ricchezza sulla piazza del Mercato. Andreuccio viene così notato da una prostituta siciliana ("una giovane ciciliana bellissima, ma disposta per piccolo pregio a compiacere a qualunque uomo", spiega Boccaccio), che cerca di derubarlo: dopo aver visto il giovane salutare con trasporto un'anziana donna, anch'essa siciliana, chiede a quest'ultima notizie sul giovane, per poi fingersi sua sorella, figlia di un’amante conosciuta dal padre durante un viaggio nell'isola. Il ragazzo viene invitato dalla donna nella sua casa, nella contrada Malpertugio, un quartiere malfamato di Napoli. Il giovane è commosso dalla rivelazione della donna ("questa favola, così ordinatamente, così compostamente detta da costei"), al punto da fermarsi a cena e poi, su insistenza della presunta sorella, a dormire lì. Spogliatosi dei suoi vestiti e della bisaccia con i denari così ambiti, Andreuccio si reca nella latrina (il "chiassetto"), dove c'è un'asse schiodata che funge all'uso. Il protagonista vi scivola dentro, senza tuttavia subire danni fisici dalla caduta nella fogna; mentre la donna s'impossessa dei denari, il giovane inizia così a gridare e a richiamare l’attenzione del quartiere. Interviene il ruffiano della prostituta, che invita il ragazzo ad andarsene per evitare problemi più gravi. Direttosi verso il proprio albergo, Andreuccio incontra poi due ladri, che lo scovano nonostante egli si sia rifugiato in un casolare: i due gli spiegano che è stato fortunato ad essere caduto fuori dalla casa della prostituta, perché se fosse rimasto là sarebbe stato senza dubbio ucciso. I due delinquenti raccontano poi al giovane che hanno intenzione di derubare il cadavere dell’arcivescovo Filippo Minutolo, gran dignitario del Regno napoletano, che, morto da poco, è stato seppellito con ornamenti e oggetti preziosi nel duomo partenopeo. Andreuccio (nuovamente ingannato da chi è più esperto di lui della vita ma soprattutto desideroso di recuperare la fortuna perduta) decide di partecipare al furto. I due ladri, però, obbligano il giovane a lavarsi, data la puzza che emana. Viene calato così in un pozzo vicino alla chiesa, ma viene subito abbandonato dai due, a causa dell’arrivo di alcune guardie di giustizia. Queste, assetate, tirano su la corda a cui era appeso il giovane e alla sua vista, colti dal terrore, fuggono. Andreuccio incontra nuovamente i ladri, cui racconta il proprio rocambolesco "salvataggio" e con cui attua finalmente il furto. Scoperchiata la tomba in marmo dell’arcivescovo i due criminali obbligano il ragazzo a introdursi nel sepolcro e a consegnare loro gli oggetti preziosi. Andreuccio, capendo che i ladri vogliono nuovamente abbandonarlo, una volta ottenute tutte le reliquie, tiene per sé un anello. I due chiudono poi nella tomba il giovane, che sviene per il terrore della morte e il puzzo del cadavere. Mentre Andreuccio si tormenta sul proprio destino sciagurato, sopraggiungono altri due ladri che aprono l'arca. Un prete prova a calarsi all'interno, ma Andreuccio, cogliendo l'occasione favorevole, gli afferra la gamba, terrorizzando lui e i due malfattori, che fuggono immediatamente. Finalmente libero, il protagonista esce dalla cripta e torna a Perugia, con l’anello dell’arcivescovo. Boccaccio attraverso Andreuccio ritrae il mondo dei commerci e la nuova classe sociale dei mercanti: astuti, scaltri, e sempre pronti a cogliere l'occasione per coronare i loro interessi. Questa è la classe emergente del XIV secolo, di cui l'autore sintetizza il dinamismo e la vitalità: Andreuccio, nella sua evoluzione, diventa parte di questa nuova forza, incarnandone consapevolmente i valori. Inoltre, ciò che l’autore descrive con perizia è anche la realtà urbana napoletana del Trecento, che Boccaccio stesso aveva conosciuto direttamente: il caotico mercato, i quartieri popolari e malfamati, i vicoletti e i suoi abitanti. La Fortuna e il Caso dominano questa novella cittadina, tipica dello spirito del Decameron: Andreuccio dopo diverse disavventure riesce a tornare al punto di partenza, Perugia, arricchito sia materialmente sia interiormente. Da giovane ingenuo che era, Andreuccio diventa un furbo mercante, che usa l’astuzia per sfuggire a situazioni pericolose. Quello di Andreuccio è un percorso di formazione e di maturazione che, sulle onde della Fortuna, permette al giovane protagonista di acquisire una nuova consapevolezza della vita: il suo rito di iniziazione prevede appunto una morte simbolica, corrispondente alle tre cadute nel "chiassetto", nel pozzo e nel sepolcro, e poi il ritorno alla vita, con il "premio" finale al suo coraggio e alla sua intraprendenza. Decameron; Introduzione alla quarta giornata Il reggimento della quarta giornata è nelle mani di Filostrato, vinto d’amore, e seguendo la sua si ragiona degli amori sfortunati: se da una parte serve a equilibrare i finali lieti delle novelle precedenti, dall’altra dà valore a quanto appena affermato nell’autodifesa perché la Fortuna – cui colleghiamo la responsabilità umana, la virtù – allunga la sua ombra anche nella quarta giornata, questa volta in negativo. Si tratta quasi di una deviazione obbligata per dimostrare che l’autore sa anche essere serio e, per accompagnare questo particolare tema, Boccaccio si lancia in un’appassionata difesa perché teme che la sua opera possa essere incompresa o travisata. Nonostante fino a quel momento avesse scritto dell’ingegno, della natura, del corpo, della gentilezza umana che deve essere ricondotta a un sano buonsenso, il fatto che si stesse servendo di leggerissime novellette aveva giocato a suo sfavore: molte novelle delle prime tre giornate sono di argomento erotico o inclini a porre la Fortuna e non la Provvidenza quale motore del mondo in una visione laica e disincantata della società. Si accorse che i suoi racconti rischiavano di piacere per il motivo sbagliato e che i critici potevano accusarlo di frivolezza e impudicizia. Doveva quindi giustificarsi davanti ai lettori, e vedremo questa cosa essere un tratto comune di chi si oc

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