Storia della Filosofia Antica - AUDIOLEZIONI PDF
Document Details
Uploaded by BestSellingJacksonville9949
UNICO
Tags
Summary
Questo documento presenta un'introduzione alla storia della filosofia antica, suddivisa in periodi come la filosofia presocratica, ellenistica, post-ellenistica e della tarda antichità. Si analizzano le figure chiave e le principali correnti di pensiero di ogni periodo. Il testo discute anche la periodizzazione della filosofia antica e i problemi connessi a tali categorie.
Full Transcript
STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA AUDIOLEZIONI 1 - Problemi di periodizzazione Categorie storiografiche Lo studio della filosofia antica è articolato in categorie storiografiche, che sono il risultato di una ricostruzione a posteriori che rende solo in parte con...
STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA AUDIOLEZIONI 1 - Problemi di periodizzazione Categorie storiografiche Lo studio della filosofia antica è articolato in categorie storiografiche, che sono il risultato di una ricostruzione a posteriori che rende solo in parte conto della complessità dei dati a nostra disposizione. Si tratta di categorie che hanno la loro ragione d'essere anche se non sempre sono ideali: il punto non è tanto sostituirle con altre categorie storiche che sono ancora più imperfette, si tratta piuttosto di rendersi conto dei limiti e della natura convenzionale di queste categorie. Tra queste categorie storiche rientrano senz'altro le seguenti: Filosofia presocratica Filosofia ellenistica Filosofia post ellenistica Filosofia della tarda antichità La storia della filosofia antica può senz'altro essere divisa in questi quattro periodi storici a patto di prendere le quattro categorie in questo punto di partenza e non di arrivo, per organizzare una relazione storica che In molti casi richiede strumenti più raffinati. Filosofia presocratica La categoria storiografica “presocratico”, in tedesco vorsokratiker, è un neologismo che appare per la prima volta solo alla fine del XVIII secolo, ma il termine è stato canonizzato quasi un secolo dopo da Hermann Diels e la sua raccolta dei frammenti dei presocratici pubblicata per la prima volta nel 1903. La giustificazione per l’introduzione e l’uso di espressioni quali “filosofia presocratica” e “filosofi presocratici” è che sia un prima e un dopo Socrate, e che Socrate dunque rappresenti una vera e propria cesura nello sviluppo del pensiero greco degli inizi. I problemi che derivano dall'uso di questa denominazione sono diversi innanzitutto i cosiddetti filosofi presocratici non sono un gruppo omogeneo. A rigore alcuni di essi sono inoltre contemporanei di Socrate ed infine nessuno di loro avrebbe descritto la propria attività con il termine filosofia e per giunta in rapporto all'attività di Socrate. Alcuni non hanno conosciuto Socrate, altri lo hanno ignorato. E’ stata la tradizione successiva, peraltro già documentata in Cicerone, a fare di Socrate il filosofo per eccellenza. Nietzsche sostituì la categoria di filosofia presocratica nelle sue lezioni tenute a Basilea. Questa scelta era funzionale al tentativo di Nietzsche di valorizzare gli inizi della filosofia antica, ma si capisce subito che non si ottengano vantaggi apprezzabili, invece di Socrate si prende Platone come termine di riferimento, ma da capo nessuno dei filosofi contemporanei di Platone avrebbe immaginato di situare la propria attività in rapporto con quella di Platone. E’ solo a posteriori che si riconosce in Platone uno dei giganti della storia del pensiero occidentale. Filosofia ellenistica Anche “ellenistico” è una categoria storiografica moderna, Con questa categoria ci si riferisce al periodo di tempo che inizia con la morte di Alessandro Magno nel 323 a.C. e si conclude per convenzione storiografica con la vittoria di Ottaviano su Marco Antonio nella battaglia di Azio del 31 a.C. Si tratta di circa 3 secoli di storia greca che rappresentano un periodo abbastanza omogeneo, nessuno dei protagonisti di questo periodo della storia greca avrebbe percepito il periodo in questione come distinto da quello che per noi è l'età classica, vale dire il IV secolo di Platone e di Aristotele. Eppure esistono buone ragioni per continuare ad usare questa categoria storica, pur nella consapevolezza della sua natura convenzionale. Basta infatti leggere alcune pagine dei trattati sulle piante di Teofrasto per rendersi conto di come il mondo abitato che i greci chiamavano oikoumene diventi improvvisamente molto più grande. Teofrasto ci parla con dovizia di particolari di piante ed alberi che crescono in luoghi lontani, quali l’Arabia e l’India. Si tratta di luoghi che diventano accessibili ai Greci solo dopo le conquiste di Alessandro Magno che arrivò fino all’odierno Pakistan. Anche se il mondo greco diventa improvvisamente più grande il mondo filosofico rimane sostanzialmente atenocentrico, basti pensare ai filosofi stoici, il fondatore della scuola, Zenone veniva da Cizio in Cipro, Cleante veniva da Asso in Asia Minore e Clesippo veniva da Soli, sempre in Cipro. Eppure tutti finiscono per gravitare su Atene che si conferma il centro culturale di riferimento anche nella Grecia post classica. Naturalmente la filosofia non era confinata ad Atene, basti pensare che Alessandria, città greca fondata da Alessandro Magno in Egitto, diventa un centro culturale importantissimo e sede della più grande biblioteca antica, voluta dalla dinastia dei Tolomei. Altri centri culturali importanti furono Pergamo in Asia Minore e Rodi. Infine spesso l’intellettuale greco è un intellettuale itinerante che si sposta da una corte ellenistica a un’altra. Le grandi scuole ellenistiche sono quelle epicurea e stoica. Epicureismo e stoicismo sono dei veri e propri stili di pensiero che in modo consapevole scavalcano i risultati ottenuti da Platone ed Aristotele per ritornare ai filosofi che li hanno preceduti. Per gli stoici Socrate rimane un autore imprescindibile, come peraltro Eraclito. L’epicureismo rientra nella tradizione dell’atomismo antico e dunque si deve pensare a quella relazione privilegiata con Democrito, anche se Epicuro fa di tutto per presentarsi come un autore originale senza padri e senza maestri. Filosofia post-ellenistica Si è cominciato a parlare di filosofia post ellenistica solo di recente. Il primo a usare questa categoria storiografica e a difenderne l’uso è stato George Boys-Stones in un libro del 2001 intitolato Post-Hellenistic Philosophy: A Study of its Development From the Stoics to Origen. Con questa categoria “filosofia post-ellenistica” si fa riferimento al periodo che va dalla prima metà del I secolo a.C. fino alla fine del II secolo d.C. Ancora una volta si tratta di un periodo di circa 3 secoli e ancora una volta nessuno dei protagonisti di questo periodo si sarebbe riconosciuto in questa formula. Eppure la categoria post-ellenistico indica allo stesso tempo l'esistenza di tratti di continuità col periodo precedente, ma anche la presenza di elementi di rottura o discontinuità. Dal punto di vista politico la novità più eclatante naturalmente è l'emergere di Roma, non solo come potenza politica ma anche come centro culturale e dunque anche filosofico. Dal punto di vista più strettamente filosofico il fenomeno più evidente è il ritorno agli antichi, i veteres di Cicerone. Con questa espressione si fa riferimento non solo a Platone e Aristotele e ai loro immediati successori, ma anche a Pitagora. I motivi di questo ritorno agli antichi sono complessi, ma non ci sono dubbi che nel I secolo a.C. si comincia a percepire l'esigenza di un ritorno al passato accompagnato dall'esigenza di fornire una narrazione storica che serva ad ancorare gli sviluppi del pensiero filosofico più recente agli inizi pitagorici, platonici e aristotelici. E’ in questo periodo che si afferma per esempio l'espressione l'espressione platonicos per riferirsi a un pensatore che si rifà a Platone e che considera il pensiero di quest'ultimo il punto di partenza imprescindibile di una filosofia degna di questo nome ed è in questo periodo che si riscoprono le opere di Aristotele. La datazione per Andronico di Rodi è incerta come incerto è se Andronico abbia davvero realizzato un'edizione delle opere di Aristotele, probabilmente no. Eppure la sua sistemazione delle opere di Aristotele attraverso la creazione di un catalogo ragionato è fondamentale per tutta la tradizione successiva ed è infine proprio in questo periodo, il periodo post-ellenistico, che si gettano le basi per l'idea che i padri del pensiero filosofico occidentale siano Platone e Aristotele. Si parla di filosofia post-ellenistica anche per sottolineare la continuità con il mondo ellenistico. Basti pensare ai dibattiti filosofici che restano ancorati a questioni che sono centrali a partire dal pensiero ellenistico e al dibattito intorno al determinismo storico. E’ impensabile fare filosofia in questo periodo senza prendere posizione su questa questione, ma ora lo si fa a partire da una prospettiva platonica o aristotelica, questa è la novità più rilevante. Da questo momento in avanti fare filosofia significa Infatti leggere Aristotele e Platone e impegnarsi a spiegare le loro opere. Nasce qui dunque il connubio tra filosofia ed esegesi. La filosofia della tarda antichità Parlare di filosofia della terra antichità significa parlare di un periodo che comincia con Plotino, di gran lunga il pensatore più originale del III secolo d.C. Plotino nasce in Egitto, si forma ad Alessandria come Ammonio Sacca, si trasferisce a Roma dove insegna a lungo la sua filosofia, che lui descrive platonica, per poi trasferirsi e morire in Campania. L'edizione delle sue opere è a cura di Porfirio del 301 d.C. Con Plotino inizia una nuova fase del platonismo antico a cui si è dato il nome del neoplatonismo. Anche il neoplatonismo è un neologismo, nessuno dei contemporanei o successori di Plotino e nemmeno Plotino stesso si sarebbe identificato in queste etichette. A noi oggi serve per sottolineare come il platonismo della tarda antichità si è decisamente segnato dall'avvento del pensiero di Plotino. La filosofia della tarda antichità è spesso ricordata in termini poco lusinghieri, come un periodo di decadenza, e come tale incapace di generare un pensiero davvero originale. In realtà l'originalità è un'ossessione tutta moderna, il pensiero tardoantico non ha i tratti di freschezza e originalità del pensiero classico, ma non si tratta di un pensiero debole, al contrario abbiamo a che fare con un pensiero forte e sicuro di sé dal momento che solo un pensiero con queste caratteristiche può concepire il progetto di integrare in un sistema filosofico di matrice platonica tutta la storia della filosofia antica. E’ in questo periodo che si cerca una sintesi tra il pensiero di Platone e quello di Aristotele. Si tratta di una sintesi che prevede la subordinazione di Aristotele a Platone, ovvero l'integrazione di alcuni tratti della filosofia aristotelica in un quadro decisamente platonico, o se si preferisce neoplatonico. In questo senso la filosofia tardoantica segna il trionfo della filosofia di Platone, una filosofia di carattere squisitamente dogmatico che forse Platone non avrebbe riconosciuto come sua, ma che è il risultato di un complesso processo di sistemazione che sarà poi trasmesso prima al mondo arabo e poi a quello latino. Inizio e fine della filosofia antica Siamo soliti considerare Talete il primo filosofo e siamo soliti far terminare la filosofia antica con la chiusura della scuola platonica di Atene ad opera di Giustiniano nel 529 d.C. In realtà i dati a nostra disposizione sono assai più complessi. Innanzitutto la tradizione che fa di Talete non solo il primo filosofo, ma anche il primo studioso impegnato in una ricerca dei principi primi della natura risale ad Aristotele, che all’inizio della Metafisica riporta una testimonianza che ancora oggi guida tutte le ricostruzioni degli inizi della filosofia. La ricostruzione di Aristotele è tutt'altro che innocente, anzi è volta a promuovere una certa idea, la sua, di filosofia. Si tratta di un'idea di filosofia come occupazione teoretica che un autore come ISocrate, per esempio, non avrebbe potuto comprendere, eppure ISocrate usa la parola filosofia e descrive la sua attività di insegnamento come filosofia. Vale la pena ricordare che Diogene Laerzio fa cominciare la filosofia antica con Anassimandro e Pitagora e considera il primo come iniziatore e fondatore della scuola ionica e il secondo fondatore di quella italica. Per Diogene Laerzio Talete è uno dei sette sapienti, non è un filosofo. Anche per Platone Talete è uno dei sette sapienti. Naturalmente non si tratta di rigettare la ricostruzione di Aristotele a favore di quella di Diogene Laerzio o viceversa, anche perché non rappresentano le uniche ricostruzioni possibili degli inizi della filosofia. Si tratta piuttosto di rendersi conto che ogni ricostruzione di questo tipo è a posteriori e risponde a esigenze teoriche precise. Lo stesso discorso si può fare per la fine della filosofia greca. Far terminare la filosofia antica con la chiusura della scuola di Atene, erede spirituale dell'antica Accademia fondata da Platone, è arbitrario, la chiusura della scuola di Atene non fu un evento epocale. La filosofia pagana di matrice platonica continuò a essere insegnata altrove, per esempio ad Alessandria, dove Platone e Aristotele continuano ad essere insegnati fino alla metà del VIII secolo d.C. E’ da qui che la filosofia greca passerà prima al mondo arabo e poi quello latino. La Scuola di Atene di Raffaello Sanzio Siamo soliti pensare la storia della filosofia antica a partire dal celebre affresco di Raffaello Sanzio, noto come La scuola di Atene. L’affresco in questione rappresenta una certa idea di filosofia, che fa di Platone e Aristotele, al centro dell’affresco in conversazione tra loro con a lato due schiere di filosofi e scienziati, le autorità filosofiche supreme. Questa idea di filosofia, come regina dei saperi che gravita tutta intorno ad Aristotele e Platone, non ha riscontro nel mondo antico. Innanzitutto abbiamo visto come il percorso che porta a fare di Aristotele e Platone i due pilastri del pensiero filosofico, inizia solo in età post-ellenistica. L'esito di questo processo non è tuttavia quello immaginato, o meglio rappresentato, da Raffaello: nessuno nel mondo antico si sarebbe mai sognato di mettere Aristotele sullo stesso piano di Platone. Se poi procediamo a ritroso è ancora più chiaro che nessuno nell’età ellenistica si sarebbe mai sognato di mettere Platone e Aristotele al centro del discorso filosofico, né gli stoici né tantomeno gli epicurei hanno mai attribuito ad Aristotele e Platone un ruolo centrale nella loro filosofia. Al contrario entrambi hanno scavalcato Platone e Aristotele per ritornare a Socrate (gli stoici) oppure alla tradizione precedente di tipo atomistico (gli epicurei). Quando si affrontano dunque le complesse vicende della storia della filosofia antica si deve sempre tenere conto di quanto diversi siano il nostro punto di partenza e la nostra sensibilità da quella degli antichi. Per noi Platone e Aristotele sono dei classici, per gli antichi, anche quando sono considerati delle autorità filosofiche, non sono mai messi su un piedistallo. 2 - Socrate e la tradizione socratica Socrate e I filosofi socratici (sokratikòi) Un passo da Cicerone (De oratore, III): «Da Socrate derivarono parecchie scuole, perché delle sue discussioni, varie e divergenti fra loro, e spinte in ogni direzione, ognuno aveva fatto propri elementi diversi; sorsero così delle famiglie in disaccordo fra loro, molto lontane e diverse fra loro, anche se tutti i filosofi volevano essere chiamati socratici e pensavano di esserlo». Socrate è di gran lunga il filosofo che più ha influenzato il corso della filosofia antica, tanto in età classica quanto ellenistica. Esiste dunque un prima e un dopo Socrate - questo è un primo elemento ricavabile dalla testimonianza di Cicerone. Un secondo è la natura diversa e inevitabilmente contraddittoria dell’eredità socratica: i filosofi socratici (sokratikòi) non sono un gruppo omogeneo, ma un insieme composito di famiglie in disaccordo tra loro. Cicerone infatti non a caso usa familiae, non si tratta di vere e proprie scuole strutturate. La natura contraddittoria dell’insegnamento socratico deriva in parte (ma solo in parte) dal fatto che Socrate non ha scritto nulla; ma questo da solo non basta a spiegare la complessità della tradizione socratica. Lui per i contemporanei e per gli immediati successori era un vero e proprio enigma, e tale resta per noi oggi. Dialoghi socratici (lògoi sokratikòi) Socrate non ha scritto nulla. Il suo impatto sulla tradizione filosofica successiva deriva interamente dalle conversazioni in cui poneva domande ai suoi interlocutori, che lasciava alcune volte perplessi, altre volte turbati, e infine a volte anche infuriati. Queste conversazioni sono all’origine della cosiddetta letteratura socratica. I dialoghi socratici (lògoi sokratikòi) sono conversazioni in cui figura come protagonista principale un personaggio di nome Socrate. I Dialoghi di Platone sono il migliore esempio, ma non l’unico: Senofonte, che conosciamo soprattutto come storico per l’Anàbasi e per le Ellènike che continuano a raccontare la storia del Peloponneso laddove si ferma il racconto di Tucidide, ha scritto non solo una Apologia di Socrate ma anche un Simposio, e infine una raccolta di ricordi di Socrate, i cosiddetti Memorabilia, cose memorabili della vita di Socrate. Proprio confrontando il Simposio di Senofonte con quello di Platone ci rendiamo conto che il dialogo socratico è un vero e proprio genere letterario con sue regole specifiche. Anche altri autori scrissero dialoghi socratici; di molti abbiamo solo frammenti. Cmq capiamo che i Dialoghi platonici sono solo la punta di un iceberg in buona parte rimasto sommerso. Qui basta sottolineare che Platone non scrisse i Dialoghi in un contesto in cui si tratta di difendere la memoria del suo maestro, ma anche in uno in cui si compete per l’eredità intellettuale di Socrate. Per molti di noi Platone ha vinto questa competizione, eppure lo storico della filosofia antica non può fermarsi a questa osservazione ma deve andare al di là, collocare l’opera di Platone nel suo contesto più naturale ovvero la letteratura socratica intesa in senso lato. Le fonti principali e l’enigma socratico Le nostre fonti principali su vita e pensiero di Socrate sono 3. In ordine cronologico: Aristofane, Platone, Senofonte. Aristofane: mise in scena la commedia Le nuvole nel 423 a.C., dove il personaggio principale è un certo Socrate che è a capo di una scuola in cui non solo si apprende la filofia naturale, ma si impara anche ad argomentare per vincere anche le cause più disperate. Il valore storico di questa fonte è da sempre controverso. Da un lato Aristofane scrive quando Socrate ha 46 anni, dunque nel pieno delle forze e maturità intellettuale. Aristofane è anche lui di Atene e possiamo immaginare che conoscesse di persona Socrate. Dall’altro lato Aristofane prende spunto da diverse fonti e protagonisti della vita intellettuale ateniese, non solo Socrate ma anche Protagora e Diogene di Apollonia. Il risultato è una caricatura non di Socrate, ma dell’intellettuale ateniese della II metà del V sec a. C. Platone: se Aristofane ha scritto e messo in scena una commedia, Platone è autore di lògoi sokratikòi dove Socrate figura come protagonista; ma sono finzioni, non hanno l’ambizione di rappresentare la realtà. Anche Platone non diversamente da Aristofane mette in scena un personaggio; non ci sono elementi esterni che ci fanno stabilire con ragionevole certezza che il personaggio coincide con il Socrate storico. Al contrario, spesso Platone è impegnato a rispondere ad altri autori socratici oppure ad Aristofane, che autore socratico non è, ma è un critico importante e pericoloso di Socrate. Quando ad es. nell’Apologia, Platone mette in bocca a Socrate la tesi che lui non ha nulla a che fare con il Socrate che studia i fenomeni naturali, abbiamo a che fare con un testo, l’Apologia, che rimanda ad un altro, le Nuvole: il fenomeno è quello dell’intertestualità. Alla fine di questi rimandi testuali da un testo all’altro non solo non siamo più vicini a Socrate, ma forse siamo più lontani da quel Socrate che visse ad Atene nella seconda metà del V sec a. C., che venne messo a processo e condannato a morte nel 399 a. C. Senofonte: anche lui come Platone è autore di dialoghi socratici, tra cui un Simposio. La tradizione ci ha abituati a privilegiare Platone, ma è un pregiudizio storiografico senza fondamento. In entrambi i casi abbiamo finzioni che servono a sviluppare idee diverse di Socrate, spesso in aperta polemica. Il Simposio fa allusione a quello di Platone, ma di nuovo siamo nella logica dell’intertestualità: un testo rimanda a un altro. Alla fine Socrate resta un grande enigma. Di lui sappiamo molto poco: vive ad Atene, non lascia mai la città, è processato e condannato nel 399. Rimane anche la sua accusa: sostanzialmente era di corrompere i giovani e non credere alle divinità in cui credeva la città di Atene. E’ molto poco… Cosa fare? Forse conviene abbandonare l’impresa di ricostruire la figura storica di Socrate, che ha fatto naufragare tanti studiosi. Resta invece lo studio approfondito delle diverse idee e immagini di Socrate trasmesse dai 3 pensatori succitati e da altri; e l’influenza e l’impatto di tali immagini nelle cosiddette scuole socratiche. Le scuole socratiche (Abbiamo dal lato di Platone la scuola scettica, da Senofonte quella stoica): Ricordiamo quanto detto sopra da Cicerone sulle varie familiae di scuole in disaccordo. Non possiamo qui ripercorrere l’intero dossier delle scuole, limitiamoci a due esempi che hanno a che fare con 2 delle 3 fonti principali, Platone e Senofonte. L’Apologia di Socrate di Platone è un testo fondamentale per la storia della filosofia ellenistica, infatti è da qui che Arcesilao di Pìtane prenderà le mosse per rifondare su nuove basi l’Accademia platonica. La nuova accademia di Arcesilao è scettica; ma la fonte di questo scetticismo è l’ignoranza socratica, come messa in scena da Platone nell'Apologia di Socrate. Laddove Socrate proclama di non sapere nulla, o meglio di sapere solo una cosa: che non sa nulla, che non possiede alcuna competenza, lo scetticismo accademico, con Arcesilao e poi con Carneade, è in confronto serratissimo con la filosofia dogmatica più importante dell’età ellenistica, lo stoicismo. Fin qui nulla di nuovo, eppure si tratta di capire che scetticismo accademico e dogmatismo stoico non rappresentano solo due alternative filosofiche, ma anche due letture diverse di Socrate. Non è tutto; se il Socrate scettico è quello dell’Apologia di Platone, il Socrate stoico è quello dei Memorabilia di Senofonte. Per capirlo basta leggere una pagina di Diogene, laddove quest’ultimo ci ricorda la conversione alla filosofia di Zenone, fondatore della Stoa: apprendiamo che Zenone prima di diventare filosofo era un venditore di porpore, che fece naufragio nei pressi del Pireo, porto di Atene; da lì salì fino alla città. Al tempo Zenone aveva 30 anni. Si fermò nella bottega di un libraio che leggeva dai Memorabilia di Senofonte, e provò tanta gioia da chiedere dove mai si potessero trovare uomini come Socrate. In quel preciso momento passava di lì Cratete cinico; il libraio glielo indicò dicendo “segui quest’uomo”! E da allora Zenone divenne discepolo di Cratete. Naturalmente anche questa è storia fittizia, ma con un messaggio preciso. Apprendiamo dall’aneddoto inannzitutto che i librai antichi non vendevano libri ma li leggevano, dietro compenso; poi che il libro decisivo per Zenone è un libro su Socrate, e non uno di quelli scritti da Platone bensì da Senofonte; infine che anche la filosofia cinica, cui Cratete si ispira, è una filosofia socratica. Lo stoicismo nasce come una filosofia socratica, e aggiungiamo: come un correttivo all’estremismo cinico. Non è un caso se esiste la tradizione biografica sempre riportata da Diogene, secondo cui Diogene di Sinope, il filosofo cinico più noto del mondo antico, non era altro che un Socrate che aveva dato di matto. Riflettiamo sulle dipendenze nell’uso delle frecce nel riquadro: rappresentano la realtà in modo estremamente semplificato. Da Diogene Laerzio apprendiamo infatti che fra i maestri di Zenone c’è anche uno scolarca dell’Accademia antica, cioè quella prima di Arcesilao - il suo nome è Polemòne. Diogene non ci dice che cosa Zenone abbia studiato con Polemone, ma possiamo immaginare che il Timeo di Platone sia stato tra i testi centrali studiati da Zenone. Ci ritorneremo. Intanto riflettiamo sulla complessa realtà che le freccette cercano di illustrare, e su come i testi abbiano una loro vita autonoma e possano essere usati e riusati in modo creativo dai filosofi diversi, in questo caso Arcesilao e Zenone. 3 - Il Timeo di Platone e l’indagine presocratica intorno alla natura Perché leggere il Timeo di Platone? Vediamo due risposte possibili tra le molte. 1) Perché è un classico: non solo della filosofia, ma anche della letteratura scientifica. «Classico è quel libro che una nazione, o un gruppo di nazioni, o il tempo hanno deciso di leggere come se nelle sue pagine tutto fosse deliberato, fatale, profondo come il cosmo e capace di interpretazioni senza fine» (Borges, Sobre los clasicos). Ma ancora meglio: 2) Perché Platone adotta, e allo stesso tempo adatta, alcuni elementi dell’indagine presocratica intorno alla natura. In questo senso, il Timeo è una vera e propria riflessione critica su alcuni momenti salienti della tradizione presocratica. Il Timeo di Platone e il pensiero cosmogonico L’indagine preplatonica intorno alla natura consiste in un tentativo di spiegare i fenomeni naturali nel contesto di una narrazione ab initio. Tale inizio coincide con l'inizio del cosmo, dunque l’indagine intorno alla natura presocratica prende la forma di una narrazione su come il cosmo nel suo complesso sia venuto ad essere: una vera e propria cosmogonia. Platone adotta lo stile di pensiero cosmogonico, come emerge dai seguenti due brani. «Considera, Socrate, l’ordine con cui ricambiamo i doni ospitali. Ci è sembrato che Timeo, dal momento che è tra noi il più competente in astronomia e ha ha studiato a fondo la natura dell’universo, debba essere il primo a parlare, incominciando dall’origine del cosmo per terminare con la natura degli uomini» (Tim. 26 E). «Pare che siamo quasi giunti al termine di quello che ci si era proposti all’inizio, ossia di discorrere dell’universo fino alla generazione dell’uomo» (Tim. 90 E). Adottare questo stile cosmogonico di pensiero non vuol dire necessariamente impegnarsi ad assumere che ci sia un inizio nel tempo del cosmo; da questo punto di vista è significativo che da subito i lettori del Timeo si siano divisi su questo punto. C’è stato chi, come Aristotele, ha optato per una interpretazione letterale del Timeo; altri hanno avuto una lettura non letterale. Il punto non è quale delle due letture sia da preferirsi, ma che il quadro di riferimento scelto da Platone sia quello cosmogonico. La sua lezione è in principio compatibile con una lettura non letterale della storia narrata, che è anche la lettura privilegiata nella storia della tradizione filosofica. Nous e anankê Dopo un esordio dedicato ad illustrare i principi ontologici ed epistemologici di carattere generale, il testo è diviso in tre parti, che seguendo le indicazioni di Timeo possiamo intitolare: - L’intelligenza (nous) e le sue opere (29 D-47 E); - Ciò che accade per necessità (anankê) (47 E-69 A); - Intelligenza (nous) e necessità (anankê) al lavoro insieme nella creazione dell’uomo (69 A-92 C). Parole chiave: nous e anankê - entrambe prese a prestito dal vocabolario presocratico. A differenza di anankê, che non ha un padre o una madre certa, nous è stato introdotto nel discorso filosofico da Anassagora per il quale è innanzitutto un principio di ordine, e in quanto tale è separato da tutto il resto. Un celebre frammento da un libro di Anassagora inizia così: “Tutte le cose partecipano di ogni cosa, ma il nous è illimitato, indipendente, non mescolato ad alcuna cosa, ma sta solo in sé”. L’assunto di partenza, mai esplicitato ma facilmente ricavabile dalla logica del discorso cosmogonico, è che le cose immaginate da Anassagora come mescolate nella situazione pre-cosmica non abbiano la capacità di organizzarsi da sole, ma necessitino dell’intervento di un principio di origine esterna. L’introduzione di un principio di ordine separato dalla materia è considerato non solo da Platone ma anche da Aristotele uno snodo fondamentale della riflessione greca intorno alla natura; eppure entrambi sono fortemente critici di Anassagora. La critica di Platone è registrata nel Fedone: Socrate, protagonista, ricorda come da giovane avesse sentito qualcuno leggere dal libro di Anassagora a proposito del nous come principio e causa di tutte le cose; dice di essere stato immediatamente attratto da questa teoria nella speranza di ottenere una spiegazione convincente dell’origine del cosmo; ma seguì una rapida delusione. La cosmogonia di Anassagora non convinse Socrate, perché il principio invocato per spiegare l’ordine non è usato da Anassagora nel corso della narrazione cosmogonica; oppure è usato solo come espediente narrativo. Sulla base dei pochi frammenti disponibili è difficile stabilire se la critica sia davvero fondata; l’impressione tuttavia è che ad Anassagora manchi un modello teorico che lo aiuti a spiegare come il nous intervenga nel processo cosmogonico. Nous come demiurgo divino Come Anassagora, Platone non ritiene che la materia abbia la capacità di organizzarsi da sola, ma che sia necessario l’intervento di un principio esterno di ordine. Ma a differenza di Anassagora, Platone dispone degli strumenti concettuali per spiegare come questo principio agisca sulla materia. Il nous di Platone è un demiurgo (dal greco dêmiourgos), ovvero un artigiano che agisce sulla base di un sapere tecnico (technê). Il nous di Platone non è solo un demiurgo, ma anche un dio; non un dio il cui pensiero e azione rimangono imperscrutabili, perché al di là della ragione; al contrario, un dio che è l’espressione più perfetta della razionalità, intesa come insieme di regole e procedure da seguire nell’attività produttiva. Dal momento che tali regole sono da noi condivise, nella misura in cui siamo anche noi agenti razionali, Platone è in grado di spiegare come l’intelletto intervenga nel processo cosmogonico. Quando Platone, come nel passo qui sotto, dice che dio è buono nel senso che la sua azione non è motivata da invidia o gelosia, non dobbiamo pensare a una valutazione morale, bensì all’attribuzione di competenza: la bontà del dio non è diversa da quella di un buon artigiano che compie il suo lavoro con competenza. L’invidia e la gelosia possono infatti essere intese come una capricciosa deviazione dalle regole della razionalità produttiva; un comportamento di questo tipo è incompatibile con l’ipotesi di partenza, vale a dire che il principio di ordine sia un demiurgo esperto, che esercita il suo sapere in modo impeccabile. Insomma demiurgo non è una divinità personale bensì la rappresentazione piena e perfetta della razionalità produttiva, che si ritrova anche nel sapere esperto di un artigiano competente. Quello che un artigiano compie nella sua attività demiurgica non è altro che l'applicazione di procedure oggettive, una sequenza logica di azioni che possono essere definite astraendo dalla persona che di volta in volta agisce. «Diciamo allora per quale ragione colui il quale ha prodotto il divenire e questo universo li ha prodotti. Egli era buono, e in chi è buono non sorge mai alcuna invidia rispetto a nulla: essendo privo di invidia, egli volle che tutte le cose fossero per quanto possibili simili a lui» (Tim. 29 D-E). Anankê come causa errante Platone immagina la creazione del cosmo come il passaggio dal disordine all’ordine. La realtà pre-cosmica non è tuttavia immaginata come una realtà inerte, analoga al legno utilizzato da un falegname per costruire un letto o un tavolo. Si consideri infatti come Timeo presenta l’azione del principio di ordine: «dio, volendo che tutte le cose fossero buone, e che nulla, per quanto possibile, fosse cattivo, prendendo quanto era visibile e non si trovava in uno stato di quiete, ma si muoveva confusamente e disordinatamente, lo portò dal disordine all’ordine» (Tim. 30 A 1-6). Ciò che esiste allo stato pre-cosmico è più simile ad un animale che debba essere addomesticato o ammansito piuttosto che a dei materiali inerti da costruzione. E infatti nella seconda parte del discorso Timeo non esita a paragonare l’attività del principio organizzatore ad un’opera di persuasione. Anche sulla base di queste poche considerazioni, si vede che il principio materiale immaginato da Platone ha poco in comune con la materia intesa da Aristotele come soggetto del cambiamento; la materia aristotelica infatti è capacità di acquisire una determinata forma. Come tale essa è sempre pensata in relazione alla forma, è pronta ad accogliere la forma; il principio materiale di Platone invece è qualcosa che non solo esiste indipendentemente dal nous-demiurgo, ma pone vincoli significativi alla sua attività. Non a caso questo principio altro dal nous è descritto come necessità, anankê - anche come causa errante: errante non nel senso di “in errore” ma di vagabonda, non dotata di un movimento regolare bensì erratico. Physis e technê Il Timeo si spiega molto bene se abbandoniamo la prospettiva creazionista a noi più familiare, quella di origine biblica (in caso contrario è facile fraintenderlo), e leggiamo il dialogo come una riflessione critica intorno alla natura, e una critica tutta interna al pensiero greco. Inanzitutto non è affatto chiaro che la creazione descritta nel Timeo vada presa alla lettera, nel senso che ci sia stato davvero un inizio nel tempo del mondo come lo conosciamo oggi. In secondo luogo la creazione immaginata da Platone non è ex nihilo: il modello della technê adottato da Platone ci aiuta a capire che è necessario, oltre al principio intelligente, anche un secondo principio privo di intelligenza. Possiamo chiamare questo secondo principio materia, a patto di tenere a mente però che questa parola entra nel vocabolario filosofico solo con Aristotele, mentre nel Timeo non si trova. Infine, il modello della technê ci aiuta a capire che esiste anche un qualcos’altro oltre a demiurgo e materia: Timeo lo chiama il paradigma, il modello sulla base di cui imporre ordine e struttura alle cose del mondo. Tale modello appartiene all’ordine di ciò che è sempre e non diviene mai; in altre parole si trova nell’ambito delle idee platoniche. Nella tradizione successiva a Platone, le idee platoniche diventano i pensieri del demiurgo divino: si tratta di una semplificazione che non troviamo nel Timeo. Il Timeo di Platone è una versione aggiornata e potenziata dell’intuizione di Anassagora che l’ordine presente nel mondo naturale richiede la presenza-intervento di un principio ordinatore, esterno (in quanto non può essere interno). Versione aggiornata e potenzata del pensiero di Anassagora nella misura in cui Platone introduce il modello della technê per interpretare il nous di Anassagora. La chôra La riflessione critica sui risultati raggiunti dall’indagine pre-socratica intorno alla natura non lascia il pensiero di Platone intatto. Al contrario, la logica cosmogonica in cui Platone si inserisce lo constringe ad introdurre un nuovo principio, che è allo stesso tempo «difficile e oscuro» (Tim. 49 A 3). Si tratta del «ricettacolo di tutto ciò che è generato» (Tim. 49 A 6). Platone si avvale di esempi volti a illustrarne la funzione: il ricettacolo è equiparato prima a una pepita d’oro che può essere plasmata e riplasmata in diverse forme, poi alla base liquida usata per la produzione di unguenti odorosi e profumi. Questo secondo esempio ci aiuta a capire che il principio materiale immaginato da Platone non può avere alcuna delle caratteristiche sensibili degli oggetti che è destinato a ricevere. Ne consegue che il nuovo principio ha un’unica caratteristica, che gli deriva direttamente dalla sua funzione nella narrazione cosmogonica: è appunto un ricettacolo di tutto ciò che è generato. Arrivati a questo punto si capisce che il ricettacolo è un principio materiale assolutamente indeterminato. Ma come arriviamo alla scoperta di questo principio, da affiancare al demiurgo e alle idee? La risposta di Platone è che lo scopriamo per via di un ragionamento bastardo, figlio di un accoppiamento illegittimo. Per Platone disponiamo infatti di due facoltà conoscitive: ragione e sensazione. Le quali ci danno informazioni sulla realtà, rispettivamente, intelligibile e sensibile. Sono facoltà separate, dal momento che per Platone la sensazione non partecipa della ragione e viceversa; eppure per il ricettacolo abbiamo bisogno di entrambe: di partire da sensazione e, usando la ragione, arriviamo a stabilire che esiste qualcosa oltre il dato sensibile e immediato, allo stesso tempo però accessibile solo a partire dai sensi - appunto il ricettacolo, inteso come la regione, la chôra, in cui la realtà sensibile si manifesta. La chôra è la grande scoperta del Timeo; si tratta di una scoperta che, per citare Platone, «è a mala pena oggetto di persuasione» (Tim. 52 B 2). Con l’ausilio di questa scoperta siamo finalmente in grado di tornare alla situazione pre-cosmica immaginata di Timeo, e spiegare come si deve pensare tale situazione da cui si prende le mosse per tutta la narrazione cosmogonica: le cose si muovono disordinatamente all’interno della chôra; scossa da questi movimenti disordinati, essa, intesa come sorta di contenitore, scuote a sua volta le cose che si trovano al suo interno, creando un circolo vizioso interrotto solo dal principio di ordine, che interviene dall’esterno impartendo ordine - pensato in termini matematici: di proporzione e di commensurabilità. Glossario: Lez. 2: Socratico (sokratikos), Lez. 3: chôra dialoghi socratici (logoi sokratikoi), cosmogonia filosofi socratici, demiurgo (demiourgos) scuole socratiche. intelligenza (nous) necessità (anankê) paradigma (paradeigma) sapere esperto, sapere tecnico, arte (tutte traduzioni possibili per technê) 4 - L’anima secondo Platone e Aristotele L’anima e il vivente L’anima (in greco psuchê) è ciò che distingue il vivente dal non vivente: «Senti, quando si verifica l’unione di un corpo e di un’anima in modo da produrre un’unica forma, non diciamo nel modo più corrispondente al vero e secondo natura che questo è un essere vivente (zȏon)?» «corretto.» «E una creatura di tal tipo si chiamo nel modo più giusto un vivente (zȏon)?» «sì.» (Platone, Epinomide 981 A-B) «La conoscenza dell’anima sembra contribuire a tutta la verità ma soprattutto a quella che ha a che fare con la natura: l’anima è una sorta di principi degli esseri viventi (zȏȏn) »(Aristotele, De anima I 1, 402a3-4) Entrambi i passi riportano questa idea, l’idea che l’anima sia principio di vita. All’anima sono riconducibili non solo l’origine della vita ma anche una complessa serie di attività attraverso le quali entriamo in relazione con il mondo che ci circonda. Almeno nella lingua greca antica infatti è possibile dire che l’anima prova piacere, prova dolore, soffre di un attacco di ira e di paura. Ma è davvero l’anima che prova piacere, dolore, soffre di un attacco di ira? Oppure è l’essere vivente in virtù del fatto di avere un’anima che fa queste cose? Platone e Aristotele hanno idee diverse su questo punto. Per Platone l’anima è il soggetto ultimo di tutte queste attività. L’anima non è dunque solo principio di vita ma essa stessa vive, prova piacere, prova dolore, conosce il mondo che la circonda. Per Aristotele il soggetto di queste attività è l’essere vivente in virtù del fatto di possedere un’anima. Le radici di questo disaccordo si trovano nelle idee platoniche da che l’anima sia un principio di auto-movimento. Detto altrimenti l’anima muove se stessa e con se stessa anche l’essere vivente che vi abita. Platone adotta un modello interazionista per spiegare come l’anima interagisca con il corpo. Questa dottrina diventerà uno dei marchi di fabbrica del platonismo e anche uno dei bersagli critici di Aristotele. Per Aristotele immaginare che i principi da cui dipendono tutte le attività dell’essere vivente siano un principio del movimento, rende il movimento un dato primitivo e dunque inspiegabile. Per Aristotele l’anima muove si ma restando immobile. Il modello che Aristotele adotta, per spiegare il rapporto tra anima ed essere vivente, è ispirato alle tecniche. Pensiamo ad un artigiano esperto, l’agire dell’artigiano è controllato dalla sua arte, nella misura in cui tutto quello che fa è espressione del suo sapere esperto. Il sapere esperto guida le azioni dell’artigiano, le controlla anche se è quest’ultimo ad agire e non certo il sapere esperto. Allo stesso modo tutto ciò che il vivente fa è controllato dall’anima intesa come principio di movimento e di vita. Ma è sempre il vivente, e non l’anima ad agire. Platone e l’anima: dal Fedone alla Repubblica Platone è un dualista. Dal suo punto di vista anima e corpo sono due sostanze diverse. Il Fedone tra le altre cose è destinato a provare che l’anima non è una proprietà del corpo vivente, è analoga all’armonia che si trova nelle corde di uno strumento ben accordato. L’anima è piuttosto una sostanza incorporea, separata dal corpo che sopravvive alla morte di quest’ultimo. L’anima così intesa è ciò che noi siamo davvero. Il copro con le sue esperienze, quindi anche la memoria che di queste esperienze abbiamo, non fa parte della nostra identità personale. La tesi è difficile ed infatti Critone appena Socrate ha portato a termine la sua dimostrazione nel Fedone, chiede che cosa si debba fare del corpo di Socrate non appena quest’ultimo sarà morto. La risposta di Socrate è sarcastica: “Critone fai quello che vuoi del mio corpo dal momento che io, Socrate, non sono il mio corpo e tra poco io, Socrate, inteso come anima razionale, non sarò più nel mio corpo. Ho parlato di anima razionale proprio perché l’anima di cui si prova l’immortalità nel Fedone, coincide con uno specifico tipo di anima, quell’anima che nel IV libro della Repubblica è definita come anima razionale. La Repubblica infatti adotta l’idea che l’anima non sia unica. L’esempio di Platone è quello della sete che è sempre relativa alla bevanda. Ci saranno diversi tipi di bevande e dunque diversi tipi di sete. Pensiamo alla sete che si soddisfa con una bevanda fresca o ghiacciata, oppure pensiamo alla sete che si soddisfa solo con una bevanda alcolica. Evidentemente si tratta di diversi tipi di sete, ma la sete intesa come desiderio di bere è sempre sete di una bevanda. Ed inoltre l’anima di aver sete ed essere attratta dalla bevanda è l’anima appetitiva. Ma c’è anche un’altra anima, quella razionale che può resistere questa prima anima e può spingere se stessa ma anche il corpo che abita nella direzione opposta. Pensiamo alla sete per una bevanda alcolica… l’anima appetitiva è attirata dalla bevanda alcolica e dunque muove se stessa e il copro verso questa bevanda. L’anima razionale può muovere lo stesso corpo nella direzione opposta sulla base della considerazione che l’alcool può nuocere alla salute oppure sulla base di una considerazione di opportunità: io devo guidare, non posso bere alcolici altrimenti rischio il ritiro della patente. La situazione che ho appena ipotizzato è una situazione di conflitto che può anche paralizzare la gente. Nella riflessione contemporanea, il conflitto in questione è reinterpretato in termini di credenza ovvero in termini di conflitto tra credenze: da un lato crediamo che la bevanda alcolica faccia male oppure crediamo che ci possano essere conseguenze spiacevoli, dall’altro crediamo che l’alcool sia piacevole. Sono credenze che entrano in conflitto tra di loro ma c’è un unico soggetto di queste credenze. Platone sembra postulare una situazione un po’ più interessante e radicale: ci sono in noi principi di movimento autonomi e indipendenti che ci spingono in direzioni diverse. Questi principi sono 3: « Da’ forma, pertanto, ad un animale d’aspetto composito, dalle molte teste, che abbia una corona di teste di bestie feroci e domestiche e che sappia all’occasione scambiarsele e generarle da sé tutte quante. Plasma ancora una figura di leone e una di un essere umano. La prima abbia dimensioni molto più vaste, la seconda segua per grandezza. Unifica ora queste tre forme fra loro cosicché formino qualcosa come un unico organismo naturale Esternamente foggiagli l’immagine di uno solo di questi esseri, quello dell’essere umano in modo che ad uno che non abbia la capacità di penetrare con la vista all’interno ma si limiti ad una ispezione superficiale appaia un solo essere vivente, appunto un essere umano. » (Platone, Repubblica IX 588 D-E). L’essere umano sta ovviamente per l’anima razionale, l’essere umano che è in noi. L’animale dalle molte teste non è altro che l’anima appetitiva e il leone coincide con quella che si suon chiamare anima animosa. Platone e l’anima: il Timeo La tripartizione dell’anima che incontriamo nella Repubblica, ritorna anche nel Timeo dove Platone offre ulteriori spunti che approfondiscono ma non cambiano la dottrina esposta nella Repubblica. «[gli dèi creati] imitando [il demiurgo] dopo aver ricevuto il principio immortale dell’anima vi formarono intorno un corpo mortale ed in esso costituirono un’altra specie di anima, quella mortale che subisce le passioni terribili ma necessarie, innanzitutto il piacere, grande esca del male, quindi i dolori, che mettono in fuga i beni, e ancora la temerarietà e la paura, consiglieri privi di ragione, poi l’ira, difficile da calmare, infine la speranza, facile agli inganni, mescolando queste cose con la sensazione, che non partecipa della ragione.» (Platone, Timeo, 69 C-D) Solo l’anima razionale è immortale. Questa esiste prima del corpo e sopravvive alla distruzione di esso. Platone non ha mai cambiato idea su questo punto ed è la dottrina che abbiamo già trovato nel Fedone. L’anima mortale consiste nell’insieme dei poteri di cui abbiamo bisogno per poter sopravvivere nel mondo che ci circonda. La lista che ci viene data in questo passo è da considerarsi esaustiva. Si tratta di potere dell’anima, non del corpo, tuttavia l’anima in questione è mortale non immortale; non sopravviverà alla morte del corpo. Continuando a leggere il Timeo comprendiamo che l’anima razionale è collocata nella testa, le passioni che hanno a che fare con lo thumos, nei pressi del cuore. Ed infine l’anima appetitiva che ha a che fare con il piacere, dolore nella pancia non lontano dal fegato. Al di là dell’aspetto fantastico del racconto del Timeo, si capisce bene che le anime restano principi autonomi e ciascuna, da sola è in grado di muovere non solo se stessa ma anche la totalità del corpo umano. Ciascuna di essa ha poteri conoscitivi, è in grado di conoscere in modi diversi il mondo che ci circonda. Nel Timeo, e questa è una novità, viene anche esposta una complessa fisiologia che possiamo solo in parte ricostruire e che spiega come due principi non razionali possono comunicare tra di loro in modo da poter essere integrati in un sistema unico che in linea di principio è in grado di agire sulla base degli ordini ricevuti dal principio razionale. Aristotele e l’anima: il De anima Platone ha molto da dire sul tema dell’anima, ma il primo a dedicare all’anima un trattato intero è Aristotele. Il motivo di questa innovazione ce lo ricorda Aristotele stesso nel passo riportato in precedenza. Il De anima di Aristotele è il testo fondativo per la scienza della vita. Fare chiarezza intorno all’anima non è solo il primo passo verso una scienza della vita è anche il passo decisivo. Se si tiene a mente la prospettiva aristotelica si capisce bene la critica che da subito Aristotele fa a Platone. Come tutti I suoi predecessore, anche Platone si è occupato solo dell’anima umana. Ma trattando l’anima in una prospettiva cosi indiscreta, Platone non ci ha fornito gli elementi teorici per lo studio della vita. Quanto Platone dice sull’anima razionale e quella irrazionale può andar bene per una teoria etica, uno scienziato della vita ha bisogno di altri strumenti. Aristotele glieli fornisce nel suo De anima. Facciamo un suo esempio: “la separazione della vita vegetale dalla vita animale è una Conquista aristotelica. Oggi questa Conquista è messa in discussione da più parti. Molti sono più in sintonia con Platone che con Aristotele quando attribuiscono alle piante una forma rudimentale delle sensazioni. Per Aristotele animali e piante sono due categorie diverse di esseri viventi. Le piante vivono, crescono, si riproducono ma non possono conoscere il mondo che le circonda, nemmeno nella forma rudimentale della sensazione di dolore e di piacere. Questo è riservato agli animali. Non possiamo in questa sede dar conto della critica aristotelica, limitiamoci all’essenziale. Innanzitutto Aristotele abbandona il modello interazionista di Platone che è ancora forma di dualismo in cui anima e corpo sono pensati come realtà distinto. Abbiamo visto come questo modello sia sostituito da un modello preso dalla rifelssione sulle tecniche. Quello ch efa l’artigiano è controllato dal suo sapere esparto, in modo analogo quell oche fa l’essere vivente è controllato dalla sua anima, almeno secondo Aristotele. In secondo luogo, l’anima così Intesa, non è un corpo ma si trova sempre in un corpo nel modo appropriato. L’anima per Aristotele non è altro che la forma del corpo e come tale non è separabile dal corpo. La celebre definizione di anima come atto primo di un corpo naturale che radica otenza meriterebbe una lunga discussione. Qui basta ricordare la conseguenza che Aristotele trae da questa definizione. “se questa è la definizione di anima, non c’è bisogno di cercare se l’anima e il corpo formino un’unica cosa proprio come non c’è bisogno di chiedersi se la cera e la forma siano un’unità”. Siamo lotani anni luce dal dualism platonico, il problema di come due sostanze diverse stiano insieme non si pone nemmeno nella prospettiva aristotelica. Aristotele e il nous La definizione di anima come atto primo di un corpo naturale che radica impotenza, guida le indagini intorno all’anima ma allo stesso tempo non rappresenta la parola finale sulla questione dell’unità di anima e corpo. Ed infatti Aristotele conclude il I capitolo del secondo libro, dedicato alla definizione generale di anima, con la seguente nota: Il riferimento è al nous, è parola intraducibile. Spesso nous è reso con intelletto, in realtà la traduzione finisce per oscurare il fatto che il nous è il principio che spiega la nostra capacità di pensare. È il principio non solo del pensiero teoretico ma anche di quello partico dunque copre forme di pensiero diverse. Il nous è ciò che rende possibile una dimostrazione matematica ma anche l’elaborazione di un piano d’azione. Il tratto istintivo del nous è che può pensare tutte le cose. Aristotele non vuole dire che il nous è il principio che ci consente di pensare tutto, anche l’impossibile, vuole piuttosto dire che il nous è il principio la cui presenza ci permette di pensare tutti gli aspetti pensabili della realtà. Aristotele ritiene che una facoltà di questo tipo non possa essere mescolata con il corpo dal momento che una struttura corporea limiterebbe la sua capacità di pensare. Per capire questo punto basta riflettere sulla struttura corporea che supporta la vista così come la conosciamo. I nostri occhi ci permettono di vedere certe cose ma non ci consentono di vederne altre. Animali diversi dall’uomo possono vedere cose che noi non vediamo, mentre non vedono le cose che noi vediamo, ad esempio i colori. Lo stesso punto si può ripetere per l’udito: certe frequenze non sono percepibili dall’orecchio umano, ma è sempre la struttura corporea a determinare che cosa si possa o non si possa vedere/sentire o percepire. Ora il nous non ha, secondo Aristotele, un organo corporeo ed è separato dal corpo umano e questo è necessario se deve poter pensare tutte le cose. Il passo essenziale lo trovate qui: nous Dal punto di vista di Platone l’intelligenza è la causa prima, mentre la necessità è la causa seconda, secondaria/ausiliaria. Per Platone non si può spiegare l’emergere del cosmo e di esseri viventi senza presupporre l’intelligenza a fianco della necessità. Con l’atomismo siamo agli antipodi di questa posizione. L’atomismo inteso come stile di filosofia fa consapevolmente a meno dell’intelligenza e spiega l’emergere di strutture complesse come il risultato della pura e semplice necessità (ananke), intesa come la collisione degli atomi nel vuoto, spontanea e fortuita. Ecco una citazione che pare risalire a Leucippo: “tutto avviene per necessità”, dice nel suo scritto Sull’intelligenza, “nulla avviene invano, ma tutto secondo ragione e per necessità”. Ma riescono gli atomisti a spiegare tutto partendo dalla situazione da loro immaginata, cioè da atomi in continuo movimento nel vuoto? La critica di Aristotele Le cosmogonie presocratiche hanno l’ambizione di spiegare tutto, proprio tutto, a partire da una situazione di partenza più o meno complessa. L’atomismo degli inizi non fa eccezione. La situazione di partenza immaginata è quella di collisione di atomi che si muovono nel vuoto. Ma si può davvero spiegare tutto a partire da questa situazione iniziale? Aristotele pensa di no e nella Metafisica dice: “Leucippo e Democrito dicono che il movimento esiste eternamente. Ma non dicono perché e non dicono nemmeno di quale movimento si tratta, se di questo tipo di movimento oppure di quello, e non ne danno nemmeno la causa.” Aristotele sembra dire: va bene, mettiamo pure che il movimento sia eterno, proprio come lo immaginano Leucippo e Democrito, cioè come una complessa sequenza di collisioni tra atomi che si incontrano e si scontrano. Ebbene, ci dovrà pur essere un movimento naturale degli atomi che precede tutte le collisioni, tutti gli scontri immaginati da Leucippo e da Democrito. Dopotutto, la collisione tra atomi è un caso di movimento violento, ovvero non naturale. Dunque, deve esserci un movimento naturale che precede la collisione e il movimento che segue la collisione. Ma qual è questo movimento naturale di partenza? Gli atomisti avrebbero risposto dicendo che non è necessario porre un movimento naturale degli atomi prima di ogni collisione, ma si può tranquillamente pensare che ci sia sempre stata una collisione prima di un’altra collisione. Aristotele avrebbe ribattuto che il risultato è una regressione all’infinito, cioè una spiegazione che rimanda sempre a qualcos’altro, e una tale spiegazione finisce per non spiegare. Non dobbiamo sottovalutare questa critica perché tocca i principi primi dell’atomismo inteso come stile di pensiero. Questi principi non solo devono essere inattaccabili, ma devono anche servire da punto di partenza per la spiegazione di tutto il resto della realtà fisica. Ma se l’ambizione è spiegare tutto, la soluzione degli atomisti lascia un residuo inspiegato e lo lascia proprio nella situazione di partenza. L’atomismo, secondo Aristotele, quindi fallisce perché non riesce a mantenere la promessa di fornire una spiegazione di tutto. Qualcosa nella situazione di partenza rimane inspiegabile. Epicuro: atomismo 2.0 Epicuro è il continuatore dello stile di pensiero atomistico in età ellenistica; è anche il fondatore di una scuola che godrà di una certa fortuna in età ellenistica e post-ellenistica, per poi tornare di gran moda in età moderna. Allo stesso tempo, Epicuro non è il tipo di pensatore che ama stabilire contatti con i suoi predecessori; al contrario, egli presenta la sua filosofia come un pensiero originale, senza precedenti. In realtà, Epicuro non solo ripensa a Democrito, ma ripensa gli esiti della ricerca di Democrito alla luce delle critiche aristoteliche. Insomma, l’epicureismo è una versione rivista e potenziata dell’atomismo democriteo, che cerca di evitare alcune delle sue implicazioni paradossali. Ad esempio, Epicuro ammette che gli atomi non possono essere di qualsiasi grandezza, abbandonando l’idea che ci possa essere un atomo grande come una mela o come un pianeta: gli atomi sono per definizione piccolissimi e non possono essere percepiti ad occhio nudo. È il primo importante passo verso la nostra concezione di atomo, come qualcosa di microscopico. Un’altra riforma epicurea è la seguente: gli atomi democritei sono realtà estese ma anche semplici. Questa tesi crea un problema: noi possiamo concentrare le nostre attenzioni su una parte della realtà estesa in questione e immaginarla come parte dell’atomo. E l’atomo è un tutto, che può essere pensato come fatto di parte. In altre parole, possiamo immaginare parti dell’atomo e perfino una struttura dell’atomo. L’atomismo democriteo non riesce a rendere ragione di questo fatto, proprio perché l’atomo è concepito da Democrito come qualcosa di assolutamente semplice, in modo analogo all’Uno di Parmenide. Ebbene, Epicuro introduce l’idea che ci siano delle parti minime di un atomo: da un lato l’atomo resta per definizione indivisibile, dall’altro ammette delle parti, in quanto realtà estesa. La parola tecnica è elachista, che significa le parti più piccola, in latino minima. Dalla tradizione dossografica prendiamo infine che, oltre ad essere realtà indivisibile ed estesa, l’atomo di Epicuro ha anche peso. L’introduzione esplicita del peso nella definizione di atomo è funzionale a dare una risposta esplicita alla domanda di Aristotele “perché gli atomi si muovono nel vuoto? E qual è il loro movimento naturale?” Una risposta possibile che gli atomi si muovono naturalmente verso il basso perché hanno peso. Rimangono comunque due importanti problemi: Come facciamo a parlare di alto e di basso nel vuoto infinito? Come spieghiamo che gli atomi che si muovono tutti verso il basso a un certo punto entrano in collisione tra loro? Anche da queste poche osservazioni, è chiaro che l’atomismo di Epicuro è lungi da offrire risposte esaurienti sulla situazione iniziale immaginata dagli atomisti, ovvero atomi in collisione che creano strutture complesse quali gli esseri viventi. Dobbiamo tener presente queste difficoltà quando affrontiamo la tradizione atomistica. È per noi troppo facile assimilare l’atomismo antico a posizioni scientifiche moderne. L’atomismo antico non convince a pieno, per questo rimane una tradizione filosofica importante ma marginale. L’entusiasmo che l’atomismo genera a Roma nel I sec a.C. (si pensi al De rerum natura di Lucrezio) è tutto sommato l’eccezione alla regola. L’atomismo non è mai filosofia dominante del mondo antico e, almeno in parte, a causa dei problemi teorici irrisolti. Atomismo e riduzionismo L’atomismo inteso come stile di pensiero consiste nell’imputare tutte le spiegazioni alla necessità, intesta come lo spontaneo e fortuito risultato di collisioni tra atomi. Ma c’è almeno un altro aspetto di questa filosofia che emerge: ogni spiegazione riduce i fenomeni sensibili agli atomi. La parola chiave è “riduce”: l’atomismo è una forma di riduzionismo. Il riduzionismo in filosofia assume diverse forme. Nella sua espressione più radicale, l’atomismo diventa una forma di eliminativismo, nella misura in cui le proprietà delle cose che ci circondano non sono solo spiegate riducendole alle proprietà degli atomi e del vuoto, ma sono anche eliminate come delle realtà meramente soggettive, e non dunque oggettive. A volte si ha l’impressione che l’atomismo democriteo implichi la negazione, ovvero l’eliminazione dei fenomeni sensibili. Si pensi a questo frammento di Sesto Empirico: “per convenzione è il dolce; per convenzione è l’amaro; per convenzione è il caldo; per convenzione è il freddo; per convenzione è il colore; in realtà esistono “solo” atomi e vuoto.” Epicuro sembra aver adottato una posizione un po’ più cauta, che non nega la realtà oggettiva dei fenomeni sensibili, ma la fa dipendere dall’esistenza di atomi e di vuoto. In questo senso le uniche realtà fondamentali della realtà sono atomi e vuoto e i fenomeni fisici sono accidenti che non possono esistere e non possono essere spiegati se non riconducendoli alle proprietà di atomi e di vuoto. Ma essere un accidente è pur sempre essere una qualità oggettiva, anche se secondaria. In questo senso, qui sembra esserci un’altra riforma/ripensamento dell’atomismo democriteo. Glossario: Atomo (atomon) Eliminativismo Minimi atomici (elàchista/minima) Necessità (ananké) Riduzionismo 6 - Stoicismo come stile di filosofia Lo stoicismo e Socrate Lo stoicismo non è solo la scuola filosofica di gran lunga più importante dell’età ellenistica e post-ellenistica, ma è anche un vero e proprio stile di pensiero. In questa lezione metteremo a fuoco alcuni dei tratti più significativi di questo stile. Cominciamo da quello che è forse il più ovvio: lo stoicismo è una filosofia che si ispira alla figura di Socrate, dunque è una filosofia socratica. Per rendersene conto basta leggere una pagina da Diogene Laerzio, dalla quale quest’ultimo ci ricorda la conversione alla filosofia di Zenone di Cizio, il fondatore della Stoà. «Zenone fu alunno di Cratete. L’incontro con Cratete è stato tramandato così: dopo aver comprato in Fenicia della porpora, naufragò con tutto il carico nei pressi del Pireo. Salì ad Atene (aveva già l’età di trent’anni) e sedette nella bottega di un libraio. Costui leggeva il secondo libro dai Memorabilia di Senofonte, e Zenone provò tanta gioia da domandare dove mai si potessero trovare uomini come Socrate» (Diogene Laerzio 7.2) Da Diogene Laerzio apprendiamo che Zenone prima di diventare filosofo era stato un venditore di porpora, che fece naufragio nei pressi del Pireo. Da lì salì fino ad Atene, al tempo Zenone aveva 30 anni; si fermò nella bottega di un libraio, mentre quest’ultimo leggeva dai Memorabilia di Senofonte Zenone provò tanta gioia dal chiedere dove mai si potessero trovare uomini come Socrate, e in quel preciso momento passava di lì Cratete Cinico, il libraio glielo indicò, dicendo: “Segui quell’uomo.” Da allora Zenone divenne discepolo di Cratete. Naturalmente si tratta di fiction, allo stesso tempo si tratta di fiction con un messaggio preciso, ma cosa apprendiamo da questo aneddoto legato alla conversione di Zenone? Innanzitutto che i librai antichi non vendono libri, ma li leggono, e dietro compenso. In secondo luogo che il libro decisivo per Zenone è un libro su Socrate, ma che il libro in questione non è uno di quelli scritti da Platone, bensì da Senofonte; ed infine, che anche che la filosofia cinica a cui Cratete si ispira è una filosofia socratica: lo stoicismo nasce infatti come filosofia socratica e come correttivo al rigorismo cinico. Non a caso esiste una tradizione biografica sempre riportata da Diogene Laerzio secondo cui Diogene di Sìnope, il filosofo cinico più noto antico, non era altro che un Socrate che aveva dato di matto. Lo stoicismo è, tra le altre cose, anche una forma edulcorata di cinismo. La dimensione socratica della filosofia stoica si ritrova a diversi livelli. Ne ricordo due: Innanzitutto il Socrate di Senofonte è un educatore, che insiste sul ruolo centrale della virtù. Il Socrate morale di Senofonte diventa un modello per il saggio, proprio come Socrate è un saggio stoico, almeno quello degli inizi, è un uomo pubblico, che non si nasconde in una scuola, ma insegna nell’agorà; questo è senz’altro vero per il fondatore della scuola. Da Diogene Laerzio apprendiamo infatti che Zenone insegnava nell’agorà, proprio come Socrate, e a differenza di Platone che aveva invece fondato la sua scuola in un luogo appartato, appena fuori le mura di Atene. Il luogo in cui Zenone insegnava era il portico dipinto, in greco Poikìle Stoà1 , inizialmente i suoi discepoli si chiamavano zenoniani, ma poi vennero chiamati stoici, proprio in conseguenza del fatto che si riunivano sotto questo portico, questa Stoà2. Se visitate quello che resta dell’agorà di Atene, sotto l’acropoli, trovate ancora le vestigia di questo luogo così importante per la storia della filosofia antica. NOTE: L’ortografia della locuzione è tratta dal manuale di Franco Trabattoni, La filosofia antica, Profilo critico-storico, da pagina 227, il quale ci informa per altro che il Portico dipinto è quello di Atene, e da esso deriva il nome del movimento fondato da Zenone. L’ordine sintattico dell’espressione, tuttavia, è stato lasciato come pronunciato nella audiolezione dal professor Falcon; da notare l’inversione dei termini rispetto al manuale di Trabattoni, nel quale la traduzione greca viene riportata come Stoà Poikìle. L’accento sulla parola «Stoà» è stato mantenuto sulla lettera “a” finale secondo l’ortografia del manuale di FrancoTrabattoni; nella audiolezione tuttavia la pronuncia ricade sulla lettera “o”. Stoicismo e accademia La filosofia stoica è dunque una filosofia socratica, e anche un correttivo al rigorismo cinico. Per quanto importanti, questi aspetti non rendono tuttavia ragione della complessità del pensiero stoico. Ritorniamo a Diogene Laerzio e alla sua Vita di Zenone di Cizio, il fondatore dello Stoicismo. Nella precedente diapositiva ho intenzionalmente saltato una breve testimonianza sui maestri di Zenone, lo ho fatto per potermi concentrare sulla testimonianza che fa di Zenone un seguace di Cratete Cinico. Ritorniamo al testo di Diogene Laerzio e leggiamo il breve passo che in precedenza ho omesso: «Fu alunno di Cratete. Ma non manca chi afferma che fu poi alunno di Stilpone e di Senocrate per dieci anni, e anche di Polemone. Zenone avrebbe studiato con Senocrate, e non per un breve periodo, bensì per ben dieci anni, ed inoltre avrebbe studiato anche con Polemone.» Per molti di voi Senocrate e Polemone sono solo dei nomi, eppure si tratta di due esponenti di spicco dell’Accademia antica. Procediamo con ordine. Senocrate è un allievo diretto di Platone, lascia l’Accademia insieme ad Aristotele, alla morte di Platone, quando Speusippo viene nominato a capo dell’Accademia. Speusippo era il cognato di Platone, era già avanti con l’età, ed era anche malato, tiene la direzione della scuola per otto anni. Alla sua morte i membri eleggono Senocrate, che dunque ritorna ad Atene e diventa il capo della scuola. Da Filodemo di Gàdara, che scrive una storia dell’ Accademia antica, apprendiamo che sono proprio i giovani a volere Senocrate, che probabilmente revitalizza una scuola che alla morte di Platone era in difficoltà, per mancanza di una forte leadership intellettuale. Polemone è un allievo di Senocrate, ed è anche il suo successore a capo della scuola. Suggerisco di prendere sul serio questa tradizione che fa di Zenone un alliveo di Senocrate e di Polemone, ovvero i due membri di spicco dell’Accademia antica. Questa testimonianza non è necessariamente in contrasto con la vulgata che vuole lo Stoicismo in perenne contrasto con l’Accademia di Arcesilao. Arcesilao succede a Polemone, e rifonda l’Accademia a partire dall’ignoranza socratica, come messa in scena nella Apologia di Socrate, scritta da Platone, ma si tratta di una rifondazione, ovvero di un ripensamento e di un riorientamento dell’Accademia, che dopo Arcesilao si chiama Accademia Nuova, per distinguerla da quella antica degli immediati successori di Platone, vale a dire Speusippo, Senocrate e Polemone. Ma che cosa può avere appreso Zenone e lo Stoicismo degli inizi dalla Accademia antica? Risponderò a questa domanda nella prossima diapositiva. I principî stoici Da Diogene Laerzio apprendiamo che Zenone passò ben dieci anni con Senocrate e con Polemone. Ma che cosa può avere appreso da questi due esponenti dell’Accademia antica? Da altre fonti sappiamo che il Timeo di Platone era un testo centrale per Senocrate e per Polemone e il loro insegnamento. Ci sono rimaste testimonianze in proposito che ora non è necessario prendere in esame. Se tuttavia prendiamo sul serio la pista che lega Zenone all’Accademia antica, e in particolare al Timeo, diventa più chiaro come Zenone possa essere arrivato alla sua dottrina dei principi, ai suoi archai. Leggiamo un passo sempre da Diogene Laerzio: «Secondo gli Stoici, i principî (archai) dell’universo sono due, uno attivo ed uno passivo. Il principio passivo è la sostanza senza qualità, vale a dire la materia (hulê); il principio attivo è la ragione (logos) nella materia, cioè dio. E dio, che è eterno, è il demiurgo creatore di ogni cosa nel processo della materia. Questa dottrina è esposta da Zenone di Cizio nell’opera Della sostanza, da Cleante nell’opera Sugli atomi, da Crisippo nella parte finale del primo libro della Fisica, da Archedemo nell’opera Sugli elementi, e da Posidonio nel secondo libro della sua Fisica» (Diogene Laerzio 7.134) I principi stoici sono due: un principio attivo, inteso come principio di ordine, questo principio è eterno e divino, ed è un principio demiurgico, vale a dire un principio produttivo. Vi rimando alla lezione sul Timeo per l’idea che il principio in questione sia un principio di razionalità perfetta, pensato sotto il modello delle tecniche. Il principio passivo su cui il dio stoico agisce è invece chiamato sostanza senza qualità, ovvero materia. La parola materia entra nel vocabolario filosofico solo con Aristotele, dunque gli stoici prendono a prestito questo termine da Aristotele, eppure la loro materia non ha nulla della materia aristotelica, ma ricorda da vicino il Timeo: gli stoici sono infatti più vicini a Platone che ad Aristotele, nella misura in cui pensano alla materia come ad un substrato unico, privo di determinazioni, che soggiace a tutte le cose; insomma, la materia senza qualità, o senza determinazione, non è altro che il ricettacolo platonico introdotto nel Timeo. Per fare piena luce sull’originalità del pensiero stoico dobbiamo tuttavia ricordare che tanto il principio attivo quanto quello passivo, sono immaginati come principi corporei, sulla base dell’assunto che nessuna cosa possa agire o patire, se non sia un corpo. Siamo di fronte a una concezione di corpo sofisticata: un corpo non è necessariamente una realtà tridimensionale, oppure una realtà solida, secondo gli stoici per essere una realtà corporea è sufficiente essere in grado di agire, o di patire; l’uso della disgiunzione o invece della congiunzione e è una scelta teoricamente motivata: se è infatti vero che la maggior parte dei corpi agisce e patisce, i due principi alla base della cosmogonia stoica sono l’eccezione e la regola: l’uno agisce senza patire (il principio attivo, ovvero dio), l’altro patisce senza agire (la materia). Dio e materia sono corpi che si mescolano: la mescolanza è un mixes, è una dottrina fondamentale per capire come un principio possa agire sull’altro. Per gli stoici Dio e materia si mescolano proprio come acqua e vino: basta una goccia di vino per modificare l’acqua, e trasformarla in acqua e vino. Allo stesso modo il dio corporeo, principio attivo, permea completamente la sostanza materiale. Il risultato è una forma di monismo fisico, nel senso che esiste solo una cosa, l’equivalente dell’acqua mescolata al vino, ma che è anche una forma di dualismo fisico, nella misura in cui i due principi sono e restano distinti. Lo Stoicismo è spesso descritto come una forma di materialismo, in realtà la materia non coincide con la totalità di ciò che esiste, bensì solo con un aspetto dei due fondamentali. Lo Stoicismo, oltre ad essere una forma di monismo e di dualismo fisico, è anche una forma di corporealismo, in cui i due principi ultimi sono immaginati come pienamente compenetrati nella realtà corporea. Il risultato finale è una filosofia che non potrebbe essere più lontana da Platone, e ha anche degli aspetti antiplatonici; per fare un solo esempio gli stoici considerano le idee di Platone dei concetti che esistono solo nella nostra testa, che non sono dunque realtà oggettive. Eppure Platone ha lasciato una traccia sul pensiero stoico, e una traccia ad un livello molto profondo: senza il Timeo è difficile fare luce sulle origini della dottrina stoica dei principi. Naturalismo e razionalismo stoico Abbiamo visto come Socrate sia il filosofo di riferimento per gli stoici. Abbiamo inoltre visto come lo Stoicismo sia una forma di corporealismo, nel senso che i principi corporei sono pensati in aperta polemica, non solo con Platone, ma anche con Aristotele. Da questo punto di vista non c’è spazio nel pensiero stoico, non solo per le idee platoniche, ma nemmeno per la forma aristotelica; nella retorica delle scuole antiche dove spesso si accentuano le differenze più che le assonanze e i punti di contatto, gli stoici tendono a prendere le distanze da Aristotele e da Platone, eppure la loro filosofia è indebitata ad un livello profondo dai risultati raggiunti da entrambi. Esiste tuttavia un altro tratto del pensiero stoico che vale la pena sottolineare: il naturalismo e razionalismo stoico. Il punto di partenza dell’etica stoica infatti è il primo impulso della creatura appena nata. Si tratta di un impulso naturale, e non razionale, alla conservazione di sé. Si fa spesso riferimento a questo aspetto del pensiero stoico come alla dottrina dell’oikeiosis. Possiamo avvicinarci a questa dottrina partendo, ancora una volta, da Diogene Laerzio: «Gli stoici dicono che il primo impulso (prȏtê hormê) dell’animale è diretto alla conservazione di se stesso, poiché sin dall’inizio la natura lo ha fatto amico a se stesso, come dice Crisippo nel primo libro del trattato Sui fini: la prima cosa propria (prȏton oikeion) a ogni animale è la sua costituzione e la coscienza di questa Agli esseri razionali è stata data la ragione, in conformità ad una prescrizione perfetta, avviene che il vivere secondo ragione giustamente diventa per essi vivere in accordo con la loro natura, infatti la ragione sopraggiunge come un artefice che forgia l’istinto» (Diogene Laerzio 7.134) Questo passo segna l’inizio della teoria stoica, ovvero il principio logico e narrativo da cui partire per raccontare come si diventi agenti razionali. Nessuno di noi nasce come agente razionale, ma tutti lo possiamo diventare, nella misura in cui tutti, in modo naturale, abbiamo in noi la capacità di acquisire la ragione, come principio di azione, e possiamo di conseguenza agire secondo ragione. Si tratta di un ottimismo e razionalismo etico che risale ancora una volta a Socrate, come Socrate anche gli stoici sono degli inguaribili ottimisti. Se non ci sono intoppi e inciampi, tutti possiamo diventare dei saggi stoici. Non importa se l’ideale del saggio stoico non sia facilmente realizzabile e se pochissimi raggiungono la piena realizzazione della natura umana. Almeno in principio, almeno in linea teorica, tutti infatti possiamo diventare saggi stoici. Non mi soffermerò su questo aspetto del pensiero stoico, quello che mi interessa è l’idea che una teoria etica abbia tra i suoi compiti anche quello di spiegare come si diventi agenti razionali. Vale la pena ricordare la scelta opposta fatta da Aristotele, all’inizio dell’Etica Nicomachea, che assume come dato di partenza che siamo degli esseri razionali, e dunque siamo già motivati ad agire in modo razionale, ordinando le nostre azioni in una gerarchia di fini. A differenza dell’etica aristotelica quella stoica prende le mosse da un inizio non razionale: l’impulso alla propria autoconservazione, che si manifesta nella ricerca e realizzazione della prima cosa propria: il proton oikeion. A partire da qui, se non ci sono intoppi ciascuno di noi può acquisire il concetto di bene e di giusto, e dunque può agire di conseguenza. Se all’inizio del percorso l’agente non razionale è interamente motivato dall’impulso all’autoconservazione, alla fine l’agente razionale agisce secondo ragione. Si tratta di una trasformazione radicale non tanto dell’agire quanto della motivazione all’agire: all’inizio la motivazione era l’impulso, la conservazione di sé, alla fine la ragione. Il principio di ragione così inteso non è un principio diverso dalla natura, ma è la manifestazione perfetta della natura umana. Naturalismo e razionalismo sono due aspetti della stessa teoria. Glossario: Stoicismo e tradizione socratica Stoicismo e dualismo Stoicismo e corporealismo Stoicismo e naturalismo Stoicismo e razionalismo Materia (hulê) Sostanza senza qualità (ovvero senza determinazione) Mescolanza (mixis) Prima cosa propria (prȏton oikeion) Primo impulso (prȏton hormê) principî (archai) 7 - Scetticismo antico, fonti e modelli Socrate e Pirrone come modelli dello scetticismo antico Lo scetticismo antico non è una scuola filosofica che si possa equiparare allo stoicismo o all’epicureismo di età ellenistica e non è nemmeno una tradizione filosofica omogenea, è piuttosto una costellazione di posizioni diverse, fra di loro in competizione. Queste posizioni fanno riferimento a modelli teorici diversi, esistono testi e figure storiche che hanno ispirato posizioni filosofiche e atteggiamenti verso la realtà che oggi noi definiamo scettici, siamo noi oggi, a posteriori, a vedere in queste diverse posizioni un tratto comune e ad attribuire loro l’etichetta di “scettico”; tra le figure storiche due sono particolarmente importanti Socrate di Atene e Pirrone di Elide, nessuno di questi due protagonisti ha scritto nulla; rimane dunque uno spazio vuoto è incolmabile tra la posizione filosofica e gli atteggiamenti che si attribuiscono a questi due filosofi e il loro effettivo pensiero, che rimane a noi inaccessibile. Per questo motivo propongo di trattare lo scetticismo antico a partire dalle fonti o dai modelli, dove per fonti e modelli intendo dire le origini che sono servite per sviluppare certi atteggiamenti verso la realtà che oggi definiamo scettici, non mi riferisco dunque alle figure storiche. Il primo modello è Socrate, il Socrate scritto nell’apologia di Platone, che non è da confondersi con il Socrate vissuto ad Atene condannato a morte dai suoi concittadini nel 399 a.C. Il secondo modello è Pirrone di Elide, invocato dai cosiddetti scettici pirroniani dal I sec. a.C., anche Pirrone non è da confondersi con il Pirrone storico contemporaneo di Teofrasto vissuto a cavallo tra il IV e il VI sec. Insomma, dobbiamo distinguere bene tra fonte e modello e la figura storica, ci interessa la fonte/modello e non la figura storica; Possiamo dire poco, anzi nulla o quasi nulla della seconda, possiamo dire invece molto intorno alla prima. Arcesilao e l’accademia scettica Il Socrate dell’apologia di Platone ha esercitato ed esercita tuttora un’attrazione irresistibile. in età ellenistica è diventato il modello di riferimento per uno stile di pensiero filosofico, all’accusa di corrompere i giovani insegnando a loro le scoperte fatto nel corso delle indagini sulla natura Socrate, inteso come personaggio, risponde a questa accusa (che è stata promossa da Aristofane nelle nuvole) risponde dicendo che lui al massimo possiede una sapienza umana, andando più a fondo scopriamo che quella sapienza umana non è altro che la conoscenza dei propri limiti, limiti come essere umano. A differenza dei suoi interlocutori che erano convinti di essere sapienti anzi sapientissimi Socrate sapeva una cosa sola cioè di sapere di non sapere era consapevole dei propri limiti. Questa immagine di Socrate diventa centrale nell’accademia a partire da Arcesilao di Pitane. Con Arcesilao nasce un “nuova accademia”, chiamata così per distinguerla da quella antica (quella degli immediati successori di Platone). Arcesilao è responsabile di uno spostamento dell’accademia da posizioni dogmatiche a posizioni scettiche. Arcesilao si presenta come un continuatore di Socrate, proprio come Socrate non ci ha lasciato alcuno scritto. La confutazione socratica cosiddetto elenchos diventa nelle mani di Arcesilao non solo uno strumento formidabile di argomentazione ma un vero e proprio stile di pensiero. La tradizione successiva ricorda Arcesilao come una Idra, il mostro leggendario della mitologia greca e romana dalle mille teste (molteplici argomenti a favore o contro). Proprio come Idra, il nostro Arcesilao decapitava sé stesso e si faceva decapitare dal suo interlocutore in dispute in cui confutava non solo gli altri ma anche sé stesso. Se dobbiamo credere a quanto riferisce Cicerone, Arcesilao andò al di là di Socrate affermando che non vi è nulla che si possa sapere, nemmeno ciò che Socrate affermava di sapere per sé, vale a dire “sapere di non sapere”. Ad Arcesilao fu inoltre rimproverato che questo esito negativo fu un esito dogmatico e non più una forma di scetticismo nella misura in cui consiste in una posizione filosofica precisa: “a noi uomini non è dato sapere nulla”. L’accademia che noi chiamiamo scettica continua con gli immediati successori di Arcesilao che per noi sono solo dei nomi. Un altro grande filosofo che si è soliti è Carneade originario del nord Africa Nemmeno Carneade scrisse nulla, ma il suo impatto soprattutto a Roma fu fortissimo: fece parte dell'ambasceria mandata dagli ateniesi a Roma insieme allo storico Diogene di babilonia e il peripatetico, sembra che in quell’occasione fra i tre esponenti di spicco della filosofia greca quello che lascio il segno fu appunto Carneade. Non seguirò le complesse vicende dell’Accademia per mostrare come l’intuizione di Arcesilao si sia viva via diluita nel tempo, basta ricordare che esiste una tradizione argomentativa e non dogmatica che ha come modello Socrate (in particolare il Socrate dell’apologia di Platone), per una certa posizione filosofica e un certo atteggiamento verso il sapere, che continuerà fino al primo secolo a.C. L’ultimo nome della Accademia scettica è quello di Filone di Larissa. Enesidemo e il neo-pirronismo Sappiamo pochissimo sulla vita e sull’opera di Enesidemo originario di Cnosso, quel poco che sappiamo ci suggerisce che il suo modo di pensare e di agire lo collochi al periodo che abbiamo chiamato post-ellenistico. Pare che Enesidemo sia stato un filosofo accademico insoddisfatto della direzione scettica in cui la sua scuola si stava muovendo, a parere di Enesidemo infatti questa direzione era un tradimento delle intuizioni originarie; dunque decide di uscire e di fondare una sua scuola, ciò che sorprende è il fatto che inventa una nuova tradizione scettica, che si rifà ad un altro autore fino a quel punto rimasto al margine dell’immaginario della filosofia (Pirrone); proprio come i suoi contemporanei ritornano a Platone (platonikoy) o ad Aristotele ( aristotelikoy) Enesidemo torna a Pirrone e si fa chiamare pirroniano; non a caso scrisse un libro intitolato “scritti pirroniani” in cui si distingue lo stile di filosofia neo-pirroniano da quello accademico Lo scetticismo pirroniano è una tradizione filosofica e un esempio di come si ritorna alle origini in modo sostanzialmente artificiale per fondare o rifondare uno stile di filosofia. Scetticismo accademico 🡪 età ellenistica Neo pirronismo 🡪 età post-ellenistica Le due diverse tradizioni, si articolano in due momenti storici separati e fanno capo a due modelli tra di loro molto dissimili. Neo-pirronismo La parola chiave dello scetticismo neopirroniano è skepsis, nome astratto che indica un’attività e non una dottrina. Lo scettico non professa un sistema e non aderisce ad una scuola, pratica un’attività, la skepsis, e aderisce ad uno stile di vita, il modo di vivere scettico. Non dobbiamo immaginare che adottare lo stile di vita scettico risulti da anticonformista o da eccentrico, il confronto con lo stile di vita cinico è da questo punto di vista rivelatore: se il filosofo cinico spesso finisce per vivere in condizioni di assoluta povertà e di indigenza ed è facilmente riconoscibile per il modo di vivere anticonvenzionale, Il filosofo scettico passa inosservato. Prendiamo d’esempio Sesto empirico (seconda metà II sec. d.C.) era un medico che esercitava la sua professione con successo e possiamo facilmente immaginare che seguisse le regole, le leggi e le convenzioni del suo tempo (regular guy), la differenza stava nell’atteggiamento con cui affrontava la vita è non nei suoi comportamenti.La chiave di volta dello scetticismo neopirroniano sta nella cosiddetta sospensione del giudizio ovvero l’Epochè. Per lo scettico le regole, le leggi, le consuetudini si seguono senza chiedersi se esse siano giuste o ingiuste. Come si fa a vivere da scettici senza credere a nulla? Non si può vivere nel mondo degli uomini senza credere a nulla. Lo scettico provvede alle proprie necessità, e si preserva dai pericoli perché ha un criterio di azione che consiste nell’attenersi ai fenomeni e nel seguire le consuetudini del tempo, ma non ne ha uno di verità, non è quindi in grado di andare al di là dei fenomeni né di stabilire come le cose siano realtà. Il fine ultimo dello scetticismo è la tranquillità (Ataraxia) che segue alla sospensione del giudizio (come fa lo scettico ad essere sicuro della tranquillità, di conseguenza, alla sospensione di giudizio? non lo sa e non dichiara di saperlo.) Glossario: Epoché: sospensione del giudizio Tranquillità: ataraxia Skepsis: ricerca Criterio di azione Criterio di verità Scetticismo accademico Neo pirronismo 8 - Akrasìa Definizione: a-krasia è la mancanza di potere su di sé e sulle proprie azioni. Ha origine greca e richiama la stessa nozione di potere che si ritrova nelle parole “democrazia” o “autocrate”. La sua traduzione in italiano è “incontinenza” o l’espressione “debolezza della volontà”. Si riferisce alla disposizione di un agente che compie un'azione differente da quella che genuinamente riterrebbe migliore e che agisce fuori dalla propria capacità di autocontrollo. La nozione di akrasìa si colloca in uno scenario in cui la valutazione di quale azione sia migliore non è riferita ad una scala di valori oggettiva, ma è da intendersi come determinata dal punto di vista dell’agente e dei suoi parametri. L’agente acratico quindi è colui il quale ritiene l’azione A migliore dell’azione B e nonostante questo compie liberamente e intenzionalmente B. Come esempio di akrasìa si può pensare al caso di Filottete, riportato anche da Aristotele: Filottete fu morso da una vipera e decise di non parlarne con Neottolemo, nascondendogli l’accaduto. Dopo un pò, spinto dal dolore che provava, racconta il fatto. Filottete è akratico in quanto non compie l’azione che ritiene migliore, ossia tenere nascosto l’accaduto, ma agisce contrariamente ad essa. Accanto a questo esempio se ne potrebbero riportare molti altri: acratico è anche una persona che prende la decisione di resistere alla passione per una donna ma poi cede. Oppure chi decide di allenarsi un giorno ma poi viene vinto dalla pigrizia e passa il tempo in altro modo. Lìakrasia è un tema filosofico che pone di fronte al problema di render conto di un atteggiamento dell’uomo che appare insensato e irrazionale. Il filosofo che la indaghi deve spiegare perché una persona compia un'azione pur ritenendone migliore un altra e avendo piena libertà e possibilità di compiere quest’ultima. Aristotele è stato il primo filosofo a cogliere il significato filosofico dell’akrasia. Teoria etica aristotelica : primo, completo ed autonomo tentativo di formulare una rappresentazione sistematica dell’agire di un agente razionale. → Parla dell’Akrasia nel libro 7 dell’Etica Nicomachea, il quale corrisponde al libro 6 dell’ Etica Eudemia. [ Tra l’Etica Nicomachea e l’Etica Eudemia di Aristotele ci sono delle differenze essenziali ma la struttura e l’ordine in cui i temi sono trattati è il medesimo; inoltre, la parte centrale delle opere che corrisponde ai libri 5,6,7 della Nicomachea e ai libri 4,5,6 dell’Eudemia sono identici, riportati parola per parola. ] SOCRATE : l’akrasia non esiste. Aristotele, prima di approfondire la sua teoria, riporta e analizza anche le opinioni diffuse tra i suoi contemporanei. Aristotele critica la posizione Socratica secondo cui l’akrasia non esiste. La posizione socratica sull’akrasia può essere desunta dal ragionamento sul perché si compie il male: A tal proposito Socrate elabora la tesi dell’Intellettualismo etico secondo la quale nessuno compie il male volontariamente. ⇒ Come Socrate sostiene questa tesi : Ridendo, Prodigo si disse d’accordo e così gli altri. “Che cosa ne pensate di questo”, ripresi “tutte le azioni volte a una vita senza dolori è piacevole, forse non non sono belle? e l’opera bella non è buona e utile ?” così sembrava. “Se allora” continuai “il piacere è un bene, nessuno sapendo o credendo che altre cose siano migliori di quelle che fà e possibili a realizzarsi, continua a fare queste potendo far di meglio. Quindi essere vinti da sé stessi non è altro che ignoranza , né il vincere su sé stessi altro che sapienza?” erano tutti d’accordo. “E quindi ? definite ignoranza l’avere una falsa opinione e sbagliarsi sulle cose di grande valore ?” anche su questo erano d’accordo. “Allora”, dissi, “nessuno va volontariamente verso il male nè verso ciò che ritiene tale, nè sembra essere nella natura dell’uomo il desiderio di rivolgersi a ciò che si ritiene male invece di andare verso il bene; del resto, quando si è costretti a scegliere tra due mali, nessuno sceglie il maggiore, potendo optare per il minore”. ( Brano dal Protagora di Platone, 258 b-c ) Per Socrate è solo per ignoranza di cosa sia veramente meglio che si compie un'azione piuttosto che un'altra. Un agente compie un azione B poiché non è consapevole che A sia migliore di B. L’agente agisce quindi sempre in maniera coerente rispetto alle proprie credenze e conoscenze, e l’akrasia non esiste. Critica di Aristotele : l’ignoranza non è sufficiente a spiegare tutte le azioni umane. Per lui è evidente che ci siano persone che agiscono in maniera incontinente e contraria alle proprie credenze e deliberazioni. A tal proposito preferisce parlare di una mancanza di autocontrollo anziché spostare il problema sulle conoscenze della gente. il tema dell’autocontrollo è presente anche nell’etica socratico-platonica ma sotto un altro punto di vista : Lo si ritrova nel concetto di temperanza intesa come controllo e dominio delle proprie passioni. ARISTOTELE Akrasia secondo Aristotele = l’Akratico è un agente che, pur avendo deliberato relativamente ad un'azione e ritenendola migliore di un altra, è incapace di autocontrollo e compie un'azione contraria a quella ritenuta migliore. Ciò è possibile poiché la conoscenza che permette di determinare quale azione sia migliore è momentaneamente inpotente e quindi la gente è incapace di esercitarla. Ci sono due casi differenti di persone che agiscono contrariamente alle proprie conoscenze: 1) chi ha certe conoscenze ma è temporaneamente incapace di utilizzarle (chi ha mancanza di sonno, ubriachi e folli ). 2) Agenti che sembrano possedere un sapere che guida le loro scelte ma, sopraffatti dalle proprie emozioni, non riescono a seguirlo. E’ momentaneamente impossibilitato a mettere in pratica le proprie conoscenze: ciò avviene a causa delle passioni che non permettono all’agente di mantenere l’autocontrollo. → Risultato : passato l'impeto passionale, l’agente riconoscerà la propria azione come contraria alla propria scienza e desidererà aver agito diversamente. ⇒ Akrasia : mancanza di autocontrollo, causata dalle passioni, che impedisce al sapere di essere messo in atto. + Aristotele tratteggia una differenza tra 1) chi è incapace a dominarsi ( come l’akratico); e 2) chi, essendo intemperante e vizioso, segue abitualmente le proprie passioni. → A tal proposito : “Bene, chi è un individuo simile è temperante, l’opposto è intemperante. Ma poi vi è anche qualcuno che svia dal retto comportamento per passione. «Questi è tale da essere dominato dalla passione al punto da non agire secondo il ragionamento corretto, e tuttavia non è dominato da lei al punto di essere convinto di dover perseguire piaceri del genere senza vergogna. Costui è quello che non si domina, è migliore dell’intemperante e non è cattivo in assoluto, infatti in lui la parte migliore, il principio, si è salvata.” (Aristotele, Etica Nicomachea VII 9, 1151a19-24) → L’akrasia e il vizio si traducono nelle medesime azioni, ma è diversa la disposizione di chi le compie : l’intemperante sceglie di seguire le proprie passioni, mentre l’akratico desidera agire diversamente e pur arrivando a deliberare in merito all’azione, non riesce a prestar fede alla scelta fatta. Attualità : Il tema dell’akrasia è stato ed è oggetto di dibattito nella filosofia morale contemporanea 1970 : Donald Davidson nel suo libro “how is weakness possible” si è interrogato sulla natura delle azioni akratiche. → Pone il problema nei termini di un inconsistenza logica : Egli riformula l’aporia aristotelica individuando due proposizioni che prese insieme contraddicono la possibilità dell’akrasia. Due proposizioni : 1) se un agente vuole fare A più di quanto voglia fare B e si ritiene libero di fare o A o B, allora, se fa intenzionalmente A o B, farà intenzionalmente A. 2) Se un agente giudica che sarebbe meglio fare A, anzichè B, allora vuole fare A più di quanto voglia fare B Se le proposizioni sono entrambe vere, le azioni akratiche non dovrebbero esistere, eppure esistono. Occorre spiegarle superando l’inconsistenza logica : La soluzione di Davidson consiste nel lavorare sulla seconda proposizione, che a suo avviso va riformulata. - In particolare, relativamente alla prima parte della seconda proposizione, egli commenta che nel giudicare A migliore di B difficilmente si considerano tutti gli aspetti. Infatti un agente può compiere B poichè, nonostante abbia molte azioni iniziali che gli farebbero propendere in prima analisi nel giudicare migliore A, esse non sono conclusive. Questo avviene in primo luogo perché non è detto che un agente consideri tutte le motivazioni per preferire un azione a un altra; ma soprattutto, anche una volta considerate tutte le ragioni parziali, non necessariamente l’agente formula un esplicito giudizio globale. - Anche la seconda parte della seconda proposizione è problematica poiché collega in maniera inopportuna giudizio e desiderio dell’agente : a un giudizio, infatti, non necessariamente segue il desiderio di compiere tale azione. Per Davidson le proposizioni 1 e 2 andrebbero piuttosto fuse e riformulate come segue : Se un agente giudica migliore fare A anziché B e si ritiene libero di fare o A o B allora farà intenzionalmente A, se farà intenzionalmente A o B. →In questo modo l’inconsistenza è risolta: questa formulazione è compatibile con la possibilità di azioni akratiche. La soluzione proposta risolve il paradosso logico MA mantiene l'irrazionalità dell’azione akratica visto che l’agente akratico non ha comunque ragioni sufficienti di compiere B invece che A. Nell’individuare le caratteristiche di un azione che cede alla debolezza della volontà, Davidson ricalca i tratti di un'azione akratica già individuati da Aristotele: Secondo Davidson, nel compiere B, un agente agisce in maniera incontinente se e solo se l’agente compie B intenzionalmente; l’agente crede che ci sia un azione alternativa A per lui praticabile; l’agente giudica che, considerate tutte le cose, sarebbe meglio fare A piuttosto che B. ⇒ La definizione davidsoniana di un'azione akratica richiede contemporaneamente intenzionalità, libertà e miglior giudizio dell’agente. Essa risolve l’inconsistenza logica ma mantiene il carattere irrazionale di tale azione. La posizione di Davidson non è esente da critiche o sviluppi: Alcuni lo hanno accusato di non riuscire a spiegare davvero il perché avvengano azioni akratiche, ma solamente il giudizio incondizionato su di esse che coinvolge l’agente che le compie. A partire dalla formulazione di Davidson il dibattito sull’akrasia si è allargato ed è ancora in corso. Scopo di questa lezione è valutare che il problema aristotelico non ha smesso di arrovellare i filosofi fino ad oggi. Glossario: Akrasia Intellettualismo socratico Incontinenza Debolezza della volontà 9 - Platone e la linea divisa La linea divisa e l’epistemologia di Platone Spesso nei suoi dialoghi Platone ricorre a miti ed immagini che illuminino nodi dottrinali importanti. La linea divisa appartiene a questa modalità metodologica, compare nel libro VI della Repubblica e rappresenta l’apice dell’epistemologia di Platone. Tramite l’immagine della linea divisa Platone traduce in termini geometrici la dicotomia tra mondo visibile e mondo intellegibile, tra realtà corporea, afferrabile con i sensi, e realtà incorporea, afferrabile con la ragione. Lo scopo di questa immagine è quello di spiegare come esistano diverse modalità di conoscenza perché esitono diversi gradi di realtà, più o meno chiare perchè più o meno vere, a seconda che si rivolga lo sguardo al mondo sensibile o la mente a quello intellegibile. In definitiva la linea divisa presenta una scala di accesso alla conoscenza intimamente connessa all’ontologia platonica. Secondo Platone, come ci sono gradi diversi di realtà, così ci sono gradi diversi di conoscenza, per esempio: nel mondo visibile vediamo ombre e riflessi oltre agli oggetti fisici che li proiettano e ovviamente gli oggetti fisici hanno un grado di realtà maggiore delle loro ombre e riflessi. Una considerazione simile va fatta per il mondo intellegibile dove gli intellegibili del grado più alto, che sono le idee immutabili ed eterne, hanno una realtà massima rispetto agli intellegibili che sono loro inferiori per realtà. Ad ogni grado di questa realtà dell’essere corrisponde un processo esperienziale e cognitivo dell’anima. La descrizione della linea divisa La linea divisa è cost