Pedagogy, Educational Theories and Philosophers - PDF

Summary

This document explores the realm of pedagogy and educational theories, with emphasis on key figures such as Maria Montessori, John Dewey, and Célestin Freinet. It discusses the movement of new schools and their impact on contemporary education. The material covers various approaches to education and philosophical underpinnings.

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-CAMPI E TEMI DELLA PEDAGOGIA Nel corso del Novecento, la pedagogia riesce finalmente ad affermarsi come scienza autonoma, dopo secoli in cui era subordinata alla filosofia. Questo cambiamento è reso possibile grazie a un intenso dibattito che permette alla disciplina di darsi un proprio oggetto di...

-CAMPI E TEMI DELLA PEDAGOGIA Nel corso del Novecento, la pedagogia riesce finalmente ad affermarsi come scienza autonoma, dopo secoli in cui era subordinata alla filosofia. Questo cambiamento è reso possibile grazie a un intenso dibattito che permette alla disciplina di darsi un proprio oggetto di studio, delle metodologie di ricerca specifiche e un linguaggio distinto. In questo modo, si differenzia da altre scienze che pure si interessano all’educazione, come la didattica, l’antropologia, la psicologia, la sociologia e, più recentemente, la neurobiologia. Contestualmente, la crescente complessità delle società moderne e la comparsa di nuovi problemi sociali ed educativi spingono la pedagogia a esplorare nuovi ambiti e metodi di ricerca, rendendola oggi una disciplina dinamica, aperta e in costante evoluzione. La pedagogista Daniela Sarsini, nata nel 1946, individua undici principali settori della pedagogia contemporanea. La pedagogia sociale è uno di questi: riconosce l’importanza del contesto sociale e culturale per la piena realizzazione della persona e sviluppa teorie e pratiche educative che ne tengano conto. La pedagogia dell’educazione degli adulti e degli anziani mostra un rinnovato interesse per queste fasi della vita, tradizionalmente trascurate, affermando l’idea che l’apprendimento debba proseguire lungo tutto l’arco della vita. Questo si collega al concetto di lifelong education, riconosciuto a livello internazionale. La riflessione pedagogica attuale si estende anche ai fondamenti e alle finalità della disciplina, che vengono ripensati per rispondere alle sfide del presente senza perdere di vista il fine ultimo della pedagogia: la promozione della persona. La pedagogia della famiglia si occupa di offrire orientamenti educativi riferiti a un’istituzione in continuo cambiamento, prendendo atto delle nuove forme familiari, come quelle monoparentali, allargate, separate o omogenitoriali. La pedagogia dell’infanzia analizza questa fase della vita nella sua complessità, contrastando le visioni riduttive del passato. La pedagogia della scuola, invece, si concentra sull’educazione formale, definendo metodi e contenuti dell’insegnamento per garantire un’istruzione di qualità accessibile a tutti. La pedagogia di genere si impegna a contrastare stereotipi e discriminazioni, rifiutando letture svalutanti del femminile e valorizzando le differenze come elementi costitutivi dell’identità individuale. La pedagogia interculturale si confronta con le sfide poste dalla globalizzazione e dai flussi migratori, mettendo in discussione la centralità del modello culturale occidentale e aprendosi al dialogo con altri sistemi di pensiero. Un altro ambito è la pedagogia dei media, che propone un’educazione critica ai mezzi di comunicazione, analizzando contenuti, ideologie e interessi che vi si celano dietro. La pedagogia del corpo e dello sport incoraggia il riconoscimento del corpo e del movimento come elementi fondamentali per la crescita personale, sollecitando anche chi opera nello sport a coglierne la funzione educativa, oltre a quella tecnica e ricreativa. La pedagogia del lavoro studia il legame tra il mondo dell’istruzione e quello professionale, riflettendo su come il lavoro venga percepito oggi in relazione a problematiche come la precarietà, l’iperspecializzazione e l’invecchiamento della popolazione. Infine, si può aggiungere alla lista anche la pedagogia speciale, che si occupa di promuovere il pieno sviluppo delle persone con disabilità e, allo stesso tempo, di diffondere una cultura dell’accoglienza all’interno della società. -METODI DELLA PEDAGOGIA La pedagogia, per affrontare e approfondire le molteplici problematiche connesse ai suoi diversi ambiti di specializzazione, si avvale di una varietà di approcci metodologici. Tra questi, uno dei principali è la ricerca teorica, che si occupa di interrogarsi sulle finalità dell’educazione, ponendo attenzione alle diverse fasi della vita dell’individuo – infanzia, adolescenza, età adulta e vecchiaia – e ai luoghi educativi in cui il soggetto agisce e cresce, come la famiglia, la scuola, il lavoro, le associazioni. Questo tipo di ricerca si concentra anche sulla struttura e sulle modalità operative della pedagogia in quanto disciplina scientifica complessa. All’interno della ricerca teorica coesistono differenti prospettive interpretative, come per esempio il personalismo, la pedagogia popolare o la pedagogia della differenza sessuale. Ciascuna di queste influisce sulla formulazione delle domande di ricerca, dando così maggiore rilievo ad alcune dimensioni educative piuttosto che ad altre. Tali prospettive, nel loro insieme, arricchiscono e orientano la riflessione teorica. Un altro importante approccio è la ricerca storico-educativa, che si dedica allo studio delle trasformazioni delle pratiche educative, delle idee pedagogiche e delle istituzioni scolastiche nel corso del tempo. Le fonti utilizzate in questo tipo di indagine comprendono opere scritte da autori del passato, ma anche materiali più personali e narrativi, come lettere, biografie, documenti privati, diari, fino ad arrivare, per i periodi più recenti, alla raccolta di testimonianze orali. Questo approccio permette di cogliere l’evoluzione del pensiero e dell’azione educativa all’interno dei contesti storici. Accanto a questi, vi è la ricerca empirica, che si distingue nettamente dalle precedenti perché si confronta direttamente con la realtà educativa concreta. Essa raccoglie dati allo scopo di analizzare e comprendere le pratiche educative così come si realizzano nei contesti reali. La ricerca empirica si suddivide a sua volta in due principali gruppi di approcci: quantitativi e qualitativi. Gli approcci quantitativi si basano su strumenti di raccolta dati strutturati, come questionari, interviste standardizzate e check-list. Tali strumenti permettono di ottenere una grande quantità di dati misurabili numericamente, dai quali è possibile trarre conclusioni di carattere generale. All’interno di questa categoria rientra la ricerca sperimentale, che valuta l’efficacia di interventi educativi attraverso procedure rigorose e formalizzate, cercando di produrre risultati affidabili e ripetibili. Gli approcci qualitativi, invece, si focalizzano sull’analisi approfondita di situazioni specifiche e complesse. Comprendono strumenti e metodologie come lo studio di caso, la ricerca-azione, l’etnografia, l’osservazione partecipante, le interviste narrative e i focus group. Questi strumenti permettono di raccogliere dati dettagliati e ricchi di significato, offrendo uno sguardo profondo sui fenomeni educativi nei loro contesti di riferimento. Infine, esistono anche approcci integrati, che combinano metodi quantitativi e qualitativi, utilizzando strumenti provenienti da entrambi gli ambiti per ottenere una visione più completa e articolata dei fenomeni educativi osservati. Questa integrazione consente una maggiore flessibilità nell’analisi e nella comprensione dei dati, permettendo di cogliere sia gli aspetti generali che quelli specifici dell’educazione. -L’EDUCATORE Nel contesto educativo, educatori e insegnanti si trovano quotidianamente ad affrontare persone e situazioni che sono sempre uniche, ciascuna con le proprie caratteristiche, difficoltà e dinamiche. Questi contesti non sono mai statici o prevedibili, ma si presentano come complessi e in costante mutamento. Per questa ragione, non è possibile adottare soluzioni predefinite o automatismi rigidi: l’efficacia dell’intervento educativo dipende dalla capacità di adattarsi, leggere il contesto e trovare risposte adeguate e flessibili. La progettazione educativa, che rappresenta un pilastro della pratica pedagogica, deve essere accompagnata da un atteggiamento riflessivo e dalla disponibilità ad apprendere in modo continuo dall’esperienza. Secondo la pedagogista Luigina Mortari, l’esperienza diventa realmente educativa solo quando è sottoposta a una riflessione consapevole. Non basta vivere una sequenza di eventi per parlare di esperienza: è necessario che i vissuti vengano rielaborati interiormente, trasformandosi così in sapere. L’autrice distingue quattro forme principali attraverso cui questo sapere può emergere. La prima è la riflessione in azione, che avviene nel corso stesso dell’intervento educativo. In quei momenti in cui l’educatore si accorge che qualcosa non sta funzionando come previsto, ha l’opportunità di non agire solo d’istinto, ma di fermarsi anche solo per un attimo e valutare la complessità della situazione, cercando una risposta più consapevole. La seconda forma è la riflessione sull’azione, che si sviluppa a posteriori. Una volta terminata l’attività o l’interazione, l’educatore analizza ciò che è accaduto: valuta cosa ha influenzato la situazione, come si sono comportati i partecipanti, quali emozioni erano presenti, che risultati sono stati raggiunti e in che misura l’intervento è stato efficace. Questo tipo di riflessione permette di riconoscere anche elementi ricorrenti, utili per il futuro. Segue poi la riflessione sull’azione possibile, una forma di pensiero orientata alla progettualità. Essa parte dalle riflessioni precedenti, ma si spinge oltre, immaginando modalità alternative di intervento, strategie differenti, azioni più adatte o innovative che potrebbero essere applicate in situazioni simili. Infine, vi è la riflessione metacognitiva, la più profonda. Questa riguarda la consapevolezza delle proprie convinzioni, degli schemi mentali che spesso guidano – a volte in modo inconsapevole – i giudizi, le decisioni e i comportamenti. Tale riflessione consente all’educatore di mettersi in discussione, individuare le proprie premesse implicite e, se necessario, modificarle. Per sostenere questo lavoro riflessivo, Mortari propone alcuni strumenti concreti, da utilizzare nella pratica educativa. Uno di questi è il diario di bordo, da compilare regolarmente. Anche i dettagli più banali del quotidiano possono, se rivisitati con attenzione, rivelare significati profondi. Scrivere il diario permette di migliorare la capacità di osservazione, esprimere emozioni che spesso si tende a reprimere, raccogliere dati utili su cui riflettere anche a distanza di tempo. Un altro strumento è l’autobiografia formativa, una narrazione della propria esperienza di apprendimento, che aiuta a dare senso al proprio percorso di crescita personale e professionale. Questo tipo di ricostruzione permette di riconoscere il valore di certe esperienze, di certi incontri e contesti, e di comprendere come abbiano influenzato le proprie scelte. Infine, i gruppi di riflessione offrono uno spazio collettivo di confronto, in cui più educatori possono discutere insieme situazioni complesse. Il confronto arricchisce i punti di vista e stimola soluzioni più efficaci. Tuttavia, per essere davvero fruttuosi, questi gruppi richiedono un clima di apertura, disponibilità ad ascoltare gli altri e ad accettare il cambiamento delle proprie idee. Da tutto ciò emerge chiaramente che adottare uno stile professionale basato sulla ricerca non è un’esclusiva di chi svolge attività scientifica accademica. Anche l’educatore, nel suo quotidiano, è chiamato a essere un ricercatore: un professionista che riflette, si interroga, osserva, valuta, immagina alternative e si mette continuamente in discussione per offrire risposte educative significative e adeguate ai bisogni reali delle persone con cui lavora. -SCUOLA NUOVE L’espressione “scuole nuove” raccoglie sotto un’unica etichetta una molteplicità di iniziative educative e didattiche sorte tra fine Ottocento e inizio Novecento in contesti geografici e culturali anche molto diversi tra loro. Nonostante la varietà dei principi ispiratori e delle modalità di applicazione, è comunque possibile individuare alcune caratteristiche comuni che accomunano queste esperienze, rendendole parte di un più ampio movimento di rinnovamento pedagogico. Una di queste caratteristiche è la centralità del bambino e della bambina nei processi educativi. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale, che può sfuggire nella sua portata oggi, poiché la società contemporanea dà per scontata la specificità dell’infanzia. Tuttavia, questo riconoscimento non è sempre esistito. Solo a partire dalla fine dell’Ottocento, grazie allo sviluppo della psicologia scientifica, si è iniziato a studiare in modo sistematico le dinamiche, i bisogni e le potenzialità dei bambini. Le “scuole nuove” hanno accolto con entusiasmo questi studi, costruendo progetti educativi che mettono il bambino al centro come soggetto attivo, capace di contribuire al proprio apprendimento. Da questa nuova considerazione dell’infanzia deriva anche un altro tratto distintivo del movimento: la valorizzazione dell’esperienza nel processo di apprendimento. Secondo questa visione, l’educazione non può più essere modellata esclusivamente su schemi adultocentrici, ossia definiti in base alle modalità cognitive e logiche dell’adulto. Al contrario, bisogna riconoscere che i bambini apprendono attraverso il corpo, i sensi, il movimento, il fare, l’esplorazione diretta del mondo. Il titolo dell’opera più celebre di Maria Montessori, La scoperta del bambino, sintetizza bene questa svolta: i bambini non sono oggetti da plasmare, ma soggetti già dotati di potenzialità educative naturali, che l’educazione deve favorire e far emergere. Un’altra implicazione fondamentale è l’attenzione all’ambiente di apprendimento. Non si tratta più di uno sfondo passivo, ma di un elemento attivo e determinante del processo educativo. Il ruolo dell’educatore, di conseguenza, cambia radicalmente: non è più colui che guida passo passo, trasmettendo nozioni, ma diventa il facilitatore, colui che crea le condizioni affinché ogni bambino possa sviluppare in autonomia i propri interessi, esplorare, costruire significati. L’ambiente educativo diventa così uno spazio dinamico, che può stimolare o inibire il desiderio di conoscere e crescere. Nonostante questi principi comuni, le varie “scuole nuove” si sono concretizzate in esperienze diverse, a volte anche molto differenti tra loro. Il termine New School fu utilizzato per la prima volta dal pedagogista inglese Cecil Reddie (1858-1932), che nel 1889 fondò la scuola di Abbotsholme, un istituto privato rivolto a ragazzi tra gli 11 e i 18 anni. Qui si privilegiavano le lingue e le scienze, con un forte legame tra sviluppo intellettuale, manualità e vita all’aria aperta, in un progetto educativo volto a coltivare tutte le facoltà dell’essere umano. Altre iniziative si ispirarono all’esperienza di Reddie. Tra queste: ​ ​ La scuola di Bedales, nel sud dell’Inghilterra, fondata da Haden Badley (1865-1967), ex allievo di Reddie. Questa scuola-convitto promuoveva la coeducazione tra maschi e femmine e l’autogoverno: i bambini e le bambine erano coinvolti in prima persona nella gestione scolastica, in opposizione al sistema educativo autoritario dell’epoca. ​ ​ L’École des Roches, fondata in Normandia da Edmond Demolins (1852-1907), era organizzata in case di campagna dove gli studenti, in un ambiente sociale ricco e accogliente, sperimentavano la vita in comune e partecipavano attivamente sia alle attività intellettuali sia a quelle pratiche, come cucinare o coltivare. ​ ​ Le Case di educazione in campagna fondate da Hermann Lietz (1868-1919) in Germania seguirono inizialmente gli stessi ideali, ma con il tempo ne tradirono lo spirito originario. Lietz accentuò il carattere elitario delle scuole di Reddie e Demolins, rendendole luoghi riservati a studenti di famiglie benestanti. Così facendo, la spinta progressista e libertaria della New School si attenuò, adattandosi alle richieste conservatrici dell’aristocrazia terriera tedesca. Il rinnovamento pedagogico, tuttavia, non si limitò alla scuola: coinvolse anche movimenti educativi extrascolastici, che avevano come obiettivo la formazione del carattere e della personalità attraverso esperienze di gruppo, autonomia e contatto con la natura. Tra questi spicca il movimento degli scout, fondato da Robert Baden-Powell (1857-1941), ex colonnello dell’esercito britannico. Il movimento era basato su attività avventurose, vita all’aperto, esperienze di gruppo e senso di responsabilità personale. Nonostante l’impronta militarista originaria, evidente nelle uniformi, nella struttura gerarchica e nei riti d’iniziazione, col tempo lo scoutismo ha attenuato questi aspetti, diventando uno dei movimenti educativi più diffusi al mondo, con associazioni sia religiose che laiche. Un altro movimento importante fu quello dei Wandervögel (“Uccelli migratori”), ispirato al pensiero di Gustav Wyneken (1875-1964). Anche in questo caso si privilegiava il contatto diretto con la natura attraverso escursioni e gite di gruppo. Il movimento si distingueva per il suo rifiuto dei valori borghesi, della vita cittadina artificiale, e per la ricerca di forme di comunità alternative basate su ideali di libertà, spontaneità e fratellanza. Tuttavia, nonostante le premesse idealistiche, questi fermenti giovanili non portarono a una reale emancipazione: anzi, finirono per essere strumentalizzati dal nazismo, che ne sfruttò la forza emotiva e la retorica comunitaria per i propri fini totalitari. In sintesi, il movimento delle “scuole nuove” rappresenta una fase cruciale nella storia della pedagogia, in cui per la prima volta l’educazione viene ripensata radicalmente a partire dai bisogni e dalle potenzialità dei bambini. Questo spirito innovatore ha influenzato profondamente la scuola contemporanea e continua ancora oggi a fornire stimoli preziosi per un’educazione più umana, attenta, partecipativa e democratica. -ITALIA Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, anche in Italia prende forma il movimento delle “scuole nuove”, grazie al lavoro di alcune importanti figure femminili dell’educazione, tra cui Giuseppina Pizzigoni, Maria Boschetti Alberti, Alice Franchetti e soprattutto le sorelle Rosa e Carolina Agazzi (rispettivamente 1866–1951 e 1870–1945). È proprio il progetto educativo delle sorelle Agazzi, sviluppato nel 1895 a Mompiano, un quartiere di Brescia, che segnerà profondamente la pedagogia italiana, con un’influenza che arriva fino ai giorni nostri. Le sorelle Agazzi danno vita a un modello educativo rivolto all’infanzia, che chiamano “scuola materna”, proprio per sottolineare la sua continuità con l’ambiente familiare. L’idea centrale è che la scuola debba riprodurre un clima sereno, domestico, nel quale i bambini possano crescere e imparare in modo naturale, attraverso attività che appartengono alla vita quotidiana. Ogni giornata scolastica è scandita da esercizi di vita pratica: i bambini imparano a vestirsi, lavarsi, mettere in ordine, apparecchiare la tavola, curare le piante del giardino, svolgendo compiti utili e significativi che li aiutano a sviluppare autonomia, responsabilità e senso dell’ordine. Queste attività non sono separate dal loro mondo, ma anzi sono in piena sintonia con la loro realtà concreta, con ciò che vivono ogni giorno in famiglia e nella società. Questa visione educativa si riflette anche nella scelta dei materiali didattici. Le Agazzi prendono le distanze sia da Fröbel, che proponeva giochi strutturati, sia da Maria Montessori, che sosteneva l’uso di materiali scientificamente progettati e standardizzati. Al contrario, secondo le sorelle Agazzi, l’ambiente scolastico deve essere costruito con i bambini, usando oggetti semplici, poveri, ma ricchi di potenzialità educative. Nasce così il loro celebre “museo didattico”, un luogo fisico e simbolico formato da oggetti raccolti dai bambini stessi: “cianfrusaglie” come bottoni, pezzetti di stoffa, conchiglie, mollette, pezzetti di legno… Tutto ciò che stimola la curiosità sensoriale e cognitiva del bambino viene valorizzato. Questi materiali servono per giocare, classificare, contare, raccontare storie, inventare, diventando strumenti attivi di apprendimento. Attenzione, però: l’ambiente educativo delle Agazzi non è caotico o disordinato. Anzi, l’ordine è uno dei pilastri della loro pedagogia. Un esempio emblematico è l’uso dei “contrassegni”, cioè immagini (di fiori, animali, oggetti, ecc.) che identificano gli oggetti personali o i posti dei bambini. Queste immagini, più accessibili di numeri o parole per i più piccoli, aiutano a orientarsi, a rimettere ogni cosa al suo posto e, nello stesso tempo, favoriscono l’apprendimento del linguaggio tramite giochi di denominazione, pronuncia e memoria. In questo modo, l’ambiente – ordinato, semplice, ricco ma non rigido – diventa un educatore esso stesso: guida le azioni, stimola le competenze, valorizza gli interessi spontanei del bambino. L’adulto non impone, ma osserva, accompagna e organizza in modo intelligente le condizioni favorevoli allo sviluppo armonico di ciascun bambino. Il metodo delle Agazzi fu molto apprezzato, anche da pedagogisti e intellettuali dell’epoca. Tra i suoi più convinti sostenitori c’era Giuseppe Lombardo Radice, uno dei più importanti teorici della scuola italiana, che lo considerava più adatto alla realtà italiana rispetto al metodo Montessori, ritenuto troppo rigido e scientifico. Tuttavia, non mancarono le critiche, soprattutto da parte di chi imputava alle Agazzi una mancanza di sistematicità e di rigore teorico. Ma questa critica non coglieva nel segno: Rosa e Carolina non intendevano creare un sistema rigido, ma un metodo flessibile e aperto, ispirato a vari riferimenti (ma senza dipendere da nessuno in particolare), e soprattutto orientato al benessere integrale del bambino, alla sua crescita umana e non solo intellettuale. In conclusione, l’approccio educativo delle sorelle Agazzi rappresenta una delle esperienze pedagogiche più originali e feconde del panorama italiano, fondata su un’idea semplice ma potentissima: educare nella vita e con la vita, facendo della quotidianità e dell’ambiente un’occasione costante di scoperta, relazione e crescita. -ESPONENTI IMPORTANTI: DECROLY Tra le teorizzazioni più brillanti nate all’interno del movimento dell’attivismo pedagogico, quella di Ovide Decroly (1871-1932) occupa un posto di rilievo per coerenza, originalità e rigore scientifico. Medico belga, Decroly si avvicina al mondo dell’educazione attraverso lo studio dei processi cognitivi e psicologici legati all’apprendimento, in particolare con bambini con disabilità, per poi estendere il suo lavoro a tutta l’infanzia. Nel 1907 fonda a Bruxelles l’École de l’Ermitage, dove dà forma concreta al proprio pensiero pedagogico. Fortemente influenzato dal positivismo, la corrente scientifica dominante all’epoca, Decroly parte da un principio fondamentale: l’insegnamento deve basarsi sulla natura psicologica del bambino. Questo implica una radicale messa in discussione della scuola tradizionale, allora centrata sull’adulto, su metodi mnemonici e meccanici, su un sapere frammentato e trasmesso in modo verbale e astratto. Al contrario, Decroly sostiene che l’apprendimento debba rispettare il modo naturale di conoscere dei bambini, che parte sempre dal concreto e dal globale per giungere all’astratto e al particolare. La sua proposta didattica si fonda su tre momenti essenziali e interconnessi: l’osservazione, cioè il contatto diretto e sensoriale con la realtà; l’associazione, che permette di organizzare mentalmente i dati raccolti in forme semplici di conoscenza; e infine l’espressione, che rappresenta la rielaborazione personale e creativa delle esperienze, sia attraverso attività manuali che intellettuali, come la lettura e la scrittura. Questo percorso educativo rispecchia il funzionamento naturale della mente e rende il processo di apprendimento più autentico e significativo. Uno dei contributi più innovativi di Decroly è l’introduzione del cosiddetto globalismo, un metodo che nell’insegnamento della lettura e della scrittura parte dalla frase – ovvero da un insieme significativo e comprensibile – per poi giungere gradualmente ai suoi elementi costitutivi, come parole e sillabe. Questo approccio si oppone all’insegnamento analitico e astratto che parte dalle lettere, ritenendo più efficace cominciare da ciò che ha senso per il bambino. In questo modo si crea un ponte tra l’apprendimento spontaneo e quello scolastico, favorendo lo sviluppo dell’intelligenza e della motivazione. Alla base della pedagogia decroliana c’è un’attenta osservazione dei bisogni fondamentali dell’essere umano, che secondo lo studioso sono quattro: nutrirsi, proteggersi dalle intemperie, difendersi dai pericoli e collaborare con gli altri. Da questi bisogni nascono i cosiddetti centri d’interesse, che costituiscono i nuclei tematici intorno ai quali si articola il programma didattico. Ogni centro d’interesse permette di unire contenuti diversi – scientifici, linguistici, sociali – secondo un criterio di coerenza interna e legame con l’esperienza del bambino. La scuola, così strutturata, assume la forma di una “scuola per la vita”, capace di preparare gli alunni non solo ad acquisire conoscenze, ma a comprendere e affrontare il mondo reale. L’intero percorso educativo, infine, si sviluppa lungo due assi principali: l’essere umano in relazione con gli altri, e l’essere umano in relazione con la natura. In entrambe le dimensioni, il sapere non è mai fine a sé stesso, ma sempre finalizzato alla crescita integrale della persona. In questo senso, il contributo di Ovide Decroly rappresenta uno degli esempi più alti di come sia possibile coniugare scienza e pedagogia, teoria e pratica, infanzia e educazione. -CLEPAREDÈ: Édouard Claparède (1873-1940), medico come Decroly, fu uno dei protagonisti della cosiddetta “scuola di Ginevra”, che comprendeva anche figure importanti come Adolphe Ferrière e Jean Piaget. Alla base del suo pensiero pedagogico vi è una distinzione fondamentale tra due concetti: il bisogno e l’interesse. Il bisogno è una necessità di tipo fisiologico, mentre l’interesse è la forza che orienta l’individuo verso ciò che, nell’ambiente, può soddisfare quel bisogno. In altre parole, l’interesse è dinamico, è ciò che mette in moto l’azione verso uno scopo, mentre il bisogno è una condizione di base, statica. Claparède distingue anche tra bisogni legati al presente, cioè immediati, e bisogni orientati alla crescita e allo sviluppo futuro. In quest’ottica, il gioco assume un ruolo centrale: non è semplicemente un’attività ludica e fine a sé stessa, ma è il mezzo privilegiato attraverso cui i bambini si preparano al futuro, esercitano i sensi, imparano a classificare, scoprono le proprietà delle cose, si esprimono verbalmente e razionalmente, e sviluppano le proprie competenze sociali. Il gioco, quindi, è funzionale alla piena realizzazione delle potenzialità umane, e per questo la scuola deve configurarsi come un laboratorio giocoso, in cui l’apprendimento avviene attraverso attività che rispondono agli interessi reali del bambino. Alla base del pensiero di Claparède vi è l’idea che i fenomeni psichici siano funzioni, cioè risposte adattive che l’individuo mette in atto per relazionarsi con l’ambiente fisico e sociale. Questo porta l’autore ad adottare un metodo scientifico basato sull’osservazione e la sperimentazione, anticipando molte delle teorie che, nel corso del Novecento, daranno vita alla psicologia cognitiva e all’educazione centrata sui processi di apprendimento. In questo quadro teorico si inseriscono le sue leggi dell’educazione funzionale, pensate per rispettare e valorizzare i meccanismi naturali dello sviluppo infantile. Queste leggi affermano che: lo sviluppo mentale del bambino procede per fasi ordinate; l’educazione deve assecondare questo processo evolutivo; una funzione mentale si sviluppa solo se viene esercitata; l’esercizio di una funzione permette l’emergere di funzioni più complesse; un’azione viene attivata quando serve a soddisfare un bisogno o un interesse attuale; per stimolare un’azione, occorre creare le condizioni per far emergere il bisogno corrispondente; infine, il bambino non è un adulto incompleto, ma un essere con caratteristiche proprie, e quindi la sua attività mentale deve essere compresa e rispettata in relazione ai suoi bisogni specifici. Claparède sottolinea anche un principio che oggi può sembrare ovvio, ma che all’epoca fu rivoluzionario: ogni individuo è diverso, possiede caratteristiche fisiche e psicologiche uniche, e l’educazione deve tenerne conto. Da qui nasce la sua proposta di una “scuola su misura”, cioè una scuola capace di adattarsi non solo alle esigenze generali dell’infanzia rispetto all’età adulta, ma anche alle singole peculiarità di ciascun alunno. Questo modello non ha però una visione individualistica: secondo Claparède, promuovere lo sviluppo di ogni persona serve a far crescere la società nel suo insieme, perché solo quando ognuno ha la possibilità di esprimere al meglio sé stesso, la collettività può beneficiarne. Per rendere operativa questa idea, Claparède suggerisce varie soluzioni, e ritiene particolarmente efficace quella di prevedere, soprattutto nelle scuole superiori, un’organizzazione flessibile del curricolo. Nella sua proposta, gli studenti dovrebbero dedicare circa dieci ore settimanali a discipline obbligatorie comuni, e altre dieci ore a materie scelte liberamente in base alle proprie inclinazioni e interessi personali. In questo modo, l’educazione funzionale è quella che si mette al servizio dell’autoeducazione, cioè di un processo in cui bambini e ragazzi diventano protagonisti attivi del proprio sviluppo, grazie a un contesto educativo che li stimola, li ascolta e li guida nel dare forma alle proprie potenzialità. -FERRIÈRE: Adolphe Ferrière (1879-1960), pensatore svizzero, è stato un grande sostenitore e promotore delle innovazioni educative del suo tempo, impegnandosi a individuare e teorizzare i tratti comuni di queste pratiche pedagogiche. Per descrivere queste nuove esperimentazioni educative, Ferrière coniò il termine “scuole attive”, un concetto che raccoglieva tutte quelle esperienze didattiche caratterizzate da un approccio innovativo e centrato sull’allievo. Come molti altri teorici dell’educazione del suo tempo, Ferrière dava un’importanza fondamentale agli interessi degli studenti, considerandoli come la molla principale dell’apprendimento. Secondo lui, l’insegnamento non doveva essere una semplice trasmissione di nozioni astratte attraverso un meccanismo di memorizzazione passiva, ma doveva invece essere costruito a partire da ciò che realmente suscitava curiosità e motivazione negli studenti. In particolare, Ferrière riteneva che il ruolo dell’insegnante fosse quello di offrire agli studenti ogni opportunità possibile per sviluppare i propri interessi, senza imporre contenuti che non fossero in sintonia con le inclinazioni e le necessità degli allievi. Questo approccio si rifletteva nel suo impegno diretto in alcune esperimentazioni pratiche, soprattutto nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, quando Ferrière fondò case d’infanzia destinate a bambini orfani e vittime del conflitto. Queste strutture erano situate in ambienti rurali, il che permetteva di offrire una varietà di attività scolastiche legate alla manualità, all’osservazione, alla sperimentazione e alla costruzione. Inoltre, queste case d’infanzia erano organizzate come piccole comunità in cui i bambini imparavano a vivere insieme, a cooperare e a responsabilizzarsi come cittadini. Un principio cardine del suo approccio educativo era l’autogoverno, cioè la convinzione che l’organizzazione della vita scolastica dovesse essere basata sull’autonomia democratica degli studenti, piuttosto che sull’autorità assoluta dell’insegnante. Ferrière credeva che una scuola veramente liberatrice dovesse educare alla libertà non solo attraverso l’insegnamento della libertà, ma anche permettendo agli studenti di esercitarla direttamente, coinvolgendoli attivamente nella gestione della loro esperienza educativa. In altre parole, la scuola doveva essere un ambiente che non solo trasmettesse conoscenze, ma che soprattutto educasse i bambini a vivere e a lavorare insieme, rispettando i principi della democrazia e della responsabilità collettiva. -COUSINET: Roger Cousinet (1881-1973) sviluppa la sua proposta educativa a partire da una critica alla scuola tradizionale, che considera antisociale e alienante per gli studenti. Secondo Cousinet, nella scuola tradizionale la socialità degli alunni è limitata ai momenti di ricreazione e gioco, mentre l’insegnamento stesso è caratterizzato da un isolamento forzato: gli studenti sono costretti a lavorare individualmente, senza possibilità di collaborazione, e l’attenzione viene concentrata esclusivamente sul maestro, che monopolizza l’intera esperienza scolastica. Per Cousinet, questa impostazione è da superare completamente, poiché non permette lo sviluppo delle capacità sociali e cooperative degli studenti. Pertanto, propone di organizzare l’intero processo di apprendimento in modo da favorire il lavoro di gruppo, attraverso il cosiddetto “metodo dei gruppi liberi di lavoro”. Il metodo dei gruppi liberi di lavoro si basa su tre principi fondamentali. Il primo è la libertà degli studenti di scegliere liberamente l’attività a cui dedicarsi, in modo che possano perseguire i propri interessi e sviluppare una motivazione intrinseca nell’apprendimento. Il secondo principio è la possibilità di confrontarsi in modo attivo e creativo con i problemi della conoscenza, mettendo in atto un processo di apprendimento che non è più passivo ma attivo e dinamico. Infine, il terzo principio riguarda la qualità affettiva e collaborativa dell’esperienza di apprendimento, poiché Cousinet crede che solo attraverso un forte legame emotivo e una cooperazione genuina gli studenti possano crescere realmente sia sul piano umano che intellettuale. Per quanto riguarda il ruolo dell’insegnante, Cousinet non lo nega, ma ne propone una reinterpretazione. Nella scuola tradizionale, il maestro è visto come colui che deve fornire una lezione chiara e definitiva, risolvendo ogni possibile dubbio, senza tenere conto della curiosità e degli interessi degli studenti. In contrasto, Cousinet ritiene che l’insegnante debba essere visto come un ricercatore, un compagno di esplorazione, disposto a fare scoperte insieme agli studenti. In questo contesto, le qualità fondamentali di un maestro sono la pazienza, la calma, la lealtà e la modestia. Queste virtù sono essenziali per guadagnarsi la fiducia degli studenti, che devono percepire l’insegnante come un membro esperto del gruppo, ma non come una figura autoritaria distante, pronta a condividere il suo sapere e a crescere insieme ai ragazzi. MONTESSORI: Maria Montessori, nella sua pedagogia, parte da una profonda ammirazione per il mondo dell’infanzia e per il bambino, che considera “padre e maestro dell’umanità”. Questo concetto non è solo un’affermazione metaforica, ma riflette una visione che attribuisce al bambino un ruolo centrale nella formazione dell’umanità stessa. Secondo Montessori, il bambino non è solo un soggetto passivo dell’educazione, ma un essere attivo che può mostrare, spiegare e insegnare, ma solo a determinate condizioni. La prima condizione è che al bambino sia concesso di esercitare liberamente la sua attività, esprimendo i suoi bisogni e inclinazioni. La seconda condizione è che chi osserva il bambino – cioè, l’educatore – sia preparato a vedere e raccogliere le sue manifestazioni. In questo senso, l’educatore deve essere capace di cogliere ciò che il bambino comunica, senza imporre preconcetti o forzare il suo processo naturale di apprendimento. Montessori sostiene che queste due condizioni siano anche alla base di una “pedagogia scientifica”, una pedagogia che non si limita a essere una branca secondaria della filosofia, ma che acquisisce una sua indipendenza e promuove un dialogo fecondo con altre scienze, come la psicologia sperimentale, l’igiene e l’antropologia. La pedagogia montessoriana si distingue, dunque, per il suo approccio scientifico e per la sua apertura a un confronto con le altre discipline, che permettono di arricchire la comprensione del bambino e del processo educativo. In questo contesto, va letta l’affermazione di Montessori secondo cui la sua pedagogia è una “rivelazione” offerta dal bambino stesso, un concetto che sottolinea la centralità del bambino come fonte di conoscenza e come guida nell’apprendimento. Questo “processo di rivelazione” non è un atto passivo da parte del bambino, ma un’azione attiva che richiede all’adulto di saper osservare e comprendere le sue necessità e potenzialità. Un altro importante aspetto della pedagogia di Montessori è la sua visione della possibilità del bambino di raggiungere, attraverso l’educazione, il livello di civiltà che l’umanità aspira a realizzare, ma dal quale è ancora lontana. Nonostante la testimonianza di Maria Montessori dei conflitti mondiali, delle guerre coloniali e dei regimi dittatoriali, l’autrice mantiene una visione lucida, ma non ingenua, del progresso umano. Secondo lei, le immense potenzialità dell’umanità risiedono nelle forze del mondo infantile, che sono state ignorate per millenni e che sono ancora ampiamente sconosciute. In effetti, Montessori osserva che questi poteri sono spesso repressi o annientati dalla scuola tradizionale, la quale, invece di farli emergere, li soffoca. In La Mente del Bambino (1952), Montessori sostiene che per costruire una società pacifica e rinnovata non bastano i buoni propositi o le speculazioni filosofiche, ma è necessario ampliare gli orizzonti educativi, concependo l’educazione non come una mera trasmissione di conoscenze, ma come una formazione generale dell’essere umano, che riguarda tutte le età, con particolare attenzione ai primi anni di vita. Montessori attribuisce una particolare importanza a questi primi anni, in cui la mente del bambino è particolarmente ricettiva e capace di conquiste intellettuali straordinarie. Un esempio di ciò è l’apprendimento della lingua: secondo Montessori, gli psicologi affermano che se dovessimo paragonare le capacità di un adulto a quelle di un bambino, sarebbe necessario che un adulto lavorasse per sessanta anni per raggiungere ciò che un bambino acquisisce nei suoi primi tre anni. Il bambino, dunque, possiede una mente “assorbente”, in grado di apprendere in modo spontaneo e senza fatica, un concetto che porta Montessori a invertire la prospettiva sull’educazione. L’educazione, infatti, non è più vista come un’opera degli adulti che riempiono i bambini di sapere, ma come un processo naturale in cui il bambino è guidato da un “maestro interiore” infallibile. Questo “capovolgimento” della visione tradizionale dell’educazione ha importanti implicazioni sulla concezione del ruolo dell’educatore e sull’ambiente di apprendimento. L’educatore, infatti, non è più visto come una figura autoritaria che impone il sapere, ma come una guida che aiuta il bambino a sviluppare autonomamente il proprio potenziale, creando un ambiente che favorisca l’apprendimento spontaneo e l’espressione libera delle sue inclinazioni. AMBIENTE Una delle caratteristiche fondamentali dell’approccio montessoriano è la particolare attenzione rivolta alla qualità dell’ambiente di apprendimento, che deve essere dotato di arredamenti e materiali appositamente studiati per rispondere alle necessità del bambino e per favorire la sua autoeducazione. Questa scelta è motivata dal fatto che, secondo Montessori, le scuole tradizionali sono piene di ostacoli che impediscono lo sviluppo armonioso dei bambini, ostacolando la loro crescita psicofisica. Un esempio emblematico di questi ostacoli è rappresentato dal banco, che nelle scuole tradizionali viene giustificato con la necessità di mantenere una postura corretta, per prevenire problemi di salute come la scoliosi. Tuttavia, Montessori sostiene che il banco costringe i bambini a rimanere immobili e impedisce loro di esplorare liberamente, di agire, e quindi di conoscere. Inoltre, in una simile condizione, risulta impossibile per l’insegnante osservare scientificamente il comportamento del bambino, poiché, secondo l’autrice, sarebbe come cercare di studiare le farfalle attraverso esemplari morti chiusi in una scatola. Per questo motivo, Montessori propone un ambiente educativo che favorisca l’attività spontanea del bambino. In particolare, l’arredamento è progettato in modo da essere proporzionato alla sua altezza, con tavolini di forme e misure diverse, stabili ma facilmente trasportabili, sedie leggere e poltroncine di vari materiali, mobili e lavandini accessibili, lavagne di dimensioni adatte, e quadri con soggetti diversi. Un ambiente di questo tipo permette ai bambini di scegliere autonomamente cosa fare e favorisce la formazione spontanea di gruppi di lavoro che si dedicano contemporaneamente a attività diverse. Questo tipo di organizzazione offre al bambino la libertà di esplorare e di intraprendere esperienze di apprendimento basate sui propri interessi e inclinazioni. Anche il materiale didattico ha un ruolo fondamentale nello sviluppo sensoriale e cognitivo dei bambini. Montessori crea oggetti specifici, come incastri solidi, blocchi geometrici e lettere, che variano progressivamente in relazione a una sola caratteristica (come peso, colore, forma, altezza, ruvidezza, ecc.) e che permettono ai bambini di esercitare uno specifico senso alla volta, affinando le loro percezioni e capacità. Montessori crede che il bambino, immerso in un caos di esperienze, abbia bisogno di creare un ordine interiore. Inizialmente, Montessori ideò questo materiale didattico per bambini disabili, ispirandosi agli studi di pedagogisti come Jean Itard e Edouard Séguin, ma successivamente estese il suo metodo a tutti i bambini, di ogni età e grado di istruzione, man mano che la sua pedagogia veniva riconosciuta e diffusa. Grazie a questo tipo di esercizi sensoriali, il bambino acquisisce senza sforzo abilità fondamentali come il calcolo, il disegno, la scrittura e la lettura, che Maria Montessori definisce come la “quadriga trionfante”. Tuttavia, l’attenzione centrale sull’ambiente e sui materiali ha portato anche a delle critiche nei confronti della pedagogia montessoriana. Da un lato, la scuola montessoriana è stata accusata di essere troppo rigida nell’uso del materiale scientifico, dall’altro di non dare sufficiente importanza al ruolo dell’insegnante. Secondo l’approccio montessoriano, tuttavia, l’insegnante non è affatto una figura assente. Al contrario, egli ha un ruolo di guida che, per certi aspetti, è ancora più complesso di quello che ricopre nella scuola tradizionale. Sebbene non sia opportuno che l’educatore parli, comandi o controlli costantemente, gli viene richiesto di essere una guida amorevole e autorevole, capace di organizzare lo spazio in modo tale da rendere possibili attività culturali diversificate e significative. Montessori scrive nella sua opera La Scoperta del Bambino (1950) che l’insegnante, nel sistema montessoriano, deve essere “paziente”, più che “attivo”. La pazienza dell’insegnante deve essere accompagnata da un’ansiosa curiosità scientifica e da un rispetto profondo verso il fenomeno che sta osservando. Il maestro deve comprendere e accogliere la sua posizione di osservatore, con l’obiettivo di facilitare il completo dispiegamento della vita del bambino. In questo processo, l’insegnante “imparerà dal fanciullo” i mezzi e la via per perfezionarsi come educatore, comprendendo che il bambino è una guida per il proprio sviluppo educativo. In sintesi, l’approccio montessoriano enfatizza l’importanza di un ambiente educativo che favorisca l’autonomia e la libertà del bambino, supportato da materiali didattici adeguati e proporzionati alle sue necessità. In questo contesto, l’insegnante non è una figura dominante, ma una guida che facilita l’apprendimento, osservando e accompagnando il bambino nel suo processo di autoeducazione. EDUCAZIONE COSMICA Il concetto di “educazione cosmica”, elaborato da Maria Montessori durante gli anni trascorsi in India, rappresenta un aspetto centrale del suo pensiero pedagogico e si collega profondamente alle sue idee originali, che risalgono agli inizi del suo impegno educativo. Esso può essere inteso, secondo il pedagogista Raniero Regni, come un concetto che si presta a una triplice interpretazione. La prima di queste interpretazioni riguarda la sua applicazione come una forma particolare di presentazione dei contenuti culturali, pensata specificamente per i bambini tra i 6 e i 12 anni. In questa fase dello sviluppo, infatti, il bambino sviluppa una grande capacità immaginativa, una crescente sensibilità verso le problematiche morali e un inizio di socializzazione. Questa fase è contraddistinta da una spinta naturale del bambino a rispondere ai suoi “perché”, una spinta che lo porta a scoprire e comprendere le relazioni che uniscono tutti gli esseri viventi e il mondo che li circonda. Il bambino inizia ad avvertire il concetto di solidarietà umana, che si estende sia nello spazio che nel tempo, generando un senso di gratitudine verso le generazioni passate e verso gli esseri umani del presente, che, anche se inconsciamente, contribuiscono a un grande compito cosmico condiviso. L’educazione cosmica è, quindi, un metodo che risponde a questa evoluzione del bambino, offrendo quelle che Montessori chiama le “chiavi del mondo”, ossia le informazioni e gli strumenti necessari per comprendere la realtà in modo completo. In questo contesto, l’educazione non si limita a trasmettere semplicemente nozioni, ma permette al bambino di esplorare e comprendere le leggi che regolano l’universo e il posto dell’essere umano all’interno di esso, facilitando la sua connessione con la natura e con la storia. L’educazione cosmica diventa un’educazione globale che trascende le singole materie e si espande verso una visione integrata del mondo, fornendo al bambino le risorse per rispondere ai grandi interrogativi sull’esistenza. In una seconda interpretazione, l’educazione cosmica è vista come l’orizzonte più alto di qualsiasi tipo di educazione, non solo perché include tutte le discipline che trattano la natura e la storia, ma anche perché si occupa di rispondere alle domande profonde sul senso della vita. Queste domande, che vanno oltre il sapere scolastico e si estendono verso un interrogativo esistenziale, sono parte integrante dell’educazione cosmica. Essa abbraccia e supera tematiche legate all’educazione ecologica, alla pace e alla mondialità, poiché non si limita a insegnare fatti e concetti, ma promuove una riflessione più ampia sul nostro posto nel mondo e sulle interconnessioni tra tutti gli esseri viventi. Infine, l’educazione cosmica rappresenta il nucleo filosofico della concezione pedagogica che Maria Montessori ha sviluppato lungo tutta la sua vita. Il suo pensiero pedagogico è intrinsecamente segnato da un forte bisogno di unità, dalla ricerca di relazioni profonde che uniscono le parti all’insieme. Montessori ha sempre dato grande valore all’interdipendenza tra tutte le forme di vita, spingendo verso una visione globale che abbraccia ogni aspetto dell’esistenza, dall’individuo all’intero universo. La fiducia nel potenziale degli esseri viventi e un amore profondo per l’universo sono elementi fondamentali di questa pedagogia. Montessori riteneva che, per comprendere e insegnare al bambino, fosse necessario riconoscere nel bambino stesso il “maestro dell’umanità”, una figura capace di portare all’umanità stessa la chiave per comprendere la propria missione nel mondo. In sintesi, l’educazione cosmica montessoriana non si limita a un approccio scolastico tradizionale, ma offre una visione più ampia dell’educazione come un processo che unisce conoscenze e valori, che educa alla vita e alla sua interconnessione, permettendo ai bambini di affrontare le sfide della vita con una consapevolezza globale e un profondo rispetto per l’ambiente, la società e l’universo. -CONIUGI FREINET: Il pensiero pedagogico di Célestin ed Élise Freinet si sviluppa in un contesto geopolitico segnato da cambiamenti profondi, come le due guerre mondiali, l’ascesa dei movimenti di estrema destra, l’ideale comunista e socialista, le innovazioni tecnologiche, la lotta delle classi sociali subalterne e, infine, il fallimento della scuola nei confronti dei bambini provenienti dai ceti meno abbienti. I Freinet sono politicamente impegnati nelle organizzazioni di sinistra e condividono la convinzione che la scuola tradizionale sia troppo distante dalle esigenze degli alunni e dai bisogni della società. Secondo loro, essa riproduce le disuguaglianze sociali, poiché consente agli scolari più preparati di migliorare nelle materie che già conoscono, ma esclude i più poveri, lasciandoli indietro. Con un forte desiderio di rinnovamento, Célestin ed Élise Freinet danno vita alla pedagogia popolare, un progetto che può essere sintetizzato nella creazione di una scuola “del” popolo “per” il popolo. La pedagogia popolare, come concepita dai Freinet, introduce una rottura sia politica che epistemologica rispetto alla costruzione del sapere tradizionale e lo traduce in un progetto concreto di autoemancipazione per le categorie sociali più povere. Questo processo educativo si sviluppa attraverso attività legate a situazioni concrete e all’ambiente di vita degli educandi, in modo da rendere l’apprendimento il più possibile pertinente e radicato nella realtà sociale dei bambini. Inoltre, i Freinet denunciano lo sfruttamento dei lavoratori e sostengono un modello di lavoro qualificato e cooperativo, non subordinato all’ordine capitalistico. Nel 1928, fondano la Cooperativa dell’insegnamento laico (Cel), con l’intento di promuovere una scuola di qualità per tutti, equipaggiata con materiali e tecniche adeguate ai bisogni individuali degli studenti, indipendentemente dalle loro differenze di intelligenza, classe sociale o carattere. La pedagogia dei Freinet si basa su quello che loro definiscono un “educazione del fare”, che trova una sua espressione pratica nella stamperia scolastica, un esempio emblematico di questo approccio. Tale educazione è associata al legame con la natura, al modello del lavoro contadino e ai valori dell’imparare a imparare in modo cooperativo. Secondo i Freinet, lo scopo finale dell’educazione è “far sbocciare la vita”, liberando l’espressività di ogni alunno e orientandolo al pensiero e all’azione all’interno di una comunità scolastica che si interessa non solo della dimensione sociale del villaggio, ma anche della nazione e del mondo. In questo contesto, l’adulto che esce da questo tipo di educazione è una persona aperta alla socialità e alla solidarietà, capace di costruire il sapere in modo cooperativo, e quindi preparata a partecipare attivamente alla società. I bambini, così come le donne e gli uomini a cui i Freinet guardano, sono considerati sperimentatori lungo tutto il corso della loro vita, liberi da sottomissioni culturali e sociali. Sono capaci di sottrarsi alle strumentalizzazioni e al dominio delle classi che detengono il potere. I Freinet li considerano “rivoluzionari” nel momento in cui sono in grado di mettere in discussione il regime capitalista e di costruire una nuova cultura, una cultura che appartiene al popolo. LA SCUOLA VIVA La pedagogia Freinet si fonda su due domande fondamentali: come suscitare il desiderio di imparare? E come riscoprire il piacere di stare a scuola e impegnarsi per migliorare la propria condizione di vita e quella degli altri? Queste domande pongono una critica alla prospettiva educativa tradizionale, che si basa sull’idea di un sapere oggettivo e scientifico, ottenibile attraverso un metodo che separa gli oggetti di studio dal loro contesto. Al contrario, la scuola Freinet è concepita come un laboratorio del fare, dove tutti gli studenti possono partecipare attivamente e ogni bambino è incoraggiato a esprimere e sviluppare, in modo cooperativo e personalizzato, il proprio “potenziale massimo di vita”, ossia l’energia vitale che ogni individuo porta con sé. L’apprendimento diventa così il risultato di esperienze dirette e di un circolo virtuoso che si rigenera continuamente, promuovendo la crescita e la conoscenza. L’azione collettiva stimola il desiderio di sperimentare e di continuare ad apprendere. La pedagogia Freinet si articola su tre dimensioni fondamentali: ​ 1.​ L’apertura al mondo naturale e sociale: gli alunni sono invitati a porsi domande su vari aspetti della realtà, come i problemi sociali, l’economia, la politica, la cultura, la storia, e a osservare e comprendere la natura e la materialità delle cose. Questo approccio promuove la vitalità di ciascun alunno, stimolando il pensiero critico e autocritico. ​ 2.​ L’educazione al lavoro: la scuola integra il lavoro manuale qualificato nel processo di apprendimento cognitivo e sociale, con strumenti come il laboratorio di stampa, che permette la diffusione dei materiali prodotti. L’educazione si basa su principi di cooperazione, laicità, democrazia e anticapitalismo, senza imposizioni esterne. Gli studenti sono chiamati a imparare tecniche e metodi pedagogici, attraverso una continua ricerca psicopedagogica condivisa. ​ 3.​ La pratica della ricerca: una componente centrale dell’apprendimento è la ricerca, che risponde alla curiosità naturale degli individui, bambini e adulti. Apprendere attraverso la ricerca aiuta a comprendere meglio il mondo reale e ad acquisire la capacità di imparare a imparare. La ricerca deve essere svolta in gruppo, e prevede la costruzione di domande, la selezione di temi e la risoluzione di problemi. Ogni fase del lavoro viene documentata e condivisa, con una valutazione collettiva dei risultati e del metodo. La documentazione prodotta sostituisce i tradizionali libri di testo, ed è condivisa con altre scuole, arricchendo il processo di apprendimento. La ricerca e la documentazione sono applicabili a tutte le età, coinvolgendo anche gli adulti, come insegnanti ed educatori. In questa scuola, ogni materiale didattico è creato collettivamente, e la documentazione sostituisce i tradizionali testi scolastici. Il processo di ricerca e documentazione è praticato a tutti i livelli, dalla scuola materna alle scuole superiori. Gli adulti sono coinvolti nella stimolazione dell’interesse dei più giovani, e partecipano attivamente al confronto educativo. La riflessione pedagogica e l’interazione tra educatori sono fondamentali per la crescita dell’intero gruppo. La classe Freinet è strutturata come uno spazio ordinato, dove ogni cosa è al suo posto e facilmente accessibile a tutti. È organizzata come un laboratorio con diverse aree di attività: stampa, audiovisivi, angolo artistico, falegnameria, cucito, cucina, teatro. Non sono previsti voti, né classifiche: il sistema di valutazione è basato sulla cooperazione e sull’autovalutazione. Gli studenti sono coinvolti nella costruzione del proprio piano di lavoro, e sono incoraggiati a esprimersi attraverso disegni e testi liberi. L’insegnamento è intuitivo, partendo dalle esperienze quotidiane. LE TECNICHE Secondo Célestin Freinet, le tecniche sono procedure didattiche progettate per stimolare negli alunni il desiderio di conoscere, scoprire e imparare attraverso il fare. Questi strumenti permettono di dare forma all’azione e alla creatività, di sperimentare i valori di una pedagogia popolare orientata al sapere, al saper fare, e al saper essere. Le tecniche sono interconnesse tra loro, alimentandosi reciprocamente e permettendo una continua interazione. ​ 1.​ La tipografia in classe: uno degli strumenti principali è la tipografia scolastica, che permette di lasciare traccia delle esperienze in classe. La stampa diventa lo strumento quotidiano per comunicare, esplorare e conoscere. I bambini utilizzano la tipografia per produrre testi che restano nel tempo, creando un prodotto che diventa pubblico. L’apprendimento è integrato nel processo di sviluppo individuale e sociale, coniugando il sapere con il saper fare e utilizzando sia la mente che le mani per costruire insieme una pagina, un giornale o un racconto. Questo processo cooperativo aiuta gli studenti a imparare a lavorare insieme e a creare un sapere condiviso. ​ 2.​ Il testo libero: è un testo scelto dall’alunno o da un gruppo di alunni, non imposto dal maestro. Risponde ai desideri di espressione dei ragazzi e può trattare aspetti della loro vita personale e del loro ambiente. Sebbene spontaneo, il testo viene confrontato con altri testi liberi, e può evolversi in un testo comunitario. Il processo di scrittura diventa un’opportunità per riflettere sulla propria esperienza e pensare insieme agli altri. Il testo libero è strettamente legato alla tipografia, poiché molti di questi scritti vengono stampati. L’espressione individuale si trasforma in conoscenza condivisa, e gli alunni si sentono costruttori di un sapere che può essere trasmesso agli altri. ​ 3.​ La corrispondenza interscolastica: un altro strumento importante è la corrispondenza tra scuole, che coinvolge ogni alunno. Inizialmente le lettere venivano inviate tra scuole della stessa regione, ma successivamente si è estesa anche oltre i confini nazionali e europei. La corrispondenza aiuta gli studenti a imparare geografia, storia, scienze e a sviluppare la partecipazione sociale. Confrontandosi con altre realtà scolastiche e sociali, i bambini arricchiscono la propria esperienza. ​ 4.​ Lo schedario: al posto dei tradizionali libri di testo, Freinet introduce lo schedario, un’enciclopedia del sapere infantile che cresce attraverso il contributo collettivo. Ogni bambino può accedere a questo materiale, arricchendolo con nuove scoperte e aggiornamenti. Lo schedario diventa un’opera collettiva in continua evoluzione. ​ 5.​ I piani di lavoro: nella scuola Freinet, i piani di lavoro non sono imposti dall’esterno, ma sono frutto di una collaborazione tra insegnanti e studenti. Le attività sono concordate in classe e pianificate a lungo e breve termine. La programmazione settimanale e quotidiana è costruita insieme, e include attività legate al ciclo delle stagioni o ad altri interessi degli studenti. Ogni piano di lavoro è controfirmato dai genitori, creando un dialogo continuo tra scuola e famiglia. Gli studenti sono anche responsabili della loro autovalutazione, e attraverso questo processo sviluppano una disciplina autonoma che li responsabilizza sia nei confronti di sé stessi che degli altri. IL METODO NATURALE SPERIMENTALE E IL TÂTONNEMENT EXPÉRIMENTAL Il metodo pedagogico Freinet si basa sull’uso delle tecniche per conoscere la realtà, ma il suo vero obiettivo è la libertà completa degli esseri umani. La libertà, per i Freinet, significa liberarsi dallo sfruttamento, dalle disuguaglianze e dall’imposizione di teorie astratte. Un concetto centrale nella pedagogia Freinet è il “metodo naturale”: i bambini sono considerati creatori di conoscenza, e l’apprendimento avviene “in situazione”, attraverso l’esperienza diretta e la capacità di interpretare le proprie esperienze. Non c’è costrizione nell’apprendimento, ma un impulso naturale che spinge i bambini a scoprire, imparare e crescere. Il metodo naturale si sviluppa attraverso il “tâtonnement expérimental”, che significa “andare a tentoni in modo sperimentale”. Questo processo si compone di tre fasi: ​ 1.​ I bambini esplorano tutte le possibilità per scoprire il mondo. ​ 2.​ Memorizzano le modalità con cui hanno raggiunto i loro obiettivi e le ripetono. ​ 3.​ Fissano queste modalità in abitudini e regole di vita. L’ambiente di apprendimento deve essere curato attentamente, in modo che i bambini siano stimolati a pensare e scoprire autonomamente, senza essere guidati da soluzioni predefinite. L’accompagnamento degli educatori e la riflessione condivisa sono essenziali in questo processo. L’apprendimento diventa così un continuo tâtonnement, in cui non si cercano certezze, ma si sviluppano processi evolutivi che portano ogni bambino a scoprire il proprio “slancio vitale”, interagendo con gli altri. -DEWEY John Dewey è riconosciuto come uno dei più grandi pensatori dell’educazione di tutti i tempi e il principale teorico dell’attivismo pedagogico. È anche uno dei massimi esponenti del pragmatismo, che elabora in una forma originale, chiamata “strumentalismo”. Sebbene costituisca un punto di riferimento fondamentale per il movimento delle “scuole nuove”, nelle sue opere più mature Dewey critica apertamente le ingenuità e i limiti di questo stesso movimento, cercando di prendere le distanze da interpretazioni equivoche della sua opera. Secondo Dewey, infatti, vi è il rischio che le innovazioni didattiche, nella loro volontà di opporsi alla scuola tradizionale, partano da un rifiuto radicale ma senza riuscire a costruire una proposta educativa positiva ed efficace. Mentre la scuola tradizionale si fonda sulla celebrazione del passato e sull’autorità esclusiva del maestro, le scuole nuove, al contrario, rischiano di abolire completamente ogni riferimento al passato e di considerare ogni intervento dell’adulto come una limitazione della libertà dell’alunno. Per Dewey, non basta proclamare la libertà: occorre interrogarsi sul significato della libertà stessa e sul ruolo attivo che il maestro deve svolgere nel facilitarne l’espressione. Una delle critiche principali che Dewey muove alle scuole nuove riguarda il concetto di esperienza: non tutte le esperienze, infatti, sono educative. Alcune possono essere caotiche, prive di direzione e dannose per lo sviluppo futuro dell’individuo. Nel libro Esperienza e educazione (1938), Dewey si concentra proprio sulla necessità di chiarire cosa si intenda per esperienza educativa. Egli parte da tre assunti fondamentali: innanzitutto, esiste un’intima connessione tra esperienza ed educazione, e mentre le scuole nuove hanno compreso in linea di principio questo legame, la scuola tradizionale lo ha ignorato, imponendo contenuti scollegati dalla vita degli alunni; inoltre, l’esperienza nasce dall’interazione tra l’educando (con i suoi bisogni, capacità e desideri) e l’ambiente sociale e fisico in cui è immerso; infine, ogni esperienza attuale influenza e condiziona quelle future, in una continuità dinamica. Dewey sostiene che l’esperienza è autenticamente educativa quando parte dalle condizioni fisiche, sociali, economiche e storiche reali ma viene adattata dall’educatore alle caratteristiche specifiche degli alunni; quando, inoltre, allarga il campo dell’esperienza futura, preparando la mente a nuove problematiche e nuove osservazioni; infine, quando viene connessa, organizzata e integrata in un sapere più ampio e sistematico. A questo proposito, Dewey rimprovera alle scuole progressiste di aver sottovalutato l’importanza dell’organizzazione disciplinare del sapere: se è vero che si deve partire dall’esperienza degli studenti e non da conoscenze astratte, è altrettanto vero che queste esperienze devono essere orientate e approfondite in modo da espandere realmente il sapere. La funzione dell’educatore, quindi, non è indebolita, bensì potenziata: egli ha il compito attivo e responsabile di organizzare e orientare l’esperienza educativa. Secondo Dewey, infatti, la scuola tradizionale fallisce perché si limita a trasmettere contenuti già pensati da altri, insegnando a ripetere e non a pensare autonomamente. Una scuola veramente educativa dovrebbe invece coinvolgere gli studenti in attività dotate di significato, stimolando il pensiero nella ricerca dei mezzi migliori per raggiungere fini considerati personalmente desiderabili. L’intelligenza si attiva proprio nella ricerca di soluzioni ai problemi, perciò l’apprendimento deve basarsi su attività che riflettano la vita quotidiana, come il gioco e il lavoro, entrambi caratterizzati dalla selezione e dall’adattamento di materiali a uno scopo. Dewey sottolinea come il gioco e il lavoro non siano realmente distinti nella prima infanzia: il lavoro implica una concentrazione più prolungata, ma anche il gioco richiede serietà e impegno. Perciò, l’ambiente scolastico deve essere organizzato in modo da favorire esperienze reali, attraverso attività come il giardinaggio, la tessitura, la cucina, la falegnameria, non per addestrare a professioni future, ma per sviluppare capacità cognitive e manuali integrate. L’insegnamento deve proporre problemi che stimolino l’esplorazione e la riflessione, difficili quanto basta per essere stimolanti ma non irraggiungibili. Nel suo libro Come pensiamo (1910), Dewey descrive il processo del pensiero come un procedimento che parte dall’incontro con una situazione problematica che richiede la sospensione dell’azione, prosegue con l’emergere di idee su possibili soluzioni, continua con l’esame critico di queste idee fino alla formulazione di ipotesi, e termina con la verifica pratica delle ipotesi stesse. Anche il fallimento, quando un’ipotesi viene confutata dai fatti, produce apprendimento perché aiuta a comprendere meglio il problema e a riformulare nuove ipotesi. Questo metodo sperimentale, tipico della scienza, deve essere il modello dell’insegnamento scolastico, per stimolare il pensiero critico e creativo. Dewey ammira profondamente lo spirito scientifico perché fondato sul dubbio, sull’amore per la verità, sulla disponibilità a mettere in discussione anche le proprie convinzioni e sull’interesse genuino per la ricerca. Questo atteggiamento, secondo lui, ha promosso una nuova morale sociale più aperta e democratica. Proprio il tema della democrazia è centrale nel pensiero di Dewey, che la considera la migliore forma di governo per la qualità e l’intensità degli interessi comuni che lega le persone e per le opportunità di interazione che offre. Per Dewey, la democrazia non è qualcosa di acquisito una volta per tutte, ma va continuamente rinnovata, adattata ai bisogni e ai cambiamenti della società. Il progresso scientifico, industriale e sociale ha creato le condizioni di base per la democrazia, ma è necessario coltivarle attivamente attraverso l’educazione. Nel suo libro Democrazia e educazione (1916), Dewey afferma che l’educazione è lo strumento principale per il rafforzamento della democrazia: la scuola deve essere organizzata come una comunità democratica, fondata sul dialogo, sulla cooperazione e sulla responsabilità condivisa, in netto contrasto con la scuola tradizionale, che era invece fondata sulla competizione e sull’autoritarismo. Aiutare gli altri diventa un modo per liberare le capacità individuali e contribuire a un bene comune, che è il vero metro del valore di una comunità. Nello stesso tempo, Dewey sottolinea che anche la democrazia è al servizio dell’educazione: la partecipazione attiva di ogni individuo, il contributo offerto da ciascuno in base alla propria esperienza, è la base di una vera formazione. Attraverso la partecipazione, si sviluppa un controllo sociale naturale, senza bisogno di imposizioni esterne. L’insegnante, in questa prospettiva, non è più un’autorità esterna che impone regole dall’alto, ma diventa un “direttore di attività associate”, un facilitatore che guida i processi di apprendimento collettivo e partecipato. -GENTILE Giovanni Gentile, nel suo Sommario di pedagogia come scienza filosofica pubblicato tra il 1913 e il 1914, afferma che solo la filosofia può davvero porre e comprendere correttamente i problemi dell’educazione. Questioni come l’educabilità dell’uomo, il rapporto tra libertà e azione educativa, le condizioni e i limiti dell’educazione, secondo Gentile, non possono essere studiate scientificamente, ma solo filosoficamente. La filosofia, infatti, si occupa di entrambi gli aspetti fondamentali dell’educazione: da un lato, dell’uomo com’è realmente (ponendosi domande come: come si forma l’uomo? come cresce lo spirito umano? quali leggi guidano la formazione dell’individuo?) e, dall’altro, dell’uomo come deve essere (chiedendosi: come si deve educare? quale uomo vogliamo formare?). Gentile critica gli approcci scientifici, come la psicologia e la sociologia, perché, a suo giudizio, affrontano il problema educativo solo in modo parziale e spesso contraddittorio. Per questo motivo, egli identifica la pedagogia con la filosofia e si oppone al positivismo che dominava la cultura scientifica del suo tempo, e in particolare alle idee pedagogiche di Johann Herbart, che vedeva il processo educativo come diviso e frammentato. Gentile, invece, vuole eliminare tutte le opposizioni che avevano segnato il pensiero pedagogico, come quelle tra educazione negativa e positiva, tra istruzione e disciplina, tra educazione religiosa e scientifica. Il suo punto di partenza è superare l’antinomia, cioè il contrasto apparente, tra la libertà dell’educando e l’autorità dell’educatore. Con il termine “antinomia”, Gentile indica il conflitto tra due affermazioni che sembrano entrambe vere: da una parte, che l’uomo è libero; dall’altra, che l’educazione limita questa libertà. Per Gentile, la libertà dell’uomo non è in discussione: l’uomo è l’unico essere davvero libero, perché le sue azioni non sono determinate né da forze esterne né da meccanismi interni, ma nascono dal pensiero, dal giudizio, dalla volontà. L’educazione stessa presuppone la libertà dell’educando: se non fosse capace di pensare, di scegliere, non potrebbe nemmeno essere educabile. Inoltre, l’educazione ha come scopo proprio quello di sviluppare la libertà dell’individuo, rendendolo sempre più padrone di sé stesso. Tuttavia, nello stesso tempo, l’educazione sembra negare la libertà, perché l’educatore interviene sull’alunno, imponendogli regole, orientandone il carattere, limitando i suoi impulsi spontanei. Come risolvere questa contraddizione? Gentile risponde che la negazione della libertà è solo apparente: la vera educazione non consiste nel costringere l’alunno dall’esterno, ma nel fargli interiorizzare, cioè far diventare suoi, i valori, le idee, le conoscenze che il maestro propone. Come scrive Gentile negli Scritti pedagogici (1937), nulla di ciò che l’insegnante semina può davvero attecchire se non viene fatto proprio dagli alunni, se non diventa frutto della loro attività spirituale, del loro giudizio critico. In questo senso, il vero maestro non è qualcosa di esterno all’alunno: è l’alunno stesso, nel dinamismo del suo sviluppo. Ogni vera educazione è, dunque, sempre autoeducazione: se questo processo non avviene, non si può nemmeno parlare di vera educazione. Tuttavia, anche in caso contrario, l’intervento del maestro non è inutile, perché stimola comunque la reazione personale dell’alunno e il suo desiderio di autonomia. Da questa concezione deriva l’idea fondamentale, per Gentile, che tra maestro e scolaro ci sia un’unità assoluta e profonda. Questa idea si fonda su uno dei principi cardine dell’attualismo, la filosofia originale di Gentile: la realtà non esiste fuori di noi, ma prende vita attraverso il nostro pensiero. La realtà, secondo Gentile, è «il lavoro dello spirito». In questa prospettiva, anche l’educazione viene vista come una missione spirituale: l’educatore deve credere nella vita spirituale dei suoi alunni e deve aiutarli a realizzarla, guardando non solo a quello che sono, ma soprattutto a quello che potranno diventare. Nonostante questa visione dinamica della realtà, l’approccio pratico di Gentile è diverso da quello dell’attivismo pedagogico. Gli attivisti, infatti, sostenevano che bisognava costruire la scuola attorno agli interessi dei bambini, veri protagonisti del loro apprendimento. Gentile invece non crede alla specificità dell’infanzia né ritiene importante il metodo didattico. Ribadisce la centralità del maestro e della cultura tradizionale. Scrive, anzi, che la scuola deve rimanere con il maestro in cattedra, con la sua autorità e con la limitazione della spontaneità degli alunni: una limitazione che, secondo lui, è solo apparente (La riforma dell’educazione, 1920). Gentile contesta anche la visione della scuola come “carcere” o “luogo di tormento”, che a suo dire è stata un’ingiustizia perpetuata nei secoli. 1.2 LA RIFORMA DELL’ISTRUZIONE Nel 1923, Gentile realizza una grande riforma dell’istruzione italiana, conosciuta come “riforma Gentile”, in collaborazione con Giuseppe Lombardo Radice ed Ernesto Codignola. Questa riforma ha cambiato profondamente e a lungo termine la scuola e l’università in Italia. Tra le novità principali: ​ ​ Obbligo scolastico: viene portato fino ai 14 anni, includendo anche i bambini ciechi e sordi. La scuola dell’infanzia resta facoltativa e privata. L’obbligo scolastico comprende cinque anni di scuola elementare gratuita, seguiti da un corso triennale di avviamento al lavoro per chi non proseguiva negli studi superiori. ​ ​ Scuola elementare: viene divisa in due cicli (tre anni + due anni). Qui si applica la pedagogia idealista di Gentile e Lombardo Radice: il maestro è più importante del metodo didattico, e la religione cattolica diventa materia obbligatoria. ​ ​ Scuola secondaria: si accedeva intorno ai 10 anni e subì molti cambiamenti. Si creano vari tipi di scuole: ​ ​ Scuole complementari di tre anni, pensate per i ceti popolari, che poi diventeranno scuole di avviamento professionale e che non insegnavano il latino. ​ ​ Istituti magistrali, tecnici e i licei classici, che formavano la futura classe dirigente. ​ ​ Liceo scientifico e liceo femminile, accessibili dai 14 anni. Non esisteva una scuola media unica, che sarà introdotta solo nel 1962. L’insegnamento della religione nella scuola superiore era facoltativo e affidato a insegnanti nominati dalla Chiesa. Gli esami di ammissione erano obbligatori per accedere alle scuole superiori e l’esame di maturità veniva svolto da commissioni esterne. Gli insegnanti, inoltre, si trovarono a dover insegnare più materie accorpate (come filosofia e pedagogia, italiano e latino, matematica e fisica). ​ ​ Amministrazione scolastica: venne centralizzata. Il ministero dell’Istruzione aveva il pieno controllo sulle nomine dei rettori universitari e dei dirigenti scolastici. Le elezioni scolastiche vennero abolite, rafforzando il potere verticale dello Stato. ​ ​ Università: anche qui venne introdotto un sistema centralizzato. I rettori venivano nominati dal ministero e non più eletti. Lo Stato riconosceva anche le università private o semi-private. In generale, la riforma aveva un carattere: ​ ​ Nazionalista: rafforzava il ruolo dello Stato come organizzatore della vita nazionale, facendo della scuola uno strumento di rinascita spirituale collettiva, anche se rischiava di essere strumentalizzata dal regime fascista. ​ ​ Conservatore: si opponeva alle innovazioni pedagogiche moderne e dava un’enorme importanza alla cultura umanistica rispetto a quella scientifica. ​ ​ Elitista: selezionava le classi dirigenti, penalizzando i giovani dei ceti popolari che, senza accesso alla scuola secondaria, avevano poche possibilità di migliorare la loro condizione sociale. Nel 1924, dopo l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, Gentile lasciò il ministero dell’Istruzione per motivi politici. I suoi successori modificarono gradualmente la riforma in senso ancora più autoritario. Nel 1929, ad esempio, venne introdotto un unico libro di testo obbligatorio per tutte le scuole elementari, eliminando qualsiasi libertà didattica. Gentile, deluso, si ritirò dalla politica attiva e si dedicò principalmente agli studi. Non appoggiò neanche l’estensione dell’insegnamento obbligatorio della religione cattolica alla scuola superiore, introdotta dopo i Patti Lateranensi. Nonostante i tentativi di superare la sua riforma dopo la fine del fascismo, l’impronta di Gentile sull’istruzione italiana è durata fino agli anni Sessanta. -MAKARENKO. 2.1 CONTESTUALIZZAZIONI STORICHE: LA RIVOLUZIONE RUSSA Il testo si apre affermando che la Rivoluzione Russa del 1917, chiamata anche rivoluzione bolscevica, è uno degli eventi che più profondamente hanno scosso la coscienza contemporanea. Non viene considerata un evento isolato, ma come il culmine di un processo iniziato già con le insurrezioni del 1905, che avevano già evidenziato il malcontento diffuso nel Paese. All’inizio del Novecento, l’Impero russo aveva un’estensione colossale: occupava un sesto dell’intera superficie terrestre. Era un impero multietnico, dove convivevano molte culture, lingue e popoli differenti. Tuttavia, nonostante questa diversità, il sistema politico era fortemente autoritario, dominato dallo zar, cioè il monarca assoluto. Al vertice del potere stava quindi una sola figura con un controllo totale. Inoltre, dal punto di vista economico e sociale, una piccola élite composta da poche migliaia di grandi proprietari terrieri deteneva circa metà di tutte le terre coltivabili, mentre la grande maggioranza della popolazione viveva in condizioni di estrema povertà. Quando scoppiò la Prima guerra mondiale, la Russia vi prese parte ma questo aggravò ulteriormente le già precarie condizioni della popolazione. Le privazioni causate dalla guerra – fame, disoccupazione, morte, freddo – portarono a un’esplosione del malcontento. Tale insoddisfazione si manifestò a febbraio del 1917, quando a Pietrogrado (che oggi è San Pietroburgo), il popolo si sollevò in protesta. In questo frangente, l’esercito che avrebbe dovuto difendere il regime si rifiutò di reprimere la rivolta e si unì ai manifestanti. Questo gesto segnò la fine del potere dello zar Nicola II, che fu costretto ad abdicare. Dopo l’abdicazione si formarono due governi provvisori, uno successivo all’altro. Tuttavia, entrambi rimasero sordi alle richieste del popolo, soprattutto a quella più urgente e diffusa: la fine della guerra. In questo contesto tornò dall’esilio Vladimir Lenin, un rivoluzionario che già in passato aveva svolto attività politica contro lo zar ed era stato perciò costretto all’esilio. Lenin era il leader dei bolscevichi, che erano la corrente maggioritaria e più radicale del Partito operaio socialdemocratico russo. Tornato in patria, riprese la guida del movimento rivoluzionario. Parallelamente si diffusero i soviet, cioè consigli popolari formati da operai, contadini e soldati, che avevano già fatto la loro comparsa nella rivoluzione del 1905. Nel 1917 però si moltiplicarono in tutto il Paese e diventarono organi di autogoverno locale e di organizzazione politica dal basso. I bolscevichi ottennero sempre più appoggio proprio all’interno dei soviet grazie a tre slogan potenti e diretti: ​ ​ “Tutto il potere ai soviet” (cioè il potere non deve più stare nelle mani del governo o dello zar, ma direttamente nei consigli popolari), ​ ​ “Pace subito” (cioè uscire immediatamente dalla guerra), ​ ​ “Terra ai contadini” (cioè redistribuire le terre ai veri lavoratori della terra). Con questo crescente consenso, a ottobre 1917 (novembre secondo il calendario gregoriano oggi in uso), i bolscevichi presero il potere. L’azione rivoluzionaria fu appoggiata dai soviet stessi, riuniti in congresso, che in quella sede approvarono due misure fondamentali: ​ ​ La redistribuzione delle terre, ​ ​ L’inizio del processo di creazione di una Assemblea costituente, che avrebbe avuto il compito di scrivere una nuova Costituzione per il neonato Stato rivoluzionario. Tuttavia, nelle elezioni per questa Assemblea, i bolscevichi non ottennero la maggioranza: vinsero i socialdemocratici (cioè un’altra forza rivoluzionaria ma meno radicale). Lenin, allora, sciolse l’Assemblea appena costituita e, rompendo con le forme rappresentative tradizionali, proclamò un nuovo modello di democrazia, che lui definì “democrazia diretta”, basata unicamente sui soviet. Così nacque la Repubblica socialista federativa sovietica russa. Nel 1918, Lenin firmò un trattato di pace con la Germania: si trattava di un accordo svantaggioso, perché la Russia perse territori e influenza, ma era considerato necessario per uscire dalla guerra e concentrarsi sulla rivoluzione interna. Tuttavia, proprio dopo la pace, esplose una guerra civile tra l’Armata Rossa (bolscevica) e le forze controrivoluzionarie (sostenute anche da potenze straniere). Questa guerra durò fino al 1922. Quando i bolscevichi ebbero la meglio, la Repubblica socialista federativa sovietica russa fu trasformata nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS o Unione Sovietica). Durante il governo di Lenin, cominciò un processo di centralizzazione del potere: i soviet persero progressivamente il loro ruolo decisionale, ridotti a organismi puramente amministrativi, mentre tutte le decisioni si concentrarono nelle mani del Partito comunista. Dopo la morte di Lenin, questo processo fu portato alle estreme conseguenze da Stalin. Questi sostenne la dottrina del “socialismo in un solo paese”, contraddicendo l’obiettivo originario della Terza Internazionale, fondata nel 1919 a Mosca, che prevedeva la diffusione della rivoluzione in tutto il mondo. Con Stalin si instaurò un regime autoritario e repressivo, che si mantenne fino al crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Perfetto. Proseguiamo con la spiegazione dettagliata della seconda parte del testo: 2.2 FORMARE L’UOMO E LA DONNA NUOVI: IL COLLETTIVO PEDAGOGICO DI MAKARENKO Questa sezione si concentra sulla figura e l’opera di Anton Semënovič Makarenko, un educatore e scrittore sovietico attivo dopo la Rivoluzione russa e durante la guerra civile (1918-1922). Egli non operò in un contesto neutro, ma fu coinvolto direttamente nel progetto rivoluzionario del nuovo Stato sovietico. Condivise l’entusiasmo di quell’epoca nel costruire una nuova società socialista, che si fondasse su solidarietà, cooperazione e collettività. In questo clima, si dedicò alla formazione di quello che lui chiamava “l’uomo nuovo” e “la donna nuova”, cioè cittadini consapevoli, solidali e socialisti. Una delle conseguenze della rivoluzione e della guerra fu un drammatico aumento dei besprizorniki, cioè minori abbandonati: orfani, bambini di strada, giovani senza famiglia, spesso coinvolti nella criminalità per sopravvivere. Makarenko capì l’urgenza di dare una risposta concreta a questo problema sociale, ma non lo fece solo con un intento assistenziale: vide in essi la possibilità di educare e trasformare quegli individui emarginati in cittadini attivi e responsabili. Nel 1920, fondò nella città di Poltava (oggi in Ucraina) una colonia educativa chiamata “colonia Gor’kij”, dal nome dello scrittore Maksim Gor’kij, che sosteneva l’iniziativa. Qui cominciò la sua sperimentazione pedagogica concreta. Il contesto educativo in quel periodo In quel momento storico, molti educatori volevano abbandonare i metodi autoritari dell’epoca zarista e cercavano nuovi modelli educativi, più aperti, più liberi. Si era sviluppata una corrente chiamata pedologia, definita anche “scienza del bambino”, che voleva studiare i bambini in modo completo, tenendo conto della loro psicologia, biologia, comportamento, ecc. Tra le figure più importanti della tradizione pedagogica russa vi era Lev Tolstoj, celebre scrittore ma anche educatore e pacifista. Tolstoj aveva fondato una scuola popolare per bambini contadini nella sua tenuta di Jasnaja Poljana, ispirandosi a un ideale di libertà educativa. Nella sua opera Quale scuola? (1878), Tolstoj sosteneva che la scuola dovesse essere libera da obblighi, rimproveri, orari rigidi, e che l’educazione dovesse suscitare il desiderio naturale di imparare attraverso la libertà. La sua visione era quella di una scuola aperta, spontanea, non repressiva. Makarenko rispetta questo spirito comunitario e popolare di Tolstoj, ma rifiuta le tesi più radicalmente spontaneiste, cioè quelle che pensano che il bambino si sviluppi bene se lasciato totalmente libero, senza alcuna guida. Secondo Makarenko, questa libertà totale è un’illusione pericolosa: ritiene che l’essere umano non abbia dentro di sé in modo naturale valori come la solidarietà o il rispetto dell’altro, ma che questi vadano educati e coltivati con un intervento educativo strutturato. Nel suo libro Il poema pedagogico (1934-35), Makarenko racconta la sua esperienza nella colonia Gor’kij e critica i pedagogisti che si ostinavano a difendere la libertà assoluta dell’educazione, chiamandoli con ironia “l’Olimpo pedagogico”. Secondo lui, queste persone erano idealiste scollegate dalla realtà, influenzate dalle teorie di Jean-Jacques Rousseau, il filosofo illuminista che credeva in una naturale bontà e purezza del bambino, che andava lasciato libero di crescere in armonia con la natura. Makarenko rifiuta questo modello individualista, perché per lui rappresenta l’ideale di un uomo borghese, egoista, chiuso nel proprio mondo. La sua visione è invece marxista e collettiva: crede che la persona diventi etica e solidale solo attraverso la vita nel collettivo, cioè vivendo con gli altri, affrontando insieme le difficoltà e imparando a collaborare. Per questo motivo, l’educazione deve essere strutturata, organizzata, esigente, non improvvisata o lasciata al caso. Il collettivo pedagogico Makarenko concretizzò queste idee nella gestione delle sue comunità educative: la colonia Gor’kij e, in seguito, la comune di Charkov. In questi luoghi, l’educazione si basava su un collettivo pedagogico, cioè una comunità organizzata dove la vita quotidiana veniva regolata da principi di cooperazione, corresponsabilità, proprietà collettiva. Ogni collettivo era diretto da un direttore, ma funzionava grazie alla partecipazione di due sottogruppi: ​ 1.​ Il collettivo degli educatori, cioè gli insegnanti, educatori e adulti responsabili; ​ 2.​ Il collettivo degli educandi, cioè i ragazzi, che partecipavano attivamente alla gestione della vita comune. Makarenko sostiene che un insegnante diventa veramente bravo solo dopo anni di esperienza in un collettivo pedagogico. Inoltre, anche il gruppo dei ragazzi era organizzato in sotto-collettivi di base, ognuno dei quali aveva funzioni precise e permetteva lo sviluppo di capacità personali e il rispetto dei ruoli e delle responsabilità. Uno degli aspetti più discussi di Makarenko è il suo uso della disciplina, che oggi può sembrare rigida e militarizzata: i ragazzi portavano divise, partecipavano a marce, eseguivano rituali, accettavano gerarchie. Tuttavia, nel pensiero di Makarenko, questa organizzazione non aveva lo scopo di reprimere, ma di dare forma e coerenza alla vita comunitaria, per preparare i ragazzi alla realtà sociale e al lavoro. Makarenko sottolinea anche l’importanza della famiglia, che secondo lui deve essere coinvolta nel progetto educativo e collegata al collettivo, così come la realtà sociale e politica: l’educazione non è isolata, ma deve formare cittadini attivi in un mondo collettivo. Il valore del lavoro Un altro concetto fondamentale per Makarenko è il lavoro, ma non inteso come sfruttamento o fatica inutile. Nella sua opera Consigli ai genitori, egli chiarisce che il lavoro è una componente essenziale dell’educazione, a condizione che: ​ ​ sia produttivo e creativo, ​ ​ sviluppi il corpo, la mente e la morale, ​ ​ porti soddisfazione personale, ​ ​ serva a migliorare la società. In questa visione, il lavoro ha un valore etico e pedagogico, perché aiuta il giovane a costruirsi come individuo, a sentirsi parte della collettività, a contribuire alla civiltà umana.